venerdì 30 settembre 2016

Julieta (Julieta, 2016) di Pedro Almodóvar

Julieta è una donna di mezza età, insegnante di lettere classiche, in procinto di lasciare la Spagna per il Portogallo insieme al suo compagno, Lorenzo. Ma l’incontro casuale con una giovane ragazza riporta a galla un doloroso passato e riapre in lei antiche ferite mai del tutto rimarginate, che la spingono a cambiare i suoi progetti. Un lungo flashback ci racconta il passato della donna, con una serie di drammi familiari impossibili da cancellare. L’opus numero 20 del talentuoso autore manchego è un melodramma familiare asciutto e teso che lavora per sottrazione emotiva, pur abbondando nella molteplicità degli eventi. Elegante e spartano nella messa in scena, è una dolente parabola sul senso di colpa e sull’ineluttabilità del destino, che rifiuta l’enfasi o il coup de théâtre in favore di uno stile sommesso, incline all’amaro disincanto che registra senza fronzoli la crudezza della vita e la difficoltà di gestire i rapporti sentimentali. Almodóvar ritorna ad un cast tutto al femminile (in cui spiccano Emma Suárez e Adriana Ugarte che interpretano la protagonista in due diverse età della sua esistenza), ma rinuncia del tutto ai tocchi piccanti, alle trasgressioni colorite, ai graffi impudenti, all’irriverenza erotica e persino a quella toccante umanità che hanno reso grande il suo cinema. Con il distacco di uno scienziato che enumera eventi, imperfezioni, pulsioni e danni collaterali provocati dalle scelte di vita di Julieta, egli si affida al pilota automatico per condurre in porto questo dramma raffreddato, concedendosi però due lampi di genio: la scena dello shampoo (che è puro Almodóvar) e il finale aperto, a sottolineare che la vita è un flusso casuale indeterministico in continuo divenire e che la sola cosa che conta davvero è viverla. E affrontarla. Nonostante tutto.

Voto:
voto: 3,5/5

giovedì 29 settembre 2016

Vanya sulla 42ª strada (Vanya on 42nd Street, 1994) di Louis Malle

In un vecchio teatro sulla 42ª strada, destinato alla demolizione, un gruppo di attori professionisti stanno facendo le prove per portare in scena la commedia “Zio Vanja” di Anton Čechov. La bellezza del testo in breve conquista tutti gli interpreti, che si immedesimano a tal punto nella storia da rendere attuali (e forse reali) i contrasti e le emozioni dei rispettivi personaggi, interiorizzandoli e adattandoli alla loro situazione personale. Straordinaria opera ultima di Louis Malle (che morì l’anno dopo), che si congeda dal suo pubblico con questa memorabile commedia tragica che intende filmare il Teatro (quello con la T maiuscola), innescando affascinanti riflessioni sul rapporto tra arte e vita, realtà e finzione, persone e personaggi. La natura stessa del progetto è conforme al paradossale “gioco delle parti” sotteso nell’opera: infatti il film è tratto da un’opera teatrale di David Mamet, a sua volta tratta dalla commedia di Čechov. Rendendosi invisibile ma empaticamente vicino ai suoi personaggi, l’autore celebra il potere della recitazione e la forza della parola con classe sopraffina, maturità espressiva e assoluto controllo della narrazione. Notevole la sua abilità nel mantenere in funambolico equilibrio l’acre umorismo e la violenza implosiva presenti nel testo ispiratore e puntualmente ribaltati nella sua rappresentazione scenica, in un gioco di specchi a più livelli di assoluta fascinazione. Da applausi l’intero consesso degli attori, tra cui citiamo Wallace Shawn, George Gaynes, Julianne Moore, Larry Pine, Lynn Cohen, Phoebe Brand. E’ un film colto per cinefili, che potrebbe risultare indigesto al pubblico mainstream, da preferire nella sua versione originale (magari con l’ausilio dei sottotitoli) per le numerose sfumature linguistiche che si perdono inevitabilmente nel doppiaggio italiano.

Voto:
voto: 4,5/5

Ritratto di signora (The Portrait of a Lady, 1996) di Jane Campion

Sul finire dell’800 la giovane americana Isabel Archer approda in Inghilterra dove eredita un ingente patrimonio dallo zio defunto. Corteggiata da tutti, la donna, avida di esperienze e di libertà, rifiuta ogni proposta amorosa e decide di partire per l’Italia, provocando uno scandalo in famiglia. Giunta a Firenze cade nella rete di Gilbert Osmond, intellettuale snob dai modi raffinati che mira al suo denaro. Tratto dal romanzo omonimo di Henry James, questo aspro melodramma in chiaroscuro della Campion è un denso ed elegante affresco della condizione femminile nel XIX secolo, in cui i punti cardine come infelicità, discriminazione, emancipazione e ricerca di una propria indipendenza al di là della figura maschile, guardano anche all’oggi. Maestoso nella ricostruzione storico ambientale, esteticamente sontuoso nella splendida fotografia ovattata e nell’uso “pittorico” delle luci, splendidamente recitato da un cast straordinario (Nicole Kidman, John Malkovich, Barbara Hershey, Shelley Winters, Martin Donovan, Mary-Louise Parker, Viggo Mortensen), questo possente ritratto di lussuosa opulenza e di silente disperazione è stato uno dei film più sottovalutati degli anni ’90. Probabilmente a causa dell’approccio irrequieto e spregiudicato della talentuosa regista neozelandese, che qui ci regala un nuovo intenso universo femminile senza mai rinunciare all’estro dei suoi tocchi bizzarri, pur in una messa in scena di stampo rigidamente classico. E’ d’obbligo citare, in tal senso, la sequenza in cui la protagonista immagina un rapporto sessuale con ciascuno dei suoi tre pretendenti o il suo “Grand Tour” europeo sintetizzato con lo stile delle vecchie comiche. Il finale aperto, che lasciò perplessi la maggior parte dei critici, è un’altra pennellata di gran classe, all’insegna di una fertile ambiguità. Da rivalutare.

Voto:
voto: 4/5

Irma la dolce (Irma la Douce, 1963) di Billy Wilder

Nestor, ex poliziotto, sognatore dal cuore d’oro, s’innamora perdutamente di Irma, bella prostituta parigina. Corroso dalla gelosia fa di tutto per convincere la donna a frequentare un unico cliente, il ricco Lord X, che in realtà è lo stesso Nestor travestito. Divenuto ben presto geloso persino del suo alter ego, il nostro ne inscena la finta morte, ma finirà per essere accusato dell’omicidio del fantomatico lord. Travolgente commedia di Wilder tratta da un musical francese (“Irma la Douce”),  musicato da Marguerite Monnot e scritto da Alexandre Breffort. Con un perfetto meccanismo che dosa sapientemente i tempi comici, le irresistibili gag, un trasognato romanticismo in rosa e la consueta vena farsesca che stinge nel dramma (tipica del geniale autore), quest’opera straripante riattualizza il genere “vaudeville” e ci regala una caustica riflessione sul tema dello sdoppiamento di personalità. Straordinarie le scenografie di Alexandre Trauner che ha ricostruito interamente negli studi hollywoodiani le strade di Parigi, donandogli una stilizzazione magica che costituisce la cifra estetica più intima del film. Bravissimi i due interpreti principali, Jack Lemmon e Shirley MacLaine, che si confermano come una delle migliori coppie mai viste sul grande schermo. Su tre nomination la pellicola vinse un solo Oscar, per la colonna sonora di André Previn che riadattò l’originale francese. Agile, scatenata, sofisticata e sentimentale, questa commedia brillante costituisce l’ennesima gemma nell’itinerario artistico di Wilder.

Voto:
voto: 4/5

mercoledì 28 settembre 2016

Lo specchio della vita (Imitation of Life, 1959) di Douglas Sirk

Lora Meredith, attrice di teatro rimasta vedova, sacrifica l’amore e la famiglia per dedicarsi anima e corpo alla sua carriera artistica. Rinuncia infatti alla corte di un giovane fotografo e fa crescere la piccola figlia Susy da una governante di colore, che ha a sua volta una figlia, Sarah Jane. Quest’ultima, anch’essa ossessionata dal desiderio di sfondare nel mondo dello spettacolo, approfitta del colore più chiaro della sua pelle per spacciarsi per bianca e scappa di casa, vergognandosi delle sue origini. Questo intenso dramma sentimentale al femminile, remake di Lo specchio della vita (Imitation of Life, 1934) di John M. Stahl, è l’ultimo film hollywoodiano di Douglas Sirk, nonché il migliore e il più famoso dei suoi melodrammi ardenti, raffinati e colorati. La riflessione, tipica dell’autore, sui mali oscuri della borghesia americana (ricca, viziata e ossessionata dall’etichetta) diventa stavolta un affresco ben più ampio e sottile sui conflitti di classe, di razza e di generazione, con una messa in scena magnificamente trattenuta che lascia però sempre trasparire il magma di passioni che ribolle sotto la coltre di buone maniere imposte dal rigido perbenismo dell’epoca. Evitando abilmente la cadute nel patetico e nel lacrimevole, l’autore confeziona un formidabile ed elegantissimo ritratto di un’America ipocrita e razzista, che trova pieno compimento nella memorabile sequenza finale del funerale sulle note di “Trouble of the World”, cantata da Mahalia Jackson. Nel grande cast vanno menzionati Lana Turner, Juanita Moore, Susan Kohner, John Gavin e Sandra Dee, tutti bravissimi nei rispettivi ruoli. La Moore e la Kohner furono entrambe candidate all’Oscar come miglior attrice non protagonista, ma dovettero arrendersi alla Shelley Winters de Il diario di Anna Frank, che si aggiudicò l’ambito premio. La Turner, celebre bionda platinata e icona di bellezza hollywoodiana nel periodo a cavallo tra gli anni ’40 e gli anni ’60, lodò pubblicamente il regista per essere stato il primo a saperne cogliere ed esaltare lo spessore di attrice drammatica, oltre che l’avvenenza fisica. Il film è unanimemente considerato come uno dei più grandi melodrammi di tutti i tempi.

Voto:
voto: 4,5/5

Magnifica ossessione (Magnificent Obsession, 1954) di Douglas Sirk

Il ricco seduttore Bob Merrick causa indirettamente la morte di un medico e la cecità di sua moglie Joyce. Colpito dal rimorso egli diventa un valente chirurgo, opera con successo la donna restituendole la vista, se ne innamora e finisce per sposarla. Questo fiammeggiante melodramma, remake di Al di là delle tenebre (1935) di J.M. Stahl, è un’opera fondamentale e quintessenziale della filmografia di Douglas Sirk, perché ne ha codificato definitivamente lo stile visivo e le ossessioni formali, dando forma concreta alla sua estetica elegante ed intensa. Tedesco fuggito in America, Sirk è diventato famoso per i suoi melodrammi feroci, formalmente sontuosi ma percorsi da una sottile tensione che striscia sotto pelle, ovvero quell’intreccio di passioni e di pulsioni che la bigotta società americana degli anni ’50 doveva tenere ben celata sotto la patina inamidata del conformismo borghese. Nonostante l’esilità della trama la pellicola è un vero piacere per gli occhi, un tripudio di misticismo sentimentale incorniciato dalla splendida fotografia cromaticamente opulenta e da una messa in scena dallo stile impeccabile. E’ anche un film recitato benissimo dal cast principale composto da Jane Wyman, Rock Hudson, Barbara Rush e Otto Kruger. Vanta enormi schiere di appassionati, come tutti i melodrammi sirkiani, ed è da collocare tra i grandi classici del genere romantico della vecchia Hollywood.

Voto:
voto: 4/5

martedì 27 settembre 2016

La pazza gioia (La pazza gioia, 2016) di Paolo Virzì

Villa Biondi è una comunità della campagna pistoiese per donne affette da problemi mentali e sottoposte a misure di custodia cautelare. Qui s’incontrano Beatrice, sedicente contessa logorroica dalla maniere affettate, e Donatella, giovane introversa piena di lividi e tatuaggi che nasconde traumi dolorosi. Nonostante le enormi differenze di carattere e di estrazione sociale, tra le due donne nascerà un’amicizia stravagante e sincera. Un giorno, sfruttando la scarsa organizzazione della struttura che le ospita, le due scapperanno per concedersi una folle “vacanza” all’insegna del divertimento, che ben presto si trasformerà in una dolente ricerca del proprio passato, tra colpi di testa e sensi di colpa. Intensa commedia drammatica di Virzì che, alternando il registro tragico a quello ironico, cuce addosso alle due bravissime protagoniste (Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti) una vicenda tenera e appassionata tutta al femminile, che ci parla di depressione, di alienazione, di sociopatia, di amicizia e anche di come la fragilità psicologica sia un “peccato” intollerabile di fronte al cinismo del mondo dei così detti “normali”. Con una fotografia solare ed un ritmo agile, il regista livornese torna alla sua amata Toscana per questa storia “on the road” in cui si ride, si piange, si sorride e si riflette amaramente sulla triste condizione degli psicolabili, la cui sociopatia è solo la punta dell’iceberg di un malessere generale più profondo, di cui la stessa società si fa complice con la sua bieca indifferenza. A mano a mano che si scava nel passato delle due protagoniste, appare infatti evidente come i traumi infantili, l’assenza dei familiari e l’insensibilità del contesto sociale siano le evidenti concause della loro “follia”. L’autore punta il dito sull’imperfezione della natura umana e sulla crudeltà della vita, che non si ferma mai ad aspettare i più lenti o i più deboli nel suo veloce incedere quotidiano, e, con sguardo lucido e tenerezza compassionevole verso le sue “eroine”, descrive con lucida perizia il paradosso delle due “matte” che fuggono dalla comunità terapeutica per affrontare un “manicomio” ben più grande, quel mondo popolato da personaggi non meno “matti” di loro, ma ben protetti dalla franchigia della durezza d’animo. Tuttavia il regista toscano è anche bene attento a non scadere nell’elogio populista della “pazzia” (a meno di qualche piccolo scivolone finale nella retorica sentimentale), perché non disdegna altresì di tratteggiare i lati oscuri, le inconfessabili colpe e gli aspetti infimi della personalità di Beatrice e Donatella. Il nostro si riconferma narratore di razza, sensibile ed attento nei riguardi della società italiana contemporanea, lieve nel tocco e pungente nei contenuti, ultimo paladino della grande tradizione della Commedia all’italiana.

Voto:
voto: 4/5

L'alieno (The Hidden, 1987) di Jack Sholder

Una misteriosa ondata di violenza sconvolge la città di Los Angeles e ne insanguina le strade. Persone apparentemente normali e fino a quel momento irreprensibili, si trasformano di colpo in spietati assassini che uccidono senza un reale movente. L’unico che sembra capirci qualcosa è l’enigmatico agente FBI Lloyd Gallagher che, quasi apparso dal nulla, ha le idee chiare sul nemico a cui sta dando la caccia: un parassita alieno che s’impossessa degli esseri umani trasformandoli in mostri sanguinari. La malefica entità si trasferisce come un virus da un corpo all’altro, abbandonandolo dopo che questo è morto per cercarne subito un altro da possedere. Affascinante e riuscita commistione tra horror, fantascienza e azione in questo film sicuramente derivativo ma teso e scattante, che sa garantire un solido intrattenimento action, regalandoci più di una sequenza inquietante. I debiti con L'invasione degli ultracorpi (1956) di Don Siegel e con La cosa (1982) di John Carpenter non sfuggiranno agli appassionati del genere sci-fi, ma questa “piccola” pellicola di Sholder sa ritagliarsi una propria dimensione originale, con la sua connotazione di violento poliziesco urbano che nasconde una verità più agghiacciante. Nel nostro paese è passato in sordina ed è quasi sconosciuto, ma in America ha numerosi ammiratori che lo collocano tra i cult degli anni ’80. Ha avuto un sequel assai peggiore ed ha sicuramente influenzato il successivo, e più famoso, Il tocco del male (Fallen, 1998) di Gregory Hoblit. Nonostante la sua aria da B-movie il film si avvale di ottimi effetti speciali che ne aumentano l’efficacia. Nel cast citiamo Kyle MacLachlan (attore feticcio di David Lynch), Michael Nouri e Claudia Christian. La sequenza della sexy ballerina di lap dance posseduta dall’alieno merita, già da sola, il prezzo del biglietto. Consigliato agli amanti del genere horror/sci-fi o ai fans della serie di X-Files, di cui il film di Sholder sembra quasi anticipare le atmosfere.

Voto:
voto: 3,5/5

sabato 24 settembre 2016

Mr. Nobody (Mr. Nobody, 2009) di Jaco Van Dormael

Nell’anno 2092 un uomo di 117 anni, di nome Nemo Nobody, è l’ultimo superstite della razza umana “tradizionale”, ovvero l’ultimo uomo destinato a morire di vecchiaia. Infatti il crescente progresso scientifico ha consentito all’umanità di sconfiggere la morte e divenire immortale grazie ad un ciclico processo di rinnovamento cellulare detto “telomerizzazione”. La curiosità mediatica intorno al destino e alla vita dell’ultracentenario è enorme, al punto che viene istituito un reality show per trasmettere in diretta i suoi ultimi istanti. In attesa dell’evento, Nobody, che dice di non ricordare nulla del suo passato, viene sottoposto ad ipnosi da parte di uno psicologo, affinché possa rammentare e raccontare i momenti principali della sua lunga esistenza. Ne verrà fuori un disordinato flusso di ricordi, emozioni e vicende, in cui è impossibile separare la realtà dal sogno, i fatti realmente accaduti da quelli che sarebbero potuti accadere, le occasioni colte da quelle perdute, in un labirinto di eventi che abbracciano tre fasi salienti della vita dell’uomo: l’infanzia con la separazione dei genitori, l’adolescenza con i primi tumultuosi amori e l’età adulta con le difficoltà ad essa connesse. L’opus n. 3 di Jaco Van Dormael, talentuoso regista belga, è un’ambiziosa e abbacinante polifonia di immagini, suggestioni e sensazioni, sotto forma di affresco caotico surreale sospeso tra simbolismo onirico e odissea esistenziale di matrice universale. Divenuto rapidamente un’opera di culto presso il pubblico giovanile, questo film ostico e sorprendente ha suscitato reazioni estreme, di fanatica adorazione o di deluso sconcerto, ma non ha mai lasciato indifferente nessuno tra coloro che lo hanno visto, anche solo per pura curiosità. Ipnotico e visionario, astratto e sfuggente, confuso e audace, straripante nella sua ricchezza visiva ed ammaliante negli intrecci intellettuali, il film è una potente riflessione allegorica sulla scelta e su come questa determini il destino dell’uomo, creando snodi esistenziali e percorsi di vita alternativi, in una moltitudine di diramazioni interconnesse, ciascuna delle quali corrisponde a una possibile vita parallela. L’enorme lavoro concettuale alla base dell’opera dà luogo a una commistione di generi (fantascienza, racconto drammatico, romanzo sentimentale), a una miriade di citazioni (Kubrick, Penn, Mèdem, Fincher, Greenaway) e ad un esuberante magma di contenuti paradossali come la teoria del caos, la teoria delle stringhe, gli universi paralleli, il tutto condito con riflessioni psicoanalitiche, influssi pirandelliani, surrealismo ontologico, melodramma etereo, lampi poetici, astrazioni filosofiche. C’è tanto e forse troppo in quest’opera omnia che ci avvolge e ci frastorna con la sua estetica stupefacente, a metà strada tra incubo e videogioco. A tratti emerge il forte sospetto di manierismo autoreferenziale, altre volte l’ambizione concettuale deborda nell’enfasi iperbolica, ma il quadro d’insieme resta comunque sfavillante, emozionante, coinvolgente. Il viaggio a zig zag nella mente di Nobody e nel suo tempo interiore, attraverso un incredibile caleidoscopio di flashback, diventa la metafora fantastica del destino dell’uomo e di tutte le possibili vite che egli avrebbe potuto vivere modificando le sue scelte. E’ infatti evidente, fin dal nome mitologicamente simbolico, che Nobody sia l’emblema di tutti gli uomini e di nessuno. Da elogiare in toto il ricco cast in cui svetta il protagonista Jared Leto, all’apice del suo trasformismo, affiancato da Sarah Polley, Diane Kruger, Rhys Ifans, Natasha Little, Juno Temple. Degni di lode anche gli straordinari effetti visivi e la brillante colonna sonora eterogenea che mescola temi originali (composti dal fratello del regista) a brani classici. Nel 2010 è uscita una versione estesa del film, con circa 16 minuti aggiuntivi rispetto a quella cinematografica, per la gioia dei suoi numerosi fans. Entrambe meritano la visione, anche se la release originale uscita in sala è da preferire.

Voto:
voto: 4/5