martedì 29 giugno 2021

Lamerica (1994) di Gianni Amelio

Fiore e Gino, faccendieri italiani senza scrupoli, arrivano in Albania a bordo di un fuoristrada per mettere in piedi una truffa ai danni del nostro governo: intascare i fondi regolarmente previsti dalle leggi sull'imprenditoria all'estero attraverso l'apertura (in realtà fasulla) di una fabbrica di scarpe. Per attuare il loro piano corrompono dei funzionari locali e rilevano dei fatiscenti capannoni industriali in disuso che cadono a pezzi, ma hanno bisogno di un prestanome sul posto. Gino individua l'uomo giusto nel vecchio Spiro, un vagabondo imbambolato che non parla e sembra vivere fuori dal mondo. Ma i due speculatori non hanno fatto i conti con la dura realtà sociale di un paese ridotto in miseria e sull'orlo della disperazione, che guarda all'Italia come la "terra promessa" al di là del mare, idealizzandola attraverso le immagini dei nostri canali televisivi, che alimentano le illusioni di una via di fuga nella povera gente albanese. Potente dramma storico, con graffi di critica sociale, di Gianni Amelio, che realizza uno dei migliori film italiani degli anni '90, un affresco lucido e cupo che guarda all'Albania ma parla anche di noi e pone il focus nel presente per alludere al passato, stabilendo una impietosa connessione emotiva tra migranti, disperazioni e discriminazioni di epoche diverse, ma in fondo sempre uguali (la drammatica "invasione" dei profughi albanesi verso le nostre coste nei primi anni '90 e quella dei poveri italiani verso l'America (quella vera) nei primi decenni del '900). Tra epica e lirismo, naturalismo e allegoria, il film utilizza la grande metafora del viaggio per dimostrare la sua tesi, che è innanzi tutto morale, poi umanitaria e infine politica. La pellicola si snoda idealmente a due livelli: l'oggi, ovvero l'emigrazione albanese verso l'Italia, illusorio paradiso del benessere gonfiato dalla propaganda televisiva che ne "vende" un'immagine edulcorata a mo' di prodotto commerciale. E ieri (simboleggiato dallo splendido personaggio del vecchio Spiro e dalle sue convinzioni), ovvero i grandi flussi migratori che, per tutta la prima metà del secolo scorso, portarono milioni di italiani verso il Sogno Americano oltre oceano, con la speranza di sfuggire alla miseria e costruirsi un futuro migliore. Questo piccolo kolossal intimistico, che guarda al cinema puro di Roberto Rossellini, evita con spartano rigore la retorica e si alimenta del cortocircuito autodistruttivo delle utopie dei suoi personaggi, per mettere lo spettatore di fronte allo specchio della sua (cattiva) coscienza, senza strepiti, proclami o sermoni, ma con una sottile sensazione di malessere che sa indurre perfidamente attraverso il risveglio della memoria. Coloro che, alla sua uscita, lo hanno accusato di capzioso qualunquismo ideologico, probabilmente animati da scopi politici, hanno finto di non comprenderne il chiaro messaggio presente nel sottotesto. Memorabile la sequenza finale (per cui il film è famoso) della "nave" (sgangherata carretta galleggiante) stracolma di migranti diretta verso le coste italiane: un'immagine iconica, tragica e di possente indignazione, che vale più di mille discorsi. Retorica? no, amara realtà. Bravissimi tutti gli attori, a cominciare da Carmelo Di Mazzarelli e poi Michele Placido, Enrico Lo Verso e Piro Milkani. Il film ha riscosso un buon successo di pubblico e di critica ed è stato pluripremiato in tutta Europa: 4 premi al Festival di Venezia (tra cui il Pasinetti per Amelio), European Film Awards, Premio Goya, Ciak d'oro, Nastro d'argento e tre David di Donatello.

Voto:
voto: 4/5

Porte aperte (1990) di Gianni Amelio

Palermo, 1936, durante il regime fascista. Tommaso Scalia, impiegato presso una organizzazione sindacale, uccide con sconcertante freddezza tre persone nella stessa giornata: il suo ex datore di lavoro che lo aveva licenziato, un collega che ha preso il suo posto e infine sua moglie, dopo averla violentata. Secondo la legge vigente Scalia va condannato alla pena di morte per fucilazione, ma Vito Di Francesco, un giudice zelante, liberale e moralmente contrario al concetto stesso di pena capitale, si mette contro tutti e inizia a indagare attivamente sul caso, alla ricerca di attenuanti. Dalla sua parte troverà solo un giurato, un mite agricoltore di scarsa cultura ma dall'animo gentile. Di Francesco scoprirà una serie di scomode verità sulla vita di Scalia, che tuttavia sembra desiderare lui stesso la morte, fedele ai suoi principi violenti. Splendido dramma giudiziario di Gianni Amelio, che ha adattato con lucido rigore e fertile ambiguità tematica il romanzo omonimo di Leonardo Sciascia, dando vita ad un sottile apologo politico sul tema della pena di morte, ma anche sul valore universale (e supremo) del concetto di giustizia e sulle subdole ingerenze del potere nelle questioni processuali. Grandiosa ricostruzione d'epoca, perfette atmosfere ambientali che rievocano il clima ideologicamente soffocante di quegli anni oscuri e sontuosa interpretazione degli attori principali, tra cui spiccano un magistrale Gian Maria Volonté, intenso e misurato, ed un sorprendente Ennio Fantastichini. Il film suscitò gli entusiasmi (meritatissimi) della critica e vinse numerosi premi, tra cui 4 David di Donatello, la Grolla d'Oro per la regia, l'Oscar europeo e fu candidato agli Oscar hollywoodiani, entrando nella cinquina finale per il miglior film straniero (vinto però dall'ottimo rappresentante della Svizzera, Viaggio della speranza di Xavier Koller). Questa pellicola è senza dubbio uno dei più felici adattamenti cinematografici tratti dalle opere di Sciascia. Il titolo si riferisce alla celebre locuzione, nata dalla propaganda del regime fascista, secondo cui in quegli anni la pubblica sicurezza garantita dal potere era tale che si poteva dormire con le "porte aperte".
 
Voto:
voto: 4/5

Un ragazzo di Calabria (1987) di Luigi Comencini

Mimì, tredicenne che vive in un piccolo paese rurale del sud della Calabria, ha il passo del podista, il cuore che vola alto e il sogno di diventare un grande maratoneta. Cresciuto in un ambiente gretto e arretrato, è incompreso dal padre rude che vorrebbe farlo studiare per ottenere un lavoro sicuro e riscattare la loro miseria. La madre, gentile e affettuosa, lo sostiene di nascosto ma non ha il coraggio di affrontare le ire del marito. Mimì trova un valido alleato in Felice, autista di autobus, zoppo e malandato, emarginato da tutti per le sue idee comuniste e il suo carattere schivo. L'uomo rivede nel ragazzino l'entusiasmo che lui stesso provava da bambino e intende aiutarlo a raggiungere le proprie aspirazioni sportive, così da riscattare anche la sua stessa vita di delusioni e fallimenti. Felice ne scorge il talento, ne ammira la passione e inizia ad allenarlo, ma il padre padrone non è d'accordo. Intenso dramma sportivo di Luigi Comencini, liberamente ispirato alla storia di Francesco Panetta, mezzofondista calabrese che nel 1987 vinse l'oro ai mondiali di Roma sui "3000 metri siepi", la disciplina in cui ha ottenuto grandi risultati sportivi a livello internazionale nel periodo a cavallo tra gli anni '80 e '90. E' un film di luci e ombre: forte di un'ambientazione pregnante nella Calabria contadina degli anni '60, egregiamente raffigurata nei suoi ancestrali contrasti tra bellezza e ferocia, ed egregiamente interpretato da un cast di grande livello, in cui svetta uno strepitoso Gian Maria Volonté, premiato al Festival di Venezia con il Premio Pasinetti al miglior attore. Accanto a lui segnaliamo anche Diego Abatantuono, Thérèse Liotard e il giovanissimo Santo Polimeno, l'autentica sorpresa della pellicola, che riconferma il talento innato dell'autore nel lavorare con gli attori bambini, traendone sempre la massima resa in termini di espressività e spontaneità. Peccato però che l'opera venga complessivamente inficiata da una messa in scena che ricorda quella degli sceneggiati televisivi e da una narrazione generalmente didascalica, con picchi di enfasi retorica nei momenti decorosamente celebrativi. Il cuore pulsante del film è nel rapporto intimo e profondo che si instaura tra Mimì e Felice (soprattutto grazie alla bravura di Volonté) e nella suggestione evocativa delle scene di corsa, con il ragazzo scalzo, libero e leggero, immerso nell'aspro incanto della natura calabrese.
 
Voto:
voto: 3/5

lunedì 28 giugno 2021

La donna scimmia (1964) di Marco Ferreri

Antonio Focaccia, viscido "maneggione" che vive di espedienti, trova in un ospizio Maria, una giovane donna dal corpo interamente ricoperto di peli, che vive nascondendosi dal mondo, vergognandosi del suo aspetto. Antonio la seduce, la sposa e poi la convince ad esibirsi come fenomeno da baraccone, spacciandola per una donna-scimmia trovata nella giungla africana. Dopo essere stata a lungo sfruttata dal suo manager-marito, Maria scopre di aspettare un figlio. Questo dramma surreale abilmente sospeso tra amore e crudeltà, cinismo e provocazione, poesia e sgradevolezza, segna probabilmente l'apice del genio grottesco di Marco Ferreri, autore inevitabilmente controverso e mai banale, sempre in bilico tra lo scandalo programmatico e l'estrosa visionarietà trasgressiva. Il film è una cruda satira metaforica che affronta con coraggio concetti delicati quali "normalità" e "mostruosità", senza dimenticare il voyeurismo, la mercificazione del dolore, l'avidità meschina della natura umana, e non ultima la dissacrante concezione distorta di famiglia che qui ci viene presentata, come beffarda allegoria della crisi che l'istituzione atavica per eccellenza della società italiana stava attraversando negli anni del "miracolo" economico. Una crisi che il grande autore milanese ha saputo cogliere in netto anticipo sui tempi, raccontandola alla luce della sua poetica basata sulla perfida derisione paradossale. Un discorso di questo tipo era già stato affrontato dal regista nel precedente L'ape regina (1963). Il film, prodotto da Carlo Ponti, doveva essere inizialmente interpretato da Sophia Loren (moglie del produttore), che però rifiutò un ruolo così ripugnante e inconsueto per la sua immagine tipica. Alla fine la parte di Maria, fondamentale per la buona riuscita della pellicola, andò alla francese Annie Girardot, che ci regala una performance intensa e pateticamente memorabile, finendo quasi per oscurare il pur incisivo Ugo Tognazzi, alle prese con un altro ruolo decisamente scomodo. Poco apprezzato da critica e pubblico alla sua uscita, il film è stato ampiamente rivalutato nei decenni successivi, come del resto accaduto per quasi tutte le opere di Ferreri, autore creativamente sulfureo e sottilmente perverso, decisamente troppo avanti per i suoi tempi. Esistono ben tre finali dell'opera: quello originale voluto dal regista, che è un trionfo di cattiveria ma è perfetto rispetto alla logica di acre sarcasmo del film. Quello imposto da Carlo Ponti, che giudicò l'epilogo di Ferreri troppo crudele e lo sforbiciò nella parte finale, modificandolo nella sostanza. E, infine, il così detto "finale francese", che è addirittura un lieto fine melenso e posticcio, dal quale l'autore si dissociò senza mezzi termini. Nell'edizione in dvd del 2008, curata dalla Mondo Home Entertainment, è stato ripristinato il finale autentico pensato da Ferreri, restituendo così al film tutta la sua carica eversiva cinicamente grottesca e la sua piena dignità di opera d'arte.

Voto:
voto: 4/5

Piedone lo sbirro (1973) di Steno

A Napoli opera il commissario Rizzo, detto "Piedone", dal fisico massiccio, le maniere spicciole, la mano pesante con i malfattori e il cuore d'oro con i poveri disperati. Rispettato da tutti per il suo senso della giustizia e l'indole comprensiva, "Piedone" va spesso contro le regole e cerca di prevenire i crimini a suon di sberle piuttosto che punirli a posteriori. Il nostro si ritrova a combattere su due fronti: contro una banda di trafficanti marsigliesi che sta inondando Napoli di droga e contro il suo diretto superiore che non ne tollera i metodi brutali che utilizza contro i delinquenti e decide di sospenderlo dal servizio. Per nulla intimidito il coriaceo "Piedone" si allea con un gruppo di marinai americani (formidabili a menare le mani) e con la vecchia mala napoletana, che non intende farsi "colonizzare" dagli invasori francesi. Simpaticissima commedia poliziesca dell'esperto Steno (al secolo Stefano Vanzina), costruita sull'irresistibile simpatia del suo protagonista, Bud Spencer, perfettamente a suo agio nel ruolo del commissario napoletano che combatte il crimine a forza di sganassoni, mettendo al bando i cavilli burocratici e andando dritto come un treno al nocciolo della questione. E' un film leggero e gradevole, stracolmo di veracità folcloristica, di umorismo bonario e di tutti gli stereotipi su Napoli e i napoletani, declinati con tono mite, all'insegna di una comicità edificante per tutta la famiglia, pur affrontando temi sociali delicati quali la droga, il crimine organizzato e la polizia corrotta. Visto il notevole successo di pubblico, ci saranno ben tre seguiti dedicati al personaggio di "Piedone", tutti molto simili nella formula, ma con la variazione delle ambientazioni esotiche di sfondo: Piedone a Hong Kong (1975), Piedone l'africano (1978) e Piedone d'Egitto (1980), sempre diretti da Steno. Molti sono soliti far rientrare i film di "Piedone" nel filone del così detto "poliziottesco" comico (nato proprio con questa pellicola del '73), da non confondere però con quelli con protagonista Tomas Milian, ben più trucidi, grevi e volgari. Da segnalare nel cast una buona squadra di attori e caratteristi tra cui: Adalberto Maria Merli, Raymond Pellegrin, Juliette Mayniel, Mario Pilar, Enzo Cannavale e Angelo Infanti. Mitica la colonna sonora di Guido e Maurizio De Angelis, in particolare il tema principale eseguito da Santo & Johnny. In questo primo capitolo della saga di "Piedone", Bud Spencer è ancora doppiato dalla sua storica "voce" (Glauco Onorato). Invece nei tre film successivi reciterà con la sua vera voce, ritenuta congrua ad un personaggio napoletano.

Voto:
voto: 3/5

...Altrimenti ci arrabbiamo! (1974) di Marcello Fondato

Ben, meccanico baffuto e muscoloso, e Kid, camionista svelto e smilzo, sono amici e rivali, entrambi appassionati di corse di rally, dove vincono in  ex aequo una fiammante vettura di tipo Dune Buggy e non sanno come dividersela. Decidono di giocarsela in una gara di resistenza gastronomica, ma vengono interrotti dall'irruzione di una banda di teppisti in motocicletta che distruggono il locale e il loro ambito premio. I due compari scoprono che i cattivoni agiscono al soldo di un losco speculatore, che intende colpire il vicino Luna Park per farlo a pezzi e costruire al suo posto un grattacielo. A questo punto Ben e Kid si arrabbiano sul serio e saranno botte da orbi. Divertente commedia per famiglie di enorme successo popolare e diventata rapidamente di culto per tutti i numerosi fans della celeberrima coppia di attori Bud Spencer e Terence Hill, che durante gli anni '70 sbancarono i botteghini di mezza Europa, stabilendo record su record, raggiunsero una incredibile notorietà mondiale per la loro simpatia, entrarono nel cuore del pubblico di ogni latitudine (ancora oggi dopo 50 anni i loro ammiratori non si contano), dando vita ad una autentica fenomenologia intorno ai loro film che va molto al di là degli effettivi meriti artistici degli stessi. Obiettivamente è innegabile che queste pellicole siano delle leggerissime "commediole" fracassone, ingenue e di taglio popolare, costruite sull'irresistibile verve dell'affiatatissimo duo e basate su gag ripetitive a base di sganassoni, umorismo greve e buoni sentimenti. Questo film, emblematico di tutto il loro cinema, non fa eccezione, ma rappresenta uno dei loro maggiori successi commerciali, campione d'incassi nazionale della stagione 1973-74, al quattordicesimo posto assoluto della classifica dei film italiani più visti di tutti i tempi, particolarmente amato anche in paesi come Germania, Spagna, Svezia, Ungheria e Giappone, dove ugualmente fece registrare enormi profitti al box office. Un autentico fenomeno, probabilmente irripetibile e difficile da spiegare (e meno che mai da raccontare), ma chi ha vissuto gli anni '70 sa perfettamente (e lo accetta a cuor lieto, come un "dogma" sentimentale) che ogni nuova opera della coppia Spencer-Hill avrebbe riempito le sale a prescindere. Alla fine i due gireranno 16 film insieme tra il 1967 e il 1994, riscuotendo uno strepitoso successo globale di spettatori (mentre saranno inevitabilmente osteggiati dalla critica colta). Altro elemento da menzionare, di questo film come di tanti altri della coppia, è la colonna sonora accattivante e iconica (un vero tormentone dell'epoca) degli Oliver Onions (al secolo Guido e Maurizio De Angelis), autori di numerosi successi musicali per tutto il decennio dei 70's e degli 80's. Per la disperazione dei tantissimi fans, nel 2021 è stato annunciato un remake di questo film con Edoardo Pesce e Alessandro Roja negli "scomodissimi" panni che furono di Bud e Terence. Mezza stellina in più per la simpatia irresistibile dei due protagonisti e per tutto il carico di "romanticismo" nostalgico che quest'opera porta con sè.

Voto:
voto: 3/5

Un eroe dei nostri tempi (1955) di Mario Monicelli

Alberto Menichetti è un impiastro, conformista, pavido e fifone, che vive con due vecchie asfissianti (una zia e una domestica) che lo hanno plagiato con le loro apprensioni, peggiorandone i difetti. Il nostro va avanti tra un'ambizione non supportata da adeguate qualità e l'ansia maniacale di cacciarsi in qualche guaio (annota su un diario tutto quello che fa quotidianamente in modo da avere sempre pronto un alibi in caso di eventuali coinvolgimenti giudiziari). Lavora in un cappellificio, dove il suo capoufficio è una vedova intraprendente che lo corteggia e di cui lui finge di accettare le attenzioni per non perdere il lavoro. Dopo una notte passata fuori casa per sfuggire all'ira di un erculeo giovanotto, di cui ha tentato di sedurre la bella fidanzata, vantandosene anche in giro con gli amici, Alberto si trova davvero coinvolto in un attentato dinamitardo, di cui viene ingiustamente sospettato. Esilarante satira di costume di Mario Monicelli costruita su un personaggio detestabile, infimo e carico di vizi e bassezze, un viscido omuncolo approfittatore che fa ridere (amaramente) proprio grazie ai suoi lati negativi. E' un film importante e, a suo modo, fondante per la Commedia all'Italiana ormai imminente e per la carriera di Alberto Sordi, che proprio a partire da questo film inizierà a costruire quel prototipo di italiano medio abbietto e meschino su cui edificherà le sue fortune (e quelle del genere di cui sarà ineguagliabile mattatore). Un protagonista così riprovevole non si era mai visto prima nel cinema italiano, e questo grazie all'accoppiata Monicelli-Sordi, la cui ironia perfidamente beffarda si evidenzia fin dal titolo, in evidente antifrasi rispetto alla realtà narrativa. L'esperimento, lungimirante e di diversi anni in anticipo sui tempi, non fu particolarmente apprezzato (nè tanto meno compreso) da pubblico e critica all'uscita in sala del film. Ma, ad una lettura a posteriori, i meriti innovativi e precursori di quest'opera "miliare" sono evidenti ed innegabili. Il grande regista attribuì quasi tutti i meriti a Sordi, dicendo più volte nelle dichiarazioni successive che le caratteristiche del personaggio di Alberto Menichetti, così esasperate e caricaturali nei loro toni esecrabili, vennero tutte inventate dall'attore sul set. Lo stesso Sordi affermò chiaramente in un'intervista: "Io avevo una gran voglia di smontare il mito dell'eroe. Volevo rappresentare gli uomini come erano in realtà, con tutti i loro difetti, dando vita ad un nuovo tipo di comicità". Il finale dissacrante, provocatorio, amaro e di chiaro stampo politico, è un ulteriore lampo di genio che simboleggia perfettamente il tocco irriverente del regista. Da segnalare nel ricco cast: Franca Valeri, Giovanna Ralli, Tina Pica, Leopoldo Trieste, il regista Alberto Lattuada e il mitico Carlo Pedersoli (ai suoi inizi cinematografici) prima che prendesse il nome d'arte di Bud Spencer.
 
Voto:
voto: 3,5/5

Nestore l'ultima corsa (1994) di Alberto Sordi

Gaetano, vecchio vetturino ormai prossimo alla pensione, ha un devoto nipotino che lo accompagna "a cassetta" nei giri turistici in calesse per le vie di Roma, una figlia che fa la spogliarellista in un infimo locale di quart'ordine e un cavallo, Nestore, compagno di lavoro e di una vita, a cui l'uomo è molto affezionato. Quando Nestore dimostra tutta la sua anzianità, non riuscendo più a fare la salita verso il Pincio, bloccando così il traffico cittadino, il cinico Otello, proprietario di cavallo e vettura, decide di mandarlo al mattatoio e di pensionare Gaetano. Ma lui non ci sta e cerca in tutti i modi di salvare il suo amico a 4 zampe da una orribile fine. Il terzultimo lungometraggio di Alberto Sordi attore (il penultimo da regista) è un dramma intimo, malinconico e disperato sulla vecchiaia e sulla fine di un'epoca, una sorta di struggente testamento spirituale che omaggia la Roma di una volta, la sua straordinaria carriera ormai anagraficamente avviata verso il viale del tramonto ed anche i grandi Maestri del Neorealismo italiano come Vittorio De Sica e Cesare Zavattini (anche lo spettatore meno preparato potrà cogliere i numerosi riferimenti a Umberto D. (1952) ). Non tutto funziona bene in questo film mesto, a tratti pateticamente lacrimevole, non esente da cadute grevi e retorica sentimentale. Ma la sofferta e sincera interpretazione di Sordi, la forte carica emotiva che accompagna il suo personaggio e la crudezza inaspettata del finale al mattatoio (un autentico pugno allo stomaco dello spettatore), ne riscattano la dimensione di emblematico commiato che uno degli attori italiani più amati in assoluto ha regalato al suo pubblico, a sè stesso, alla sua carriera e, in un certo senso, anche alla vita.

Voto:
voto: 3/5

Mafioso (1962) di Alberto Lattuada

Antonio Badalamenti, siciliano emigrato a Milano dove fa il capo squadra in una fabbrica, è sempre riuscito a sfuggire alle grinfie dell'ambiente mafioso in cui è cresciuto prima di trasferirsi al Nord. Ma quando ritorna nella sua Sicilia in vacanza insieme alla famiglia, un boss del suo paese gli impone di recarsi in America e compiere un omicidio su commissione, pena la perdita della sua tranquilla vita da cittadino onesto in Lombardia. Lucido e inquietante dramma sociale di Alberto Lattuada, un ritratto asciutto e spietato della mafia siciliana e di una regione inevitabilmente segnata dalla difficile convivenza (e connivenza) con questo inestirpabile cancro criminale. Nonostante la presenza di Alberto Sordi, che all'epoca ingannò buona parte del pubblico, il film non ha nulla a che vedere con la commedia e con la comicità. E' invece un apologo secco e tragico dei malcostumi siciliani (ma non solo), che mostra come sia difficile rimanere onesti quando si cresce in determinate realtà sociali. I punti di forza indiscutibili dell'opera sono: la regia misurata e tagliente, la fotografia in bianco e nero di Armando Nannuzzi e la notevole interpretazione in sordina di Sordi, perfettamente a suo agio in un ruolo drammatico e nel personaggio più cattivo della sua folta galleria. Dopo l'inevitabile spaesamento iniziale, gli spettatori apprezzarono molto la pellicola che riscosse un gran successo al botteghino nazionale, finendo però penalizzata, sul versante del gradimento critico e della vittoria di eventuali premi, dall'uscita contemporanea del capolavoro assoluto Salvatore Giuliano (1962) di Francesco Rosi. Il brano dei titoli di testa, composto da Piero Piccioni, è stato utilizzato da Sordi nella scena più drammatica del suo terzultimo film, Nestore, l'ultima corsa (1994). "Albertone" ha raccontato spesso un aneddoto secondo cui, durante un suo incontro a New York con Martin Scorsese, il leggendario regista italoamericano gli baciò le mani in segno di affetto e di omaggio per la sua grande interpretazione attoriale di uomo di Cosa Nostra in questo film.

Voto:
voto: 3,5/5