venerdì 29 aprile 2016

Gioventù bruciata (Rebel Without a Cause, 1955) di Nicholas Ray

Tre giovani disadattati, due maschi e una femmina, Jim, Plato e Judy, vivono esistenze tormentate a causa delle difficili situazioni familiari. Si fanno coinvolgere nella pericolosa “chicken run”, una folle sfida alla morte che consiste in una corsa in auto lanciate verso un precipizio, da cui il conducente deve buttarsi il più tardi possibile per dimostrare il suo coraggio. Durante una sfida tra Jim e il rivale Buzz, è il secondo a lasciarci la pelle e la polizia si metterà sulle tracce dei tre amici, ricercati per concorso in omicidio. Celeberrimo dramma esistenziale sul tema del disagio giovanile, è presto divenuto un cult generazionale per schiere di ragazzi che si sono identificati con lo spirito inquieto e ribelle dei protagonisti. E’ uno dei tre film (insieme a La valle dell'Eden (East of Eden, 1955) di Elia Kazan e Il gigante (Giant, 1956) di George Stevens) che fecero di James Dean un divo leggendario, l’icona dei “ribelli senza causa” degli anni ‘50 e il mito di un’intera generazione irrequieta e sradicata per definizione. Mitizzato a prescindere da tutti i suoi numerosi fans, questo film ha indubbiamente molti meriti: una regia accorta e sensibile, un ritmo serrato, un montaggio incisivo, la fotografia solare di Ernest Haller, molte sequenze memorabili, il bel commento musicale di Leonard Rosenman e le ottime interpretazioni di tutto il cast, in cui svettano Sal Mineo e Natalie Wood, entrambi candidati all’Oscar come non protagonisti. E’ probabilmente la pellicola più famosa sul malessere adolescenziale, capace di descrivere con lucida intensità i tormenti del difficile passaggio all’età adulta, senza dimenticare le colpe di un’intera società in declino, la cui cattiva coscienza si specchia, con amaro disincanto, nelle vite maledette dei giovani ribelli protagonisti, figli disperati di genitori assenti e incapaci di comprenderne i profondi turbamenti. Alla sua uscita suscitò anche aspre polemiche per i temi trasgressivi e per la sua presunta glorificazione del ribellismo, a forte rischio di emulazione da parte dei più giovani. In realtà quello che scosse maggiormente il conformismo dei benpensanti furono le tematiche sulla repressione sessuale: quella di Judy ma, soprattutto, quella di Plato, le cui tendenze gay sconvolsero i moralisti bacchettoni dell’epoca. A volerci trovare un vero punto debole si può citare il sentimentalismo di alcune sequenze, che specialmente oggi appare ingenuo e datato, ma che va letto nell’ottica dell’adesione emotiva del regista rispetto al tema della narrazione. Il titolo italiano è entrato nel linguaggio comune, consolidandone lo stato di grande classico imperituro. Il fascino “maledetto” del film è stato sovralimentato dalla morte tragica e prematura dei tre protagonisti: Dean perse la vita in un incidente stradale un mese prima dell’uscita in sala della pellicola, Mineo fu assassinato nel 1976 e la Wood annegò misteriosamente (in circostanze mai davvero chiarite) nel 1981. Come disse Truffaut, James Dean è l’incarnazione perfetta dell’eroe “baudelairiano”, tenero e crudele, affascinante e dannato, inevitabilmente “fuori” da un mondo cinico che ne mortifica l’utopia di innocente purezza.

La frase:Vorrei che ci fosse un solo giorno in cui io non debba sentirmi così confuso e non debba provare la sensazione di vergognarmi di tutto.

Voto:
voto: 4,5/5

Splendore nell'erba (Splendor in the Grass, 1961) di Elia Kazan

Nel Kansas del 1928 i due liceali Bud e Deannie si amano follemente ma sono osteggiati dalle rispettive famiglie. Quella di lui, che impone al ragazzo di laurearsi prima di pensare al matrimonio, e quella di lei, la cui rigidità puritana ha provocato nella ragazza una forte repressione sessuale. Fortemente depressa per l’inevitabile fine del suo grande amore, Deannie finisce in una clinica d’igiene mentale e perde i contatti con Bud. Quando uscirà la grande Depressione e la conseguente crisi economica avranno cambiato ogni cosa e nulla sarà più come prima. Splendido melodramma sul primo amore di Elia Kazan, è uno dei capolavori dell’autore e una delle migliore opere in assoluto mai realizzate su questo tema. Edificato sulla sceneggiatura di ferro di William Inge (premiata con l’Oscar) e diretto con magistrale registro drammatico dal grande regista di origine greca, è un superbo affresco, amaro e sensibile, che funziona a due livelli: quello sentimentale, che è palpitante e spudorato, e quello sociale, con le caustiche critiche all’ipocrisia della bigotta borghesia americana e la suggestiva raffigurazione di come la grande crisi del ’29 abbia influenzato gli animi e la morale della gente. Il complesso tessuto di pulsioni e sentimenti su cui si fonda il suo patos narrativo vale anche come dolente elegia sulla giovinezza perduta. Commovente e fiammeggiante, audace nei temi (fu il primo film americano ad affrontare esplicitamente l’argomento della sessualità adolescenziale), superbo nella direzione degli attori, prende il suo titolo da un verso della poesia “Ode on intimation of immortality” di William Wordsworth, che nel film viene letta dalla splendida protagonista femminile in una scena di grande intensità drammatica. Nel cast spiccano i due protagonisti, Warren Beatty e Natalie Wood, che fu candidata agli Oscar come miglior attrice protagonista, ma venne battuta dall’altrettanto straordinaria interpretazione di Sophia Loren ne La ciociara. Il memorabile epilogo struggente è uno dei punti più alti della filmografia di Kazan, maestro del “Metodo” e figura tanto insigne quanto controversa della storia di Hollywood (a causa della sua tormentata vita politica, culminata con la collaborazione con il famigerato comitato McCarthy).

Voto:
voto: 4,5/5

Topkapi (Topkapi, 1964) di Jules Dassin

La bella avventuriera Elizabeth Lipp e l’esperto ladro Walter Harper organizzano il furto di un prezioso pugnale antico dal museo Topkapi di Istanbul. Per fare il colpo reclutano una squadra di dilettanti incensurati, ciascuno altamente specializzato nel rispettivo ruolo. Nonostante alcuni intoppi il piano rocambolesco ha successo, ma gli imprevisti sono sempre dietro l’angolo. Thriller avventuroso di Dassin che, dieci anni dopo il capolavoro Rififì, torna sul tema del “colpo grosso” con uno stile più leggero e brioso ed una maggiore sofisticazione estetica, invadendo spesso il registro della commedia giallo-rosa per mezzo di una serie di tocchi ironici e di situazioni paradossali, alcune delle quali molto riuscite. Tratto dal romanzo “The Light of the Day” di Eric Ambler, si avvale di una preziosa fotografia brillante che esalta in tutto il loro splendore le meraviglie artistiche del museo turco che dà il titolo al film. Nonostante la bellezza delle ambientazioni e l’ottima prova del cast cosmopolita, in cui segnaliamo Melina Mercouri (moglie del regista), Peter Ustinov (premiato con l’Oscar come miglior attore non protagonista), Maximilian Schell e Robert Morley, la pellicola appare a volte sfilacciata, con momenti pregevoli alternati ad altri maldestri. I suoi difetti, imputabili più alla sceneggiatura che alla regia, rendono il pur gradevole intreccio narrativo un po’ confuso, dando vita ad un divertissement d’autore visivamente ricco ma spesso irrisolto nei contenuti. L’esuberante epilogo punta tutto sul ritmo indiavolato per la costruzione del patos narrativo, a discapito della verosimiglianza, dando vita ad un tripudio eccentrico di trovate surreali e di lampi visionari che confermano la propensione anticonformista di un autore spesso in bilico tra impegno politico e velleità ironiche. La pellicola riscosse un buon successo di pubblico e critica alla sua uscita e segnò una svolta nella carriera di Dassin verso un cinema più semplice e “commerciale”.

Voto:
voto: 3,5/5

Il pistolero (The Shootist, 1976) di Don Siegel

Ai primi del ‘900 il famoso pistolero John Bernard Brooks, invecchiato e gravemente malato, torna nella cittadina di Carson City per regolare un vecchio conto in sospeso con tre nemici del suo passato. Mentre aspetta il duello finale avrà modo di scontrarsi con il rigido sceriffo locale, di conoscere un saggio medico tutto d’un pezzo e di stringere un sincero rapporto affettivo con Gillom Rogers, giovane figlio di una vedova presso cui l’uomo alloggia, che nutre una smisurata ammirazione per le sue gesta passate. Malinconico western crepuscolare di Siegel, è contemporaneamente celebrazione nostalgica ed epitaffio funerario di un genere e del suo eroe più iconico: il leggendario John Wayne, alla sua ultima interpretazione cinematografica. Realmente malato e dimesso nei toni rispetto ai fasti fordiani, Wayne s’identifica con vibrante intensità nel personaggio di Brooks, e l’evidente sovrapposizione della vicenda reale rispetto a quella di fiction, conferisce al film il tono solenne di uno struggente canto del cigno, il tramonto del più grande simbolo della mitologia del vecchio west. Siegel dirige con asciutto rigore quest’opera testamento, adattando con sobrietà il romanzo di Glendon Swarthout, da cui il film è tratto. Accanto al vecchio leone Wayne, la cui dolente “maschera” di rughe è indubbiamente commovente, sfilano nel cast stellare altri due mostri sacri: James Stewart (altra leggenda vivente del western classico, che qui appare in un ruolo marginale ma carismatico) e Lauren Bacall. Completano la grande squadra di attori John Carradine, Richard Boone, Hugh O'Brian ed un giovane Ron Howard, nel ruolo del coprotagonista Gillom Rogers. Geniale la scena di Brooks che prende il tram per recarsi alla resa dei conti con i suoi nemici, un emblematico passaggio dall’antico al moderno che sancisce in immagini il crepuscolo di un’epoca. Le sequenze iniziali in bianco e nero, che mostrano le imprese del pistolero Brooks, sono spezzoni di vecchi western del “duca” Wayne: la commemorazione definitiva della più celebre icona del genere.

Voto:
voto: 4/5

mercoledì 27 aprile 2016

Rapina a mano armata (The Killing, 1956) di Stanley Kubrick

Johnny Clay, rapinatore appena uscito di prigione, organizza un grosso colpo da due milioni di dollari all’ippodromo di Long Island, reclutando una banda di insospettabili. La rapina, minuziosamente preparata dall’abile Clay, riesce alla perfezione ma i guai iniziano al momento della spartizione del bottino con i complici. Infatti il più debole di loro, succube dell’avida moglie che lo tradisce con un uomo più giovane, non riesce a mantenere il segreto con la donna, che organizza un piano per rubare il malloppo e fuggire con il suo amante. L’azione sleale porterà ad una strage (il “killing” del titolo originale) a cui sopravvivrà il solo Clay, che non dovrà più dividere con nessuno l’ingente somma. Ma il destino ha in serbo altre sorprese. Terzo lungometraggio di Stanley Kubrick e primo capolavoro per il regista newyorkese che dà così inizio alla sua carriera leggendaria con un susseguirsi di opere memorabili che hanno definitivamente cambiato la Storia del Cinema, ridefinendo i codici di ciascuno dei generi con cui il grande Maestro si è cimentato. Tratto dal romanzo “Clean Break” di Lionel White, quest’opera magistrale rivoluziona gli stilemi di un genere ampiamente consolidato come il noir attraverso la sua innovativa (e geniale) struttura narrativa, gelida e geometrica, con la quale l’autore ci propone più volte la medesima storia da molteplici punti di vista, creando così un racconto ellittico di straordinaria suggestione ambigua. E’ questo il punto di forza assoluto, per la sua spiazzante originalità, di un plot altrimenti canonico che, nelle mani del genio Kubrick, diventa un possente apologo sulla sconfitta e sull’ineluttabilità del destino, che beffardamente scompagina le ambizioni umane e ne mortifica le ambizioni di controllo sugli eventi. Il regista si confronta con un genere classico, nobile ed esteticamente stabilizzato, rinverdendone lo stile con il suo estro artistico, grazie all’utilizzo del flashback circolare di tipo sincronico, permettendo così allo spettatore di “partecipare” alla minuziosa fase preparatoria del colpo osservandolo da prospettive differenti, ciascuna delle quali consente anche l’approfondimento psicologico di ciascuno dei personaggi coinvolti nella fitta trama. Paradossalmente questo meccanismo perfetto non viene volutamente applicato all’evento centrale della vicenda (la strage che dà anche il titolo all’opera in lingua originale), di cui ci viene offerto solo una fugace istantanea a posteriori. Questo arguto meccanismo fu poi abilmente ricalcato da Tarantino nel suo esplosivo film d’esordio, Le iene. Altri aspetti eccellenti dell’opera sono il ritmo incessante, che garantisce una suspense di alta tenuta, e la tecnica di ripresa immersiva, con la macchina da presa che tampina i personaggi senza dargli tregua, sottolineandone il ruolo di mere pedine nelle mani di un deus ex machina che sembra essere Johnny Clay ma, in realtà, è il fato. Nel cast svetta il protagonista Sterling Hayden, attore di grande affidamento e perfettamente a suo agio con il genere dei caper movie. Alla sua uscita la pellicola non ottenne il successo sperato al botteghino, ma entusiasmò la critica per la portata innovativa, il rigore formale e l’esuberanza creativa, al punto che molti osannarono il giovane regista ventottenne come l’erede naturale di Orson Welles.

Voto:
voto: 5/5

Manderlay (Manderlay, 2005) di Lars von Trier

Secondo capitolo, dopo Dogville, della trilogia americana di Lars von Trier sugli USA, terra delle opportunità, ancora in attesa del terzo e conclusivo episodio. Grace abbandona le montagne rocciose e giunge nella cittadina di Manderlay, in Alabama, dove i neri sono tenuti in schiavitù dai ricchi bianchi proprietari terrieri. Grazie ai gangster della banda di suo padre la donna decide di utilizzare la forza per imporre la democrazia nella piccola comunità, cercando di ottenere la convivenza “pacifica” tra razze diverse. Ma alla fine dovrà rinunciare al suo progetto, dopo aver scoperto che la libertà imposta non è vera libertà e che la comunità di colore, non abituata all’indipendenza, non è capace di vivere senza un padrone. Provocatorio, scorretto e graffiante apologo sullo schiavismo del geniale autore danese che, sebbene ambientato negli anni della grande depressione, intende parlarci della politica estera contemporanea americana, ovvero della guerra in Iraq di cui l’intero film è un’acida metafora. Il patetico tentativo di Grace di imporre il proprio concetto di democrazia con l’uso della forza corrisponde esattamente a quanto fatto dagli USA in medio oriente, utilizzando la scusante della minaccia terroristica e delle armi di distruzione di massa. Il regista prosegue dunque il suo oscuro viaggio nella cattiva coscienza dell’America, mettendone alla berlina il “Sogno” e svelandone la cinica natura rapace, fondata sul profitto e sulla prevaricazione a danno dei più deboli. La pellicola ha la medesima struttura del film precedente con la narrazione articolata in otto capitoli, l’utilizzo di scenografie minimali (spesso disegnate sul pavimento di un set chiuso che fa da ambiente contenitore) e la macchina da presa a spalla secondo i canoni del “Dogma”. Ma se Dogville è essenzialmente una parabola filosofico-antropologica, questo secondo film possiede uno spiccato taglio politico, facilmente estendibile a cupo racconto allegorico sul potere e le sue pratiche. E come nel primo capitolo anche qui l’evidente gioco di finzione scenica, volutamente esibito (per scopi stranianti) tramite l’artificio scenografico, viene arditamente ribaltato dalla ricca galleria di immagini reali che scorrono sui potenti titoli di coda, che consolidano e stratificano il senso beffardo dell’opera. Ancora una volta l’implacabile ma lucido teorema messo in atto dall’autore appare come un supremo atto di accusa nei confronti della nazione simbolo del capitalismo, un atto d’accusa non privo di quell’enfasi provocatoria tipica di von Trier. Il meccanismo ideologico alla base del film è perfetto e geometrico ma chiaro fin dall’inizio e, quindi, prevedibile. Ed è questo il solo “peccato originale” di un film splendido e complesso, ma meno geniale, meno viscerale e meno universale rispetto al suo predecessore. Il grande cast vede la sostituzione dei due attori principali: con Bryce Dallas Howard al posto di Nicole Kidman (che uscì così provata dall’esperienza di Dogville che non volle più saperne di lavorare con von Trier) e Willem Dafoe al posto di James Caan, a cui si affiancano Lauren Bacall, Udo Kier, Danny Glover, Isaach De Bankolé e Chloë Sevigny (molti dei quali ritornano in altri ruoli rispetto al capitolo precedente). E aspettando Washington, ovvero la terza parte della sua trilogia americana, von Trier ci consegna un altro memorabile tassello della sua graffiante epopea brechtiana sugli USA, un cupo viaggio attraverso i vizi, le ipocrisie e le meschinità di un paese paradossalmente vittima della sua stessa grandezza, in cui la “grazia” (Grace) è pronta a restituire tutti i colpi che subisce, pur di non soccombere. L’occhio per occhio, matrice ancestrale della cultura americana, è dunque il perno su cui si fonda il suo sbandierato senso religioso nazionale. Retaggio della vecchia frontiera e fautore di un imperialismo mascherato da garantismo. Ed è esattamente questo che ci dice quel “ragazzaccio” di Lars von Trier. Forte e chiaro, e senza sconti.

Voto:
voto: 4/5

Ispettore Callaghan: il caso “Scorpio” è tuo (Dirty Harry, 1971) di Don Siegel

L’ispettore Harry Callaghan della polizia di San Francisco è un vero duro, famoso per i suoi metodi poco ortodossi e per la sua insofferenza ai protocolli imposti dai superiori, che lui reputa “favorevoli” ai criminali. Riesce a catturare il famigerato serial killer detto “Scorpio”, che terrorizza la città facendo vittime casuali, ma la lentezza della giustizia rimette l’uomo in libertà per insufficienza di prove. Quando viene commesso un nuovo omicidio Callaghan decide di fare a modo suo. Memorabile poliziesco d’azione di Don Siegel, pietra miliare per il genere e opera di profonda rottura stilistica rispetto alla tradizione “hard boiled” del noir classico americano. Questo thriller crudo e teso ebbe un grande successo di pubblico alla sua uscita ed un enorme impatto sulla cultura popolare, sull’onda dell’enfasi emotiva derivata dalla feroce escalation del crimine di strada ai danni del comune cittadino, che si sentiva poco protetto da uno stato spesso latitante e incapace di far fronte all’offensiva delinquenziale con metodi appropriati. Da questa paura collettiva, assai diffusa negli anni ’70, nacque questo formidabile film “giustizialista”, che causò anche accese polemiche per l’utilizzo ideologico della violenza come unica possibile risposta all’ondata criminale. Nonostante le numerose accuse di fascismo e di populismo reazionario, la pellicola fece proseliti in tutto il mondo, ponendo involontariamente le basi per il “poliziottesco” italiano, nato dalla medesima spinta popolare, ma ben più greve e morboso nella maggioranza delle sue istanze. Diretto con grande abilità tecnica da un maestro del genere come Siegel, è un sapiente mix di azione violenta, cronaca drammatica, western urbano e suspense tagliente, con un sottotesto di inquietudini e pulsioni sociali profonde tutte incarnate nell’iconico personaggio di Callaghan (che in Italia ha guadagnato una “g” rispetto al nome originale di Callahan), interpretato con energico furore dal granitico Clint Eastwood, capace di consegnare all’immaginario collettivo un nuovo memorabile antieroe dopo il pistolero senza nome dei western di Leone. La forza dirompente e carismatica di Callaghan, intimamente connessa con la sua ambiguità, ha ispirato tutti i successivi giustizieri che hanno fatto la fortuna del poliziesco anni ’70. La figura del killer “Scorpio” è modellata su quella del vero assassino chiamato “Zodiac”, che insanguinò la contea di San Francisco proprio negli anni dell’uscita del film e che è rimasto ancora oggi senza un’identità accertata. La pellicola ha avuto ben quattro seguiti, tutti di notevole successo al botteghino ma ben più banali e grossolani, sempre interpretati da Eastwood ma diretti da registi differenti. Il primo episodio resta unico e inimitabile e merita ampiamente la visione per la sua solidità drammatica e per il suo alto valore storico.

Voto:
voto: 4/5

Un'altra donna (Another Woman, 1988) di Woody Allen

Marion è una scrittrice newyorkese di mezza età sposata con un medico. Un giorno scopre che attraverso una parete può origliare le sedute di uno studio psicanalitico nell’appartamento attiguo e, curiosa, inizia ad ascoltare. S’immedesima nelle confessioni della più giovane Hope e finisce per identificarsi con lei, entrando in crisi di coscienza e mettendo in discussione tutta la sua vita. Questo splendido dramma da camera, austero e rigoroso, è il film più bergmaniano di Allen, che si ispira anche esteticamente al grande Maestro svedese a cominciare dalla bella fotografia ocra, curata dal suo storico collaboratore Sven Nykvist. Passato inopinatamente in sordina alla sua uscita, poco amato dalla critica e incompreso dal pubblico, è in realtà uno dei più alti risultati raggiunti dal regista americano nella sua carriera, una solenne riflessione sull’esistenza come inevitabile compromesso tra l’io e il mondo esterno, densa di amaro disincanto ma anche di limpida serenità, che offre alla vicenda una luce di speranza. Pacato e risoluto, complesso e affascinante, denso e profondo, scava nella psiche dei personaggi e “costringe” lo spettatore a riflettere, a mettersi in gioco, mirando alla creazione del medesimo processo d’identificazione che avviene tra i personaggi di Marion e Hope (il cui nome ha un evidente valore metaforico). Dal punto di vista formale ci troviamo davanti a un capolavoro: scritto con incredibile finezza, solido nell’impianto narrativo (in bilico tra intelletto e istinto) e sontuoso nella confezione estetica di preziosa impaginazione. Il personaggio di Marion, interpretato con ammirevole intensità da Gena Rowlands, è una delle più riuscite figure femminili nella ricchissima galleria di donne alleniane ed è lei che incarna l’io narrante dell’autore in un film comunque pieno di elementi personali, a cominciare dalla coprotagonista Mia Farrow che durante le riprese era incinta del primo figlio biologico del regista. Questo film sussurrato e autunnale possiede delle atmosfere magiche e la semplicità pregnante delle grandi opere, e conferma l’assoluto talento di Allen nella rielaborazione artistica dei propri miti cinematografici e delle proprie ossessioni personali. La riflessione di Marion sulla natura dei ricordi è uno dei momenti memorabili dell’opera, che si apre ad una molteplicità di spunti e considerazioni che coinvolgono lo stesso spettatore in prima persona. L’altra donna invocata dal titolo è quella nostra parte interiore che spesso scegliamo d’ignorare, non a caso Allen per tutta la prima parte ce ne offre soltanto la voce, salvo poi svelarla oltre la metà del film. Ma il nome allegorico (Hope) non viene mai esplicitamente pronunciato ma compare soltanto nei titoli di coda. Completano il cast Ian Holm e Gene Hackman, che lascia il segno con un’apparizione tanto breve quanto intensa. Da recuperare assolutamente.

Voto:
voto: 4,5/5

Vicky Cristina Barcelona (Vicky Cristina Barcelona, 2008) di Woody Allen

Due avvenenti turiste americane vanno in vacanza a Barcellona. La prima, Vicky, è saggia, sensibile e deve sposarsi a breve; la seconda, Cristina, è libera, inquieta e sessualmente disinvolta. L’incontro con il pittore Juan Antonio, bizzarro e affascinante, coinvolge le due donne in un sensuale triangolo amoroso, ma l’entrata in scena della focosa Maria Elena, la turbolenta ex moglie di Juan, scompaginerà in modo imprevedibile tutte le carte in gioco. Solare commedia romantica di ambientazione spagnola, sospesa tra ironia e tristezza, che riflette con impudente leggerezza sulla volatilità dei sentimenti e sull’impossibilità dell’amore eterno. Forte di un astuto impianto narrativo (che gioca abilmente sui rapporti amorosi trasgressivi passando dalla doppia coppia al triangolo, fino al quadrilatero), quest’opera briosa ha il tocco lieve della saggezza sentimentale e l’eccesso barocco della Catalogna di Gaudì, dove arte e vita si mischiano e si confondono in un caleidoscopio di carnale passione. In questo suo opus n. 38 Allen srotola il tappeto leggero di un umorismo subdolo sul selciato granitico del suo inespugnabile cinismo d'antan. Peccato che l’opera sia attraversata da un’evidente sensazione di frettolosa superficialità, a partire da una Barcellona “da cartolina” raffigurata nella maniera più banale, fino ai personaggi altamente stereotipati nella loro caratterizzazione dei più tipici cliché, come la fredda razionalità americana contrapposta alla sregolata vitalità europea. Per fortuna c’è Penélope Cruz, che si dimostra un’autentica forza della natura nel portare scompiglio ed energia in un film che appare più un divertissement d’autore che il frutto di una reale ispirazione. Non mancano i momenti deliziosi e nemmeno quelli sensuali (Allen ci regala persino un bacio saffico tra la Cruz e la Johansson, sua nuova musa), ma un inequivocabile senso di ripetizione e di stanchezza affiora qua e là, a ricordarci che l’iperprolificità artistica del grande regista newyorkese andrebbe probabilmente mitigata in nome di una più fertile riflessione creativa. Nel cast stellare segnaliamo Rebecca Hall, Scarlett Johansson, Javier Bardem, Penélope Cruz (premiata con l'Oscar come miglior attrice non protagonista) e Patricia Clarkson.

Voto:
voto: 3,5/5