mercoledì 27 gennaio 2016

Room (Room, 2015) di Lenny Abrahamson

Il piccolo Jack vive dalla nascita in una piccola stanza con sua madre Joy e quello è tutto il suo mondo, il ristretto luogo in cui può spaziare solo grazie alla forza della fantasia tipica dell’infanzia. Un letto, un lavandino, un televisore, un lucernario sul soffitto e l’armadio in cui si nasconde quando, la notte, arriva “old” Nick per dormire con sua madre. Ma quando Jack compie cinque anni, Joy gli svela un terribile segreto: esiste un altro mondo, immenso, promettente e misterioso, al di fuori della “stanza” ed il piccolo dovrà trovare la forza per aiutarla a liberarsi da Nick, un maniaco psicopatico che ha rapito la ragazza sette anni prima, costringendola a vivere, come sua prigioniera, in un capanno appositamente attrezzato per la loro nefasta “cattività”. Dal romanzo "Stanza, letto, armadio, specchio" di Emma Donoghue, Abrahamson ha tratto questo cupo e potente dramma psicologico dai toni oscuri, diviso in due parti profondamente diverse e con il climax emotivo assestato nel mezzo. Nella prima tranche, straordinaria, viviamo la rigida quotidianità dei due malcapitati attraverso lo sguardo infantile del piccolo Jack, cresciuto da Joy in un mondo di illusioni per essere protetto dalla terribile situazione. La forza di quello sguardo è quella della vita che sboccia, vigorosa e incontenibile, capace di trovare il buono anche nelle situazioni più tragiche ed oscure, capace di volare in alto anche in presenza di una gravosa zavorra, capace di tramutare lo squallore in magia, abbattendo tutte le barriere limitanti. Grazie all’eccellente recitazione dei due protagonisti (una intensa Brie Larson ed il sorprendente Jacob Tremblay) questo segmento dell’opera ci regala una miriade di emozioni sincere, con un costante crescendo della suspense nella preparazione del piano di fuga, che troverà il vertice del patos esattamente a metà film. Da lì in poi la pellicola diventa un’altra cosa, passando radicalmente dal thriller emozionale ad un dramma interiore sfumato e sottile, che riflette sulla difficoltà dei rapporti umani, sulla possibilità di poter avere una vita normale dopo un trauma così profondo e sul relativismo del giudizio umano: il mondo esterno, apparentemente allettante, potrebbe rivelarsi solo una prigione più grande in assenza delle giuste condizioni di benessere psicologico nelle relazioni con gli altri. In questo secondo segmento, più pretenzioso, più sofferto e, tutto sommato, meno interessante perché più canonico, la brusca virata narrativa mantiene inalterato il tono stilistico e si cristallizza in un complemento speculare del primo, che resta però assai più ricco di invenzioni e ben più coinvolgente. Ma anche qui assistiamo, ammirati, ad un magistrale gioco a due (tra una madre e suo figlio) di altissimo spessore recitativo, sempre misurato ed equilibrato, ben attento a non scivolare mai nelle tentazioni del sentimentalismo effettistico. Il risultato complessivo è un film di pregevole fattura, interessante, intelligente e sopra la media rispetto agli standard del cinema americano contemporaneo. Ulteriore riprova che i risultati più alti della produzione a stelle e strisce arrivano quasi sempre dai progetti “minori”, più intimi, più sensibili e più attenti alla densità del contenuto che alla spettacolarità della forma. E’ stato candidato, come outsider, agli Oscar 2016 per il miglior film, regia, attrice e sceneggiatura non originale (ad opera dell’autrice del romanzo ispiratore, Emma Donoghue).

Voto:
voto: 4/5

giovedì 21 gennaio 2016

La grande scommessa (The Big Short, 2015) di Adam McKay

Nel 2005 Michael Burry, eccentrico genio dell’alta finanza, ha l’intuizione di “scommettere” contro l’apparentemente granitico mercato immobiliare americano, avendone intuito l’intrinseca debolezza a medio termine, perché basato essenzialmente su mutui a tasso variabile concessi con leggerezza e, quindi, ad altissimo rischio. Nonostante tutti ritengano folle il suo atteggiamento, Burry va avanti per la sua strada, prevedendo con due anni d’anticipo la grave crisi dei mutui che, partendo dagli Stati Uniti, travolgerà l’economia mondiale, provocando la disastrosa recessione di cui ancora oggi si risentono gli effetti. Altri cinque investitori, tutti personaggi sui generis, seguiranno l’intuizione di Burry e, all’esplosione della crisi economica, diventeranno ricchissimi, mentre il mondo s’impoverirà. Brillante commedia nera di Adam McKay, abilissima a giocare sul filo sottile tra ironia e tragedia, capace di usare, con intelligenza, un tono semiserio in una materia notoriamente ostica, servendosi di un linguaggio tecnico sicuramente incomprensibile ai più, ma supportandolo con una miriade di trovate ed inserti sarcastici al limite del surreale. Assolutamente geniali, in tal senso, le due scene in cui i concetti finanziari più ermetici saranno spiegati, con tanto di burlesca introduzione, dalle avvenenti Margot Robbie e Selena Gomez, nel ruolo di loro stesse, inquadrate in atteggiamenti chiaramente frivoli: la prima ci spiega i “mutui subprime” in una vasca da bagno mentre sorseggia champagne e la seconda ci parla delle “obbligazioni di debito collateralizzate” (CDO) mentre è intenta a puntare ad un tavolo di blackjack. La grande scommessa, vinta, del film è proprio quella di rendere fruibile ed amaramente “divertente” un mondo ermetico come quello dell’alta finanza di Wall Street, mostrando, con caustica perfidia, come i destini economici del mondo siano nelle mani di pochi “squali” avidi e dissennati e di come le azioni “giocose” di alcuni “nerd”, viziati ed asociali, possano poi rovinare le vite della gente comune, spesso all’oscuro anche della sola esistenza di questo subdolo universo di potere. Tratto dal romanzo "The Big Short - Il grande scoperto" di Michael Lewis, egregiamente sceneggiato e diretto con frizzante energia, quest’opera sprezzante graffia, spiega e intrattiene, mostrando, nel finale inevitabilmente acre, il lato oscuro del capitalismo, pur senza rinunciare al tono beffardo. Si avvale anche di un cast di prim’ordine: Christian Bale, Ryan Gosling, Brad Pitt, Melissa Leo, Marisa Tomei, in cui spicca Steve Carell che conferma un insospettato talento nei ruoli “drammatici”. E’ un film politicamente scorretto, che non rispetta le regole tranquillizzanti del cinema hollywoodiano, e che, probabilmente, non piacerà a tutti. Ma che, invece, andrebbe visto da tutti, già solo per la scottante tematica trattata che, in un modo o nell’altro, ci riguarda molto da vicino. Nessuno escluso.

Voto:
voto: 4/5

Il ponte delle spie (Bridge of Spies, 2015) di Steven Spielberg

Negli anni ’50, in piena guerra fredda, l’avvocato assicurativo James B. Donovan viene chiamato a difendere Rudolf Abel, spia sovietica infiltrata negli Stati Uniti, e, per questo, diventa il parafulmine del diffuso disprezzo popolare nei confronti del nemico comunista. Per nulla intimorito, sebbene osteggiato dalla sua stessa famiglia, l’integerrimo avvocato stabilisce un rapporto con la persona Abel, riconoscendone le molte qualità, e si batte come un leone, nonostante la causa sia già persa in partenza, per difenderne i diritti civili elementari. Quando un giovane pilota americano, sorpreso in missione segreta oltre cortina, cade nelle mani dei russi, si prospetta la possibilità di uno scambio: il vecchio Abel per lo sfortunato tenente. Il compito di gestire il difficile negoziato, nella Berlino orientale in cui sta sorgendo il “muro della vergogna”, viene affidato all’irreprensibile Donovan. Opus n. 29 di Steven Spielberg, tratto da una sceneggiatura dei fratelli Coen e diretto con la consueta grande perizia tecnica, che vede una nuova incursione del grande regista di Cincinnati nella Storia, quella, recente, della così detta “guerra fredda” tra il blocco occidentale, filoamericano, e quello comunista, filosovietico. I meriti maggiori di quest’opera risiedono, principalmente, nella sontuosa ricostruzione storico ambientale, impeccabile e dettagliata. L’autore riesce, infatti, ad immergerci totalmente nell’atmosfera di quegli anni, con i due schieramenti contrapposti che rappresentavano due opposte concezioni di intendere la società. Erano anni dominati dalla paura dell’atomica, dal sospetto verso lo straniero, dall’ossessione compulsiva di essere spiati. Ma oltre questo, e dopo una pregevole introduzione dal sapore hitchcockiano, il film prende la strada, canonica, di un elogio didascalico e zeppo di retorica edificante dell’american way of life, incarnato dalla figura di Donovan (Tom Hanks), uomo “tutto d’un pezzo”, dai solidi principi e dalla morale granitica. Ora moraleggiante, ora ampolloso, il film trova i suoi momenti migliori della seconda parte nei fugaci inserti di surreale ironia, frutto della sceneggiatura dei Coen, che fanno da contraltare alla monolitica solidità del personaggio di Hanks, che dispensa etica a profusione dal suo piedistallo di salde certezze. Chi ha paragonato la coppia Spielberg-Hanks, giunti qui alla quarta collaborazione professionale, a quella, celeberrima, Capra-Stewart, per il consolante buonismo che trasuda dalle rispettive opere, non è lontano dalla verità. Nel cast svetta Mark Rylance, nel ruolo di Abel, che mette in ombra un ingessato Tom Hanks, e suggerisce un approccio saggiamente disincantato, praticamente impassibile, rispetto alle turbolenze del mondo. Suggestiva colonna sonora di Thomas Newman, che ha sostituito in extremis John Williams, abituale e storico collaboratore del regista.

Voto:
voto: 3/5

martedì 19 gennaio 2016

The Hateful Eight (The Hateful Eight, 2015) di Quentin Tarantino

Wyoming, qualche anno dopo la fine della guerra civile americana. Una diligenza avanza nella neve diretta verso Red Rock. Su di essa viaggia il cacciatore di taglie John Ruth che deve condurre al patibolo la pericolosa prigioniera Daisy Domergue, membro di una banda di fuorilegge senza scrupoli. Al convoglio si uniscono il Maggiore Marquis Warren, bounty killer di colore, e l’avventuriero Chris Mannix, che si presenta come nuovo sceriffo di Red Rock. Una bufera di neve epocale li costringe a fermarsi nella “merceria” di Minnie, un rifugio montano concepito per l’accoglienza dei viaggiatori e dei cavalli, nell’attesa che la tempesta si plachi. Ma qui, in luogo della proprietaria, trovano quattro uomini misteriosi, il rude messicano Bob, il logorroico boia Oswaldo Mobray, il vecchio Generale confederato Sanford Smithers e l’ambiguo pistolero Joe Gage, con cui saranno costretti a condividere l’angusto spazio del bungalow. Otto “bastardi” impenitenti disposti a tutto, rinchiusi, loro malgrado, in un ambiente ristretto ed isolato nelle terre selvagge del nord America, mentre fuori infuria una terribile bufera di neve che rende impossibile ogni via di fuga. E’ questo lo spunto narrativo alla base di questo straordinario western pulp dai toni thriller, claustrofobico e crudele, che costituisce l’ennesimo caleidoscopio di generi, geniale e dissacrante, realizzato da Quentin Tarantino. Tra immagini di grande potenza evocativa (tutti gli esterni sulle pianure innevate), serrati dialoghi di sferzante cinismo, momenti di opprimente tensione perfidamente dilatati in attesa di una minaccia imminente, l’autore spazia da par suo attraverso i generi cinematografici passando, impunemente, da Agatha Cristie (i riferimenti al suo capolavoro “Dieci piccoli indiani” sono evidentissimi) allo “spaghetti western”, dallo splatter estremo al sottile dramma “da camera”, dai “b-movie” iperviolenti degli anni ‘70 all’apologo antropologico in nero. Spiazzando più volte lo spettatore nella seconda parte con una serie di magistrali ribaltamenti narrativi, l’estroso regista arriva al cruento finale, pur non inatteso, con perfida cattiveria, tra violenza enfatica, che vira nel fumetto, ed un macabro utilizzo del grottesco volto a mitigare il tutto, trasformandolo in un impagabile “circo” dell’iperbole, il cui fine ultimo è, come sempre, un’amara critica alla natura umana. Il western, quello epico e mitologico dei grandi spazi sterminati, non si vede mai, è ben chiuso fuori dall’angusto spazio scenico dell’azione, dietro una porta bloccata da due assi inchiodate, forse celato sotto la coltre impietosa di neve. Nell’interno della “merceria” di Minnie non ci sono eroi per cui parteggiare, né modelli da imitare o da prendere da esempio, non esiste onore né gloria, ma solo uno sporco manipolo di umanità dannata, il cui inferno personale è quello di una nazione, l’America della vecchia frontiera, costruita sul sangue, sulla prevaricazione e sulla violenza. E la Storia (quella con la “S” maiuscola) appare e scompare a tratti, nel tragico scontro che si consuma dentro la locanda, i cui protagonisti sono, evidentemente, figure archetipe di un immaginario iconografico distorto. La Storia che, quando irrompe, contribuisce ad arricchire il gioco, abilmente condotto dall’autore, su quel filo sottile tra realtà e finzione, cronaca e leggenda, in cui nessuno è ciò che appare o che dice di essere. Geniale ed emblematico, in tal senso, l’utilizzo della lettera di Lincoln per sottolineare questo concetto. Folgorante e sfrontato, teso e feroce, questo nuovo capolavoro di Tarantino è un’opera inevitabilmente di nicchia, alla maniera dello splendido e sottovalutato Jackie Brown, un progetto più intimo e “sotterraneo”, totalmente distante dallo logiche mainstream. Nel ricco cast svettano il solito Samuel L. Jackson, carismatico e istrionico ai massimi livelli, e la sorprendente Jennifer Jason Leigh, che tratteggia una figura femminile sgradevole e diabolica che farà sicuramente “inorridire” i benpensanti. Nella sontuosa confezione tecnica vanno segnalate la splendida fotografia in 70 mm di Robert Richardson (l’unica concessione estetica al mito del vecchio West) e la raffinata colonna sonora introspettiva di Ennio Morricone, alla prima collaborazione “originale” con il regista, entrambe onorate con la meritata candidatura ai premi Oscar 2016. Delle due nomination è andata a buon fine quella per Morricone, finalmente premiato dall'Academy con quell'Oscar che tante volte, in passato, gli era stato negato. In una serata indimenticabile per tutto il cinema italiano il nostro grande Maestro, all'età di 87 anni, ha ricevuto l'ambita statuetta tra l'ovazione generale del Dolby Theatre di Los Angeles, che gli ha tributato la meritata standing ovation. Tarantino consolida una volta di più la sua posizione di maggior talento americano nella rivisitazione colta e visionaria del così detto “cinema basso”, consacrando i “generi” su una ribalta di tale dignità e qualità artistica, che non ha precedenti. Di sicuro non piacerà a tutti, ma quest’opera atipica e spiazzante contiene l’essenza del “tarantinismo” nella sua forma più pura.

Voto:
voto: 4,5/5

Revenant - Redivivo (The Revenant, 2015) di Alejandro González Iñárritu

Agli inizi del XIX secolo, nelle terre selvagge del Nord Dakota, una spedizione di trapper e militari viene assalita e decimata dai temibili indiani Arikara, che intendono impossessarsi del loro prezioso carico di pelli. I superstiti intraprendono una fuga disperata, guidati dall’esperto Hugh Glass, che conosce alla perfezione quei territori ostili. Ma la situazione prende una piega ancora più drammatica quando Glass viene aggredito e ridotto in fin da vita da un feroce orso grizzly. Il capo gruppo, capitano Henry, decide allora di lasciare tre uomini a guardia dello sventurato Glass, affinché lo assistano nella sua agonia e gli garantiscono un’onorevole sepoltura. Ma il losco Fitzgerald, nonostante gli accordi presi ed il lauto compenso pattuito, abbandona Glass al suo destino e ne uccide anche il figlio “mezzo sangue”, che si opponeva al suo ignobile proposito. Un’incredibile forza di volontà ed una serie di circostanze favorevoli consentiranno a Glass di sopravvivere e rimettersi in piedi, per affrontare un disperato viaggio di ritorno in cerca della sua vendetta, patendo il gelo, la fame ed i mille pericoli di quel mondo selvaggio. Possente western avventuroso di Iñárritu, sotto forma di odissea epica; un viaggio estremo, disperato, ai limiti dell’umano, un percorso ieratico di sofferenza, abbrutimento ed afflizione contro gli strali impietosi di una Natura splendida e crudele, impassibile e brutale. Con una regia misurata ed essenziale il talentuoso regista messicano sceglie di limare i suoi tipici manierismi in favore della potenza della visione, dell’ampiezza di respiro, della ricerca accurata di immagini epiche garantite dalla maestosità degli scenari, a cui la straordinaria fotografia (a luce naturale) di Emmanuel Lubezki conferisce un risalto di mistica solennità. La messa in scena è incredibilmente realistica, viscerale, cruenta, a volte scioccante, e nulla viene risparmiato allo spettatore, che viene letteralmente immerso nella lotta per la sopravvivenza del protagonista Glass, richiamando forze istintive primordiali, insite nel profondo dello spirito umano. Perché, come sempre, l’autore è interessato a parlarci principalmente della natura umana, alternando l’introspezione all’immensità degli scenari del Nord America. I momenti di grande cinema abbondano, dalla sanguinosa battaglia iniziale tra i cacciatori di pelli ed i nativi Arikara al drammatico duello tra Glass e l’orso, una sequenza così intensa e impressionante che vale, già da sola, il prezzo del biglietto. Le parti meno convincenti sono, invece, gli inserti “mistici”, i sogni di Glass, a metà strada tra il camp e l’iperbole ascetica, in cui si ritrova il vezzo dell’autore per gli arabeschi narrativi. E se la storia è di estrema semplicità, e invero non imprevedibile nella risoluzione finale, la scelta di affidarsi totalmente alla potenza della visione tutto soccorre, o quasi. Impossibile poi non menzionare le grandi interpretazioni dei due antagonisti principali, entrambi bravissimi: Leonardo DiCaprio, che ci regala un’impressionante gamma di intense espressioni nelle lunghe sequenze “mute” della sua notevole performance, e Tom Hardy, che invece lavora di cesello per tratteggiare un villain spregevole, ricettacolo delle peggiori pulsioni della natura umana. In definitiva The Revenant è un opera grandiosa, travolgente ed imperfetta, uno dei film che resteranno dell’anno 2015.

Voto:
voto: 4/5

domenica 10 gennaio 2016

Sicario (Sicario, 2015) di Denis Villeneuve

Kate Macer è una giovane agente dell’FBI, promettente e idealista, che viene arruolata in una task force segreta, guidata dalla CIA, con la missione di sgominare il sanguinario cartello di Juarez, responsabile del narcotraffico nell’area di confine tra Messico e Stati Uniti. A capo della squadra ci sono due ambigui personaggi: il risoluto Matt Graver e l’enigmatico Alejandro, un ispanico dai metodi violenti. I terribili eventi a cui assisterà cambieranno per sempre le convinzioni della donna su tutto ciò in cui credeva. Energico noir di frontiera, intenso, aspro e brutale, diretto con piglio sicuro dall’abile regista canadese Denis Villeneuve, che si dimostra a suo agio sia nelle sequenze d’azione sia in quelle che definiscono i rapporti psicologici tra i personaggi, in cui la vulnerabile Kate di Emily Blunt è il vaso di terracotta, che non potrà uscire indenne tra i due vasi di ferro dei ruvidi personaggi interpretati da Josh Brolin e Benicio del Toro. Sicario è un film di confine: quel mexican border, infernale terra di nessuno, in cui si consumano quotidiani orrori indicibili da parte degli spietati cartelli della droga, che, per preservare il proprio impero del male, commettono ogni sorta di atrocità. Ma anche il confine, morale, tra bene e male, quella linea sottile che regola le azioni umane e che sarà messo fortemente in discussione, sancendone l’inevitabile relativismo, agli occhi, sconvolti, della protagonista e anche dello spettatore. Eccellente, in tal senso, la metafora del tunnel, quello segreto usato dai narcos per trasportare la droga tra Messico e Stati Uniti, in cui si entra, per poi uscirne completamente trasformati. Ed è proprio questo il senso intimo del film: dimostrare quanto i concetti di bene e male, buoni e cattivi siano assolutamente aleatori, con caustici graffi all’invadente ruolo di arbitro, presunto garante di giustizia, tenuto dagli USA in politica estera. Crudo e non sempre plausibile, Sicario è uno spettacolare film d’azione violenta, con dei personaggi ambiguamente affascinanti (in particolare Benicio del Toro che spicca su tutti gli altri per la sua notevole interpretazione) ed uno stile visivo di feroce dinamismo, meticoloso e ricercato nella cura delle immagini, che guarda dritto, per resa espressiva e vigore formale, al cinema di Michael Mann e di Kathryn Bigelow. Villeneuve sceglie una fotografia abbacinante e delle sonorità martellanti per rappresentare questa barbara  “terra di lupi”, in cui le leggi sono bandite e ogni nefandezza è consentita, regalandoci più di una scena da manuale dal punto di vista del patos e dell’etica dello sguardo. E’ un’opera ampiamente sopra la media, che cerca di ridurre la distanza tra il cinema di genere e quello d’autore, e che conferma, e rilancia prepotentemente, il suo autore come nuova promessa dell’action di qualità (non a caso alcune voci già lo accostano allo storico franchise di James Bond).

Voto:
voto: 4/5

venerdì 8 gennaio 2016

Il processo (Le Procès, 1962) di Orson Welles

Josef K., impiegato anonimo e rispettabile, viene improvvisamente arrestato, condotto in tribunale e processato senza che gliene venga rivelata la motivazione. Cerca in tutti i modi di ribellarsi e far valere i suoi diritti d’innocente ma, ben presto, si rende conto di essere finito in un assurdo ingranaggio, assai più grande di lui, che rischia di stritolarlo. Dal celebre romanzo omonimo di Franz Kafka, il grande Maestro americano ha tratto un adattamento ingegnoso, sconvolgente, visionario e, a suo modo, “profetico”, scegliendo di riadattarlo in età contemporanea. Realizzato in totale autonomia rispetto al sistema delle major hollywoodiane e con le consuete traversie produttive dovute alla difficoltà di reperire i fondi necessari, è un denso apologo sui mali del progresso, sulla spersonalizzazione dell’essere umano dovuta all’uso ingombrante delle macchine, fino alla totale perdita di identità in un mondo che sembra dominato dal caos. Dal punto di vista estetico è un capolavoro, visivamente stupefacente e carico di virtuosismi stilistici nell’uso della fotografia in bianco e nero con forte contrasto espressionista, e nelle tecniche di distorsione delle immagini attraverso il grandangolo, per suggerire il senso di straniamento e le minacciose atmosfere surreali kafkiane. Le destrezze formali, di cui Welles era padrone, e l’uso sapiente delle maestose scenografie, spesso inquadrate in prospettiva sghemba, inducono un senso di minaccia agghiacciante che immerge lo spettatore in un universo allucinato, ovvero nel medesimo, terribile incubo vissuto dal protagonista: l’innocente che finisce coinvolto in una terribile macchinazione ai suoi danni senza capirne il motivo. Il Sistema beffardo che condanna K. è freddo e spettrale, popolato da figure da incubo, simboli funesti e senza volto, faccendieri pedanti, galoppini di un potere amorale, tutti ugualmente spersonalizzati e conniventi con una volontà superiore, incline al male fine a se stesso, che, quindi, non necessita di motivazioni. Per quanto non del tutto fedele rispetto al romanzo ispiratore, la rilettura di Welles è geniale, apocalittica, claustrofobica, al punto da divenire un definitivo apologo sulla follia e sull’inevitabilità del Caos, padrone assoluto del nostro destino contro cui è inutile opporsi. E’ uno dei più intensi e disperati requiem dell’uomo contemporaneo di fronte al gioco totalitario del Potere oligarchico. Tra Orwell e Lang, il geniale regista rilegge Kafka e ci consegna una memorabile tragedia dell’assurdo, tutta giocata sul filo del paradosso, che lascia atterriti oggi come allora. Con un cast di prim’ordine (Anthony Perkins, Romy Schneider, Jeanne Moreau, Elsa Martinelli e lo stesso Orson Welles nel piccolo ruolo dell’avvocato), l’opera divise la critica, esaltato in Europa denigrato in America, e spiazzò il pubblico che non ne comprese appieno la portata immaginifica e lungimirante. E’ rimasta molto famosa la sequenza illustrata iniziale, realizzata da Alexander Alexeieff mediante la tecnica della "Pinscreen animation", tramite disegni chiaro-scuri ottenuti con l'inserimento su una lastra di migliaia di chiodini, illuminati di sbieco in modo da creare sulla superficie della stessa un suggestivo effetto ombra.

Voto:
voto: 4,5/5

Otello (The Tragedy of Othello: The Moor of Venice, 1952) di Orson Welles

Otello, generale della Repubblica di Venezia, detto il moro, sconfigge i turchi a Cipro ma suscita le invidie del perfido Jago, un suo luogotenente che non tollera la predilezione di Otello per il giovane valoroso capitano Cassio. Il diabolico Jago, facendo leva sulla nota gelosia del moro, gli insinua il dubbio che la sua giovane e bella moglie, Desdemona, lo tradisca con Cassio. Con un subdolo artificio (il celebre fazzoletto) Jago costruisce la “prova” del tradimento e Otello, pazzo di gelosia, uccide Cassio e la moglie, per poi togliersi la vita dopo aver scoperto l’inganno ordito dal traditore. Dalla famosa tragedia di William Shakespeare il genio Welles ha tratto un film possente e grandioso, magniloquente nella messa in scena, visivamente barocco, con una carica passionale così enfaticamente violenta che lo rese di difficile comprensione per la critica convenzionale dell’epoca. Fu il primo film girato dall’autore fuori dagli Stati Uniti, tra l’Italia e il Marocco, ed ebbe una travagliata vicenda produttiva, per mancanza di fondi, che allungò i tempi di lavorazione a ben tre anni. Fu solo grazie ai proventi guadagnati come attore, in particolare a quelli ottenuti con il capolavoro Il terzo uomo di Carol Reed, che Welles riuscì a completare il film, sforando di molto rispetto ai tempi previsti. La traduzione in immagini del capolavoro shakespeariano è di alto rigore formale e di furiosa resa espressiva, con un bianco e nero altamente contrastato che rimanda al cinema di Ejzenštejn ed un taglio espressionistico giocato su vigorose antitesi tra luci e ombre, pieni e vuoti, che suggeriscono quelle, simboliche, tra vita e morte, su cui si basa la tragica vicenda. L’uso opulento delle scenografie e l’imponenza degli spazi scenici, in alcuni casi utilizzata come autentico protagonista aggiunto delle sequenze, evita del tutto il “rischio” della teatralità in favore di un solenne tripudio di cinematografica visionarietà. Con la scelta di frammentare e destrutturare il testo originario del bardo inglese, l’autore adotta un montaggio serrato per una resa narrativa agile e scattante, beffardamente sottolineata (in accordo all’antinomia tipicamente wellesiana tra vero e falso) nei vertiginosi passaggi da un set all’altro, in barba alle distanze geografiche, nell’arco di una stessa scena. Nel ricco cast, oltre al solito Welles nei panni di Otello, spicca il bravissimo Micheal MacLiammoir, da molti definito come il più grande Jago della storia del cinema. Tra le tante scene memorabili della pellicola è impossibile non menzionare quella di apertura, magnifica e terribile, con la grandiosa processione che celebra la vittoria del moro contro il nemico turco in difesa della roccaforte di Cipro. E’ uno dei migliori adattamenti di Shakespeare che siano mai stati realizzati, premiato, non senza contestazioni, con la Palma d’Oro al Festival di Cannes.

Voto:
voto: 5/5

Carol (Carol, 2015) di Todd Haynes

Carol e Therese sono due donne molto diverse tra loro: la prima è una signora ricca, colta, elegante e raffinata, appartenente alla buona società newyorkese, con un matrimonio in crisi ed una battaglia legale in corso per l’affidamento della sua unica amata figlia, a rischio per certi suoi orientamenti sessuali non ortodossi. La seconda è una giovane ragazza acerba, di belle speranze ma dagli scarsi mezzi, che lavora come commessa e conduce una vita umile, tra la passione per la fotografia ed un fidanzato troppo ingombrante. Il loro incontro casuale farà scattare la scintilla dell’amore e cambierà le loro vite. Melodramma intenso e sofisticato, tratto dal romanzo "The Price of Salt" di Patricia Highsmith, con cui Haynes ritorna, con successo, a quelle tematiche già egregiamente tratteggiate nello splendido Lontano dal paradiso: gli anni ’50, l’upper class americana, il conformismo di un’epoca bigotta, l’impossibilità di vivere i propri sentimenti alla luce del sole a causa di esso, l’omosessualità. Stavolta parliamo di omosessualità femminile, l’amore saffico, prima platonico e poi carnale, tra le due splendide protagoniste, entrambe bravissime, Cate Blanchett e Rooney Mara, con una menzione speciale per la seconda. Come al solito, nel caso di Haynes, la ricostruzione d’epoca è sontuosa, le atmosfere ovattate e malinconiche, le musiche (di Carter Burwell) suadenti e la direzione degli attori (in questo caso attrici) di grande livello. La forza dell’opera è nella sua capacità di essere avvolgente e conturbante con intimo pudore, anche nelle scene erotiche, senza mai andare sopra le righe o indulgere nelle trappole del sentimentalismo. Il suo senso della misura si mantiene ammirevole fino al finale ambiguo, che celebra la forza dell’amore e l’importanza della propria identità sessuale al di là dei giudizi morali e delle convenzioni sociali. Attraverso il lungo flashback che racconta la storia di Carol e Therese, riviviamo la magia del grande melodramma classico, quello di Douglas Sirk a cui Haynes evidentemente s’ispira, ma le problematiche sono affrontate con una dignità ed una sensibilità “moderna”, impensabile per i tempi. Ad una prima parte “geometrica”, in cui i luoghi abitativi definiscono i personaggi attraverso il proprio status sociale, ne segue una “trasgressiva”, simboleggiata dal viaggio verso ovest, inteso come idea di fuga, liberazione, abbandono ai propri sentimenti, rivolta al puritanesimo limitante. In questa seconda parte i gesti, gli sguardi, i volti tradiscono i fermenti interiori, assumendo una solennità irreversibile, e la vitalità esplosiva, a lungo celata, ha il sopravvento sul velo imposto dalle “buone maniere”. In un mondo dominato da ipocrisia e moralismo, algido come l’aspetto esteriore della sua protagonista, Carol, l’autore ci regala un’altra lezione di stile, di eleganza e di bellezza, con un cuore pulsante che batte forte, nascosto ma vigoroso, sotto la patina delle apparenze. Il film ha ricevuto due premi (la Mara e il regista) al Festival di Cannes del 2015 ed è stato accolto con entusiasmo dalla critica di tutto il mondo.

Voto:
voto: 4/5