mercoledì 10 dicembre 2014

Toro scatenato (Raging Bull, 1980) di Martin Scorsese

New York, anni '40: ascesa e caduta di Jake La Motta, detto il "toro del Bronx", pugile italoamericano rozzo e brutale, figlio della miseria e di quell'ambiente chiuso dei ghetti di emigranti delle metropoli d'oltre oceano che han partorito, in egual misura, geni e criminali. Il ribelle Jake rifiuta le protezioni mafiose, abbandona la moglie per sposare la bellissima Vickie, finendo poi per tormentarla con maschilismo e gelosia, ma sfonda nella boxe arrivando fino alla vetta: il titolo mondiale dei medi. Ma il fenomenale Sugar Ray Robinson ne stroncherà le ambizioni avviandolo verso un patetico declino agonistico e umano. Capolavoro assoluto di Scorsese, ispirato all'autobiografia del vero La Motta, è il miglior film sportivo che sia mai stato realizzato: cruento, teso, asciutto, memorabile. Il grande regista newyorkese confeziona un formidabile ritratto in nero di un mondo, i ghetti italiani in America, che conosce alla perfezione e di cui Jake, superbamente interpretato da Robert De Niro nella performance più alta della sua carriera, rappresenta un naturale "prodotto", contaminato da un ambiente primitivo e feroce. La critica sociale dell'autore è tagliente ma raffinata e la sua capacità di astrazione dal materiale narrativo, per dar vita ad un sapido apologo sulla violenza come unico mezzo di espressione di un mondo "barbaro", è il segno incontestabile di una totale maturità artistica. In tal senso Toro scatenato va letto come il film della "svolta" nella carriera di Scorsese, oltre che uno dei suoi punti più alti e rappresentativi. Pervaso da un pathos furioso, è denso di momenti memorabili a partire dalle brutali scene sul ring, intrise di un furore espressivo che vira nel mitologico, per forza simbolica e vigore plastico dei contendenti, che si affrontano, sudati e sanguinanti, come eroi archetipi di un mondo ancestrale. Impaginato in un meraviglioso e tetro bianco nero, curato dal direttore della fotografia Michael Chapman, impreziosito dalle musiche d'opera di Mascagni, che conferiscono al tutto un solenne straniamento, e con un montaggio incessante (ad opera di Thelma Schoonmaker, premiata con l'Oscar), è uno dei grandi classici del cinema moderno. De Niro, ingrassato per l'occasione di circa trenta chili, offre un'interpretazione smisurata, anch'essa premiata con l'Oscar, garantendo una totale adesione al personaggio ed al suo mondo violento. Alla sua uscita divise la critica ma, nel tempo, ha messo tutti d'accordo, conquistando lo status di capolavoro che merita di diritto. E come direbbe Jake: "questo è spettacolo !".

Voto:
voto: 5/5

Mystic River (Mystic River, 2003) di Clint Eastwood

Sean, Jimmy e Dave sono tre amici d'infanzia cresciuti in strada, a Boston, negli anni '70. Un terribile episodio, la violenza sessuale subita dal debole Dave per mano di due pedofili che lo rapiscono e lo tengono segregato per giorni, segnerà le loro vite per sempre, in modi diversi. Una volta adulti si son persi di vista: Jimmy è un ex bullo con amicizie di malaffare che ha messo la testa a posto e gestisce un esercizio commerciale , Sean è un poliziotto con problemi sentimentali e Dave, per quanto sposato e con prole, non ha ancora superato i traumi infantili. Ma quando la giovane figlia di  Jimmy, Katie, viene barbaramente uccisa da uno sconosciuto i tre amici si ritroveranno insieme, ma l'indagine alla ricerca del killer farà cadere i sospetti proprio su Dave. Formidabile noir psicologico targato Eastwood che ci immerge fin dall'inizio in atmosfere malsane, con un senso di angoscia crescente e di minaccia incombente sempre dietro l'angolo. Il grande regista californiano conferma tutto il suo talento autoriale con una regia asciutta e rigorosa, di classica misura, che rinuncia ad ogni spettacolarità gratuita e ad ogni colpo di scena stereotipato in funzione di una narrazione asettica ma avvolgente, densa di lati oscuri e di zone tenebrose, che inducono un'alienante fascinazione e relativa vertigine morale. In un gioco crudele di "homo homini lupus", in cui nessuno appare del tutto colpevole e del tutto innocente, il punto di forza è nel rapporto antico tra i tre amici, interpretati da tre attori in stato di grazia: Sean Penn, Tim Robbins e Kevin Bacon (i primi due sono stati premiati con l'Oscar per questa performance). Il tocco lieve ed elegante di Eastwood dona al film una potenza espressiva, una complessità tematica ed una profondità psicologica che hanno pochi riscontri nel cinema americano di oggi. Ed è straordinario il finale, amaro, politicamente scorretto ma inevitabile, che eleva definitivamente il regista nel gotha dei cineasti contemporanei per la capacità di bilanciare, senza fronzoli, un'alta densità narrativa con uno stile incisivo che lavora per sottrazione, dando spazio agli attori. Lo spaccato di umanità mostrato nel film, debole, corrotto, alla deriva, stupisce per il sincero realismo che non si risolve nella classica catarsi liberatoria ma, piuttosto, nella dolente presa di coscienza della mancanza di senso, in un mondo in cui la debolezza è un peccato originale che provoca ferite laceranti, impossibili da rimarginare. Onore a Eastwood e al suo cinema, denso e profondo, che parla dell'oggi con linguaggio antico e che rappresenta un modello da imitare, la grande "lezione" del cinema classico che mette al centro i tre elementi base: sceneggiatura, regia, recitazione. Quelli su cui il cinema di qualità deve sempre poggiare, il resto è opzionale. Candidato a 6 Oscar "pesanti", ne vinse solo due per gli attori ma ne avrebbe meritati di più.

Voto:
voto: 4,5/5

martedì 9 dicembre 2014

Jackie Brown (Jackie Brown, 1997) di Quentin Tarantino

Jackie Brown (Pam Grier) è una hostess che contrabbanda valuta per conto del viscido Ordell Robbie (Samuel L. Jackson), trafficante d'armi nel mirino degli sbirri che frequenta un maldestro galeotto (Robert De Niro) ed una bionda sgualdrinella strafatta (Bridget Fonda). Tallonata da due agenti dell'antifrode che le promettono l'immunità in cambio di Ordell, l'abile Jackie escogita un ardito piano per uscirne ricca ed incolume con l'aiuto di Max Cherry (Robert Forster), esperto garante di cauzioni perdutamente innamorato di lei. Terzo opus di Tarantino, tratto dal romanzo "Rum Punch" di Elmore Leonard, è un noir corale di geometrica precisione e di alta densità narrativa, egregiamente scritto e diretto in maniera "classica" dal geniale regista di Knoxville, che stavolta rinuncia alla consueta destrutturazione del racconto in favore di una sorprendente linearità, che però sottende un intreccio complesso e sapientemente gestito. E' costruito come un enorme omaggio alla "blaxploitation", ovvero quel particolare sottogenere di "B-movies", in voga negli anni '70, grezzi e violenti, rivolti ad un pubblico afroamericano, e per questo l'autore ne ha scelto l'icona femminile per eccellenza, Pam Grier, come protagonista celebrata fin dal titolo. Teso e ammaliante, il film "ondeggia" convinto, nonostante la lunghezza, senza mai smarrire la direzione sulle note "black" di una colonna sonora trascinante, rigorosamente anni '70. E tra i consueti dialoghi fuori di testa e gli adorabili cattivi, tipici dell'autore, ci regala almeno un momento di puro cult: l'intera sequenza nel centro commerciale, follemente geniale secondo lo stile del regista. Nel cast tra un Samuel L. Jackson istrione ed un Robert De Niro dimesso, spicca un intenso Robert Forster, candidato all'Oscar come non protagonista.Viene erroneamente considerato un film minore del regista, probabilmente perchè "povero" dei celebri momenti pulp in favore di un'asciutta misura che guarda ai classici del genere, ma rinverdendoli con l'estroso stile tarantiniano. E' meno appariscente e roboante di altre opere più osannate dell'autore, ma ugualmente pregnante nella sua armonica uniformità.

Voto:
voto: 4,5/5

All that Jazz - Lo spettacolo comincia (All That Jazz, 1979) di Bob Fosse

Joe Gideon è un coreografo  ballerino cinquantenne che sta lavorando anima e corpo al suo nuovo musical, quello della sua vita. Gravemente malato di cuore si divide tra la ex moglie, le sue ballerine, produttori esigenti, medici invadenti ed una misteriosa "dama bianca" che gli appare, conturbante e complice, e a cui lui racconta, in assoluta confessione, i momenti salienti della propria vita. Straordinario dramma in musical è il capolavoro di Fosse, insieme al più famoso Cabaret del 1972, ed una delle vette assolute del genere. Nei suoi 123 minuti di durata c'è tutto: un superbo spettacolo visivo, scenografie sontuose, energia contagiosa, ritmo coinvolgente, musiche ammalianti, magistrali inserti surreali di fantasia superiore, geniale ricchezza espressiva ed un perenne contrasto tra chiaro e scuro, realtà e visione, che sublima l'opera verso un simbolismo di solenne astrazione. Ma su ogni cosa aleggia, per l'intera durata della pellicola, il senso della morte (la "dama bianca") con cui il protagonista costantemente dialoga, tirando le somme della sua vita, in una sorta di auto analisi onirica, straziante e liberatoria. Tutta la parte finale è un musical di assoluta genialità visionaria: Joe "fugge" dall'ospedale e finisce in una sorta di apparato circolatorio stilizzato, dove gli appaiono tutte le figure della sua vita sulle stranianti note di "I think I'm gonna die". Potente e struggente, è un musical di assoluta avanguardia e di straripante ricchezza stilistica, è una grande metafora della vita (e della morte), sospesa tra orrore ed incanto, amarezza ed esultanza, in un melange così intenso da risultare indimenticabile. Menzione speciale per il protagonista Roy Scheider, nella più grande interpretazione della sua carriera, che avrebbe meritato l'Oscar ma che dovette accontentarsi della nomination al miglior attore. Il film vinse invece quattro Oscar tecnici e la Palma d'Oro al Festival di Cannes a pari merito con il Kagemusha di Kurosawa. Tra i vari musical memorabili degli anni '70 è, probabilmente, quello più originale ed innovativo.

Voto:
voto: 5/5

La febbre del sabato sera (Saturday Night Fever, 1977) di John Badham

Tony Manero è un giovane italoamericano di Brooklyn che vive la sua giovinezza sognando Manhattan, tra amori fugaci, lavori precari, amicizie sbagliate, una famiglia possessiva e la sua unica grande passione: il ballo. Tutte le delusioni di una vita scialba vengono spazzate via al sabato sera, nelle discoteche di periferia, in cui Tony è il re indiscusso della disco music. Commedia musicale profondamente amara, a volte greve ma sempre sincera, divenuta, sorprendentemente e bene al di là dei propri effettivi meriti, un clamoroso fenomeno generazionale e di costume, fino a trasformarsi in uno dei simboli dei colorati anni '70 e della sottocultura "disco". Rese John Travolta un divo cinematografico dando vita alla così detta moda del "travoltismo", in cui tanti giovani cercarono di emulare il personaggio di Manero nel look e nel modo di ballare. Il lato migliore del film è quello introspettivo, che poi esplode nel drammatico finale: la denuncia di una gioventù coatta, sbandata e senza prospettive, quella delle periferie metropolitane, che guarda alle luci di Manhattan "al di là del ponte" come alla terra, irraggiungibile, del Sogno e delle opportunità: l'America, quella vera. Impossibile non citare la leggendaria colonna sonora dei Bee Gees che ha decretato, insieme alla verace sensualità di Travolta, il grande successo della pellicola. Ha avuto un imbarazzante seguito, Staying Alive, diretto da Sylvester Stallone nel 1983.

Voto:
voto: 3,5/5

domenica 7 dicembre 2014

Boyhood (Boyhood, 2014) di Richard Linklater

Mason è un bambino di 8 anni della middle class americana, figlio di genitori separati, con una sorella (Samantha) di qualche anno più grande, una madre (Olivia) volitiva e premurosa  ed un padre (Mason senior) amorevole ma poco adatto alle responsabilità che una famiglia comporta. La sua vita scorre sul grande schermo, condensando 12 anni nelle quasi 3 ore di durata della pellicola, attraverso le tappe cruciali che lo porteranno alla maggiore età: il rapporto intenso ma discontinuo con il padre, una madre tanto determinata nell'educazione dei figli e nel lavoro, quanto incapace di scegliere un compagno stabile, i continui traslochi, le famiglie "allargate", i primi amori, la passione per la fotografia, il college. Richard Linklater dà luogo, con quest'opera sincera e profondamente personale, ad un singolare esperimento cinematografico, tanto ardito quanto originale: filmare una vita (quella di Mason), e quindi la Vita, nell'arco di 12 anni reali, radunando il cast in modo periodico per vedere i ragazzi crescere realmente, e gli adulti invecchiare, sullo schermo. E dopo 12 anni di riprese, ovviamente non continuative, nasce questo Boyhood che è un potente affresco sull'America di oggi, sulla problematica crescita dei figli nella società capitalistica, che abbonda di beni materiali ma che ha smarrito le coordinate morali, gli ideali forti che facevano da collante collettivo, generando un caos inter-generazionale dovuto alla confusione dei ruoli. La sovrapposizione tra tempo reale e tempo filmico, egregiamente resa dalla sempre sorprendente trasformazione fisica di un bambino nel passaggio dall'infanzia all'adolescenza fino alla maggiore età, dona al film un incredibile senso di realismo, egregiamente supportato dall'ottima performance di tutto il cast: Ellar Coltrane, Patricia Arquette, Ethan Hawke. Il regista texano, che da sempre ama "giocare" con il tempo, ci regala così la sua opera più matura, più asciutta, più autobiografica ed uno dei migliori film del 2014. Più che un racconto di formazione o un diario sentimentale è un documento intimo, accorato ed anti spettacolare, che ci immerge nella vita attraverso il quotidiano, senza enfasi particolari ma con rigorosa sincerità. Senza scene madri o eventi straordinari, l'età dell'innocenza di Mason scorre e passa, trasformandosi, davanti ai nostri occhi per dar vita all'uomo di domani, in cerca del suo cammino e del suo posto nel mondo. L'eternità è fatta di attimi, sembra volerci dire il regista, e l'analisi, ora gioiosa ora avvilita, di questo microcosmo familiare si eleva a raffigurazione metaforica di un'intera società, perchè i temi toccati ed i problemi affrontati sono universali. Acuto, toccante e comunicativo come solo la vita vera sa esserlo, questo film di Linklater è l'ennesima conferma di come, oggi, il meglio della produzione cinematografica americana arrivi dal circuito indipendente. E' stato premiato al Festival di Berlino con l'Orso d'Argento alla regia.

Voto:
voto: 4/5

lunedì 1 dicembre 2014

America oggi (Short Cuts, 1993) di Robert Altman

Da nove differenti racconti brevi di Raymond Carver, Altman ha tratto questo enorme film corale che si compone, per l'appunto, di nove diverse linee narrative, che si intersecano tra loro, e più di venti personaggi: uno sbirro esagitato che tradisce la moglie casalinga, un anziano genitore che ricompare nella vita del figlio dopo tanti anni di assenza solo per assistere alla tragica morte del nipotino, un autista di limousine beone e innamorato di una cameriera, una vecchia cantante in disarmo con la giovane figlia musicista con manie suicide, un marito represso che finge di tollerare la moglie, operatrice di telefoni erotici, un artista pentito che confessa il suo adulterio dopo molti anni, un pescatore che trova in un lago il cadavere di una donna, un uomo violento e follemente geloso che fa a pezzi la casa della ex moglie, un giovane medico con problemi coniugali. Poderosa ed amara sinfonia in nero sulla deriva dei nostri tempi, sulla debolezza della natura umana che, da sempre, è origine dei suoi mali, questo capolavoro altmaniano è un modello indiscusso nella direzione di un cast ampio e variegato, con una magistrale capacità di bilanciare toni e registri senza mai smarrire il filo del discorso o perdere in equilibrio e densità narrativa. Ambientato in un'America "distante" e inquietante, crogiolo di razze che incarna perfettamente le tante contraddizioni dell'oggi, è un ritratto spietato e dolente, senza enfasi, non privo di sguardo pietoso e giammai giudicante, della società contemporanea, americana ma non solo. Il finale "apocalittico", con la scossa di terremoto a Los Angeles, dona all'opera la forza disperata di un urlo, solenne e definitivo: quello di un'umanità sofferente e incapace di far sentire la sua vera voce, coperta dal frastuono del quotidiano. Premiato a Venezia con il Leone d'Oro insieme a tutto lo straordinario cast, è una delle opere fondamentali del grande Maestro di Kansas City.

Voto:
voto: 4,5/5

Last Days (Last Days, 2005) di Gus Van Sant

Blake/Kurt Cobain è un giovane musicista di successo che vive da solo in una grande casa, fatiscente ed isolata, e che consuma i suoi giorni in preda al tormento di un male di vivere che non gli concede tregua e lo svuota di ogni energia vitale. Epilogo tragico ed inevitabile. Ispirandosi agli ultimi dolorosi giorni di Kurt Cobain, leader dei Nirvana morto suicida nella sua casa di Seattle, il talentuoso Gus Van Sant ha tratto questo requiem compassato ed insolito, originale nella struttura stilistica (che scardina i principali riferimenti unitari di tempo e di spazio), geniale nell'atmosfera "maledetta" di cui è intriso (la medesima che accompagnava il vero protagonista e la maggior parte delle rock star morte in giovane età) e di enorme fascinazione simbolica per il senso di morte incombente che inonda lo spettatore fin dal primo fotogramma. Opera spiazzante e di assoluta avanguardia nella filmografia del grande cineasta di Louisville, rinuncia a tutte le tentazioni musicali e didascaliche, in favore di un'angosciante (ma fervida) ambiguità espressiva che la rende una crudele e possente metafora della vita, intesa come umana deriva impotente nell'attesa della fine, unica certezza in un mondo di dubbi e di angosce. Ha deluso gran parte dei fans dell'artista ma è un'opera di indiscutibile rilievo artistico e di originale concezione estetica. Viene solitamente collocata, insieme a Gerry ed Elephant, in una ideale "trilogia della morte" dell'autore americano.

Voto:
voto: 4/5

Il Petroliere (There Will Be Blood, 2007) di Paul Thomas Anderson

Daniel Plainview è un cercatore di petrolio, misantropo, avido, feroce nel perseguimento della sua brama di possesso che non si ferma davanti a nulla e nessuno, al punto di calpestare morale, giustizia ed affetti personali. Un giovane viscido predicatore proverà ad ostacolarlo, mettendogli contro la bigotta comunità da lui manipolata grazie al fanatismo religioso, ma tutto finirà nel sangue, come già annunciato dallo splendido titolo originale. Dal romanzo "Oil!" di Upton Sinclair, P.T. Anderson ha tratto un apologo possente, dall'anima nera e dal respiro epico, sulle radici del sogno americano, piantate nella sporcizia dell'oro nero, nutrite dal sangue dei deboli e dalla cupidigia dei tiranni che hanno così posto le basi del capitalismo statunitense. Dedicato alla memoria del suo mentore, Robert Altman, e interpretato da uno straordinario Daniel Day-Lewis, che ci regala un'altra performance "bigger than life", è un'opera solenne, capitale, "sporca" e crudele, per certi versi paragonabile al leggendario Greed di Erich von Stroheim. Il finale nichilista, e volutamente eccessivo nella sua totale amoralità, fa da contraltare al silenzio della prima parte, fatta di immagini iconiche e potenti, e mette il suggello al pensiero del regista sul peccato originale da cui è scaturito il mito del "self made man". In una carriera superlativa come quella di Anderson quest'opera scomoda e imponente è un ulteriore balzo in avanti verso la maturazione definitiva.

Voto:
voto: 4,5/5