giovedì 29 giugno 2017

Le regole dell'attrazione (The Rules of Attraction, 2002) di Roger Avary

Il Camden College nel New England è frequentato da giovani benestanti e di buona famiglia ma dai comportamenti discutibili: Sean Bateman è sempre pieno di debiti, spaccia droga, è intimamente tormentato ed ha grande successo con le donne. Lauren Hynde si è mantenuta vergine per il ragazzo che ama, Victor, in giro per l'Europa per un viaggio a base di piaceri trasgressivi. Paul Denton, bisessuale, ha rotto con il suo compagno e ci prova con Sean, che a sua volta ha un debole per Lauren. Nell'attesa del ritorno di Victor, Lauren decide di flirtare con Sean. Così la bella gioventù del collage trascorre le giornate: poco studio e molte feste a base di sesso, droga e alcool. Adattamento cinematografico del romanzo omonimo dello scrittore "maledetto" Bret Easton Ellis, diretto da Roger Avary con un vertiginoso formalismo esasperato fatto di split-screen, frammentazioni che spezzano la linearità, oscillazioni narrative, riavvolgimenti della storia all'indietro o in avanti. Un formalismo non fine a se stesso ma che cerca di rendere visivamente il caos di una gioventù perduta, amorale, dissennata, viziosa, egoista ed edonista, dedita all'isterica ricerca di un piacere che conduce all'autodistruzione. Con sguardo impietoso ed una feroce ironia dissacrante che attenua le sequenze più crude, questo dramma giovanile che non si prende sul serio è ricco di momenti cult che gli hanno garantito un certo successo tra le nuove generazioni. Il suo dondolare tra lo sgradevole e il divertente è il segno di un cinismo registico degno di attenzione. Passato quasi inosservato nel nostro paese, ebbe parecchi guai con la censura americana (che sforbiciò diverse sequenze), si avvale di una bella colonna sonora e di un cast di "belli e dannati" (James Van Der Beek, Shannyn Sossamon, Kip Pardue, Jessica Biel e Kate Bosworth). Non era semplice adattare un romanzo come quello di Ellis, una sorta di patchwork narrativo fatto di ellissi e di lunghi monologhi in soggettiva, ma Avary ci è riuscito con una scrematura intelligente ed esteticamente accattivante che trova il suo tripudio tra il prologo grottesco, che già anticipa la conclusione degli eventi (che saranno poi dettagliati dopo il rewind temporale), e l'epilogo ambiguamente sospeso, ma indubbiamente amaro, che sancisce il fallimento di un modello di vita basato sul vuoto. Nel film viene citato Patrick Bateman, fratello di Sean, il serial killer protagonista di American Psycho.

La frase: "Nessuno conosce nessuno. Mai."

Voto:
voto: 3,5/5

Killing Zoe (Killing Zoe, 1994) di Roger Avary

Zed, scassinatore professionista americano, sbarca a Parigi per un colpo che il suo amico d'infanzia Eric vuole effettuare ai danni dell'unica banca aperta in città il 14 luglio (festa nazionale per la commemorazione della presa della Bastiglia). Prima di entrare in azione Zed si intrattiene con una sensuale squillo, Zoe, con cui il rapporto di puro sesso sembra trasformarsi in qualcosa di più. Prima della rapina Eric, Zed e la loro gang di sbandati passano la notte a bere e strafarsi di ogni tipo di droga, arrivando al giorno fatidico ipereccitati, in particolare il sadico Eric che trasforma subito l'irruzione in banca in un massacro. In breve la polizia circonda l'edificio, mentre Zed cerca di aprire la cassaforta e Eric, sempre più isterico, minaccia di uccidere tutti gli ostaggi. Sanguinoso e delirante caper movie, dall'estetica allucinata come il suo villain protagonista, scritto e diretto da Roger Avary, sodale di Tarantino con cui ha co-sceneggiato Pulp Fiction. Agile nel ritmo, feroce nella messa in scena, sgradevole nelle situazioni e nei personaggi, è un'orgia di violenza efferata qua e là mitigata da un sardonico umorismo nero. E' diventato famoso, presso gli amanti del cinema estremo, perchè contiene la più cruenta rapina vista al cinema negli ultimi anni. Notevole interpretazione di Jean-Hugues Anglade nel ruolo dello psicopatico Eric, che mette in ombra il resto del cast: Eric Stoltz imbambolato e Julie Delpy ornamentale. Per la sua ruvida brutalità sembra quasi un B-movie, girato con nevrotica energia nelle sequenze d'azione ma con due punti dolenti da dimenticare: la scena che cerca di tradurre in immagini le allucinazioni indotte dagli stupefacenti e il finale consolatorio che davvero non si regge. Imperdonabile!

Voto:
voto: 2,5/5

Happiness (Happiness, 1998) di Todd Solondz

Cronache di malcelato orrore quotidiano della classe media americana. La famiglia Jordan, due genitori anziani (Lenny e Mona) che si sono trasferiti in Florida e tre figlie femmine (Joy, Trish ed Helen) che vivono nel New Jersey, è un tipico nucleo familiare borghese, apparentemente rispettabile e sereno ma con un groviglio di perversioni e frustrazioni nascoste. La trentenne Joy vive ancora nella casa dei genitori, ha una vita sentimentale disastrosa e una improbabile relazione con un suo giovane studente immigrato dalla Russia. Trish è sposata con Bill, ha due figli, è sconsolatamente infelice ma non immagina che il marito ha un terribile segreto inconfessabile da nascondere. Helene è una scrittrice di successo che flirta con uno stalker telefonico, ignorando che si tratta del timido Allen, suo vicino di casa, che è in cura dall’analista Bill, marito di Trish. Stanco dei giochini della sexy Helene, Allen si fa coraggio e decide di uscire con la poco avvenente Kristina (che però è chiaramente interessata a lui), che dopo qualche bicchiere di troppo gli confida di aver ucciso e fatto a pezzi il corpo del portiere del palazzo, dopo che lui l’aveva stuprata. Crudele commedia nera di Todd Solondz, senza dubbio la più acida, la più feroce e la più scioccante degli anni ’90 per i suoi contenuti forti e sgradevoli che dipingono un cupo ritratto immorale della società americana odierna. Nel campionario di mostruosità che il film descrive senza alcun compiacimento morboso, anzi evidenziandone la banale ritualità abitudinaria, la geniale scelta stilistica dell’autore è quella di tener celate cose che normalmente si vedono sul grande schermo, di mostrarne esplicitamente altre che di solito si tengono nascoste per imbarazzo e di affidare ad un drammatico dialogo finale (teso come un cavo d’acciaio) la sequenza più atroce e sconvolgente dell’opera, forse la più disturbante in assoluto che il cinema americano ci ha proposto negli ultimi vent’anni. Questo piccolo grande film indipendente, la cui tagliente perfidia è pari solo alla sua rigorosa lucidità di analisi, utilizza un’audace ironia al vetriolo, a cominciare dal titolo beffardo, e ricorre al filo conduttore del cibo per tenere insieme le diverse sottotrame della vicenda. Tra eccessi e depravazioni, fallimenti e scheletri nell’armadio, non si ride e non si piange, forse a volte si ghigna, di sicuro ci si indigna e si riflette con sincera amarezza e dolente disincanto. Forse un po’ troppo lungo (134 minuti di purissima cattiveria distillata potrebbero risultare duri anche per i cinici impenitenti), ma i dialoghi sono ficcanti, le atmosfere torbide, i personaggi caratterizzati alla perfezione (anche nelle peggiori iniquità) ed il cast (che annovera Dylan Baker, Cynthia Stevenson, Rufus Read, Justin Elvin, Jane Adams, Jared Harris, Philip Seymour Hoffman, Lara Flynn Boyle e Ben Gazzara) straordinario nella sua performance globale. Ha fatto scalpore alla sua uscita per le tematiche trattate, fu accusato (in maniera strumentale) di banalizzare l’infamia, ebbe diversi problemi con la censura ma poi tutto si risolse con un divieto ai minori di 17 anni (che vale anche per un’eventuale visione in home video perchè gli argomenti affrontati potrebbero turbare). Diversi attori famosi rifiutarono di partecipare alla pellicola, giudicandola troppo estrema nei contenuti. Sconcertante e memorabile, può essere provocatoriamente definito come il lato oscuro (!) del capolavoro altmaniano America Oggi.

Voto:
voto: 4,5/5

Malcolm X (Malcolm X, 1992) di Spike Lee

Vita dell’agguerrito leader nero Malcolm X, tratta dall’autobiografia scritta da lui stesso con la collaborazione di Alex Haley. Nato come Malcom Little, figlio di un pastore protestante e cresciuto nel Nebraska, viene subito segnato dall’orrore della violenza razzista quando gli uomini del Ku Klux Klan uccidono suo padre e bruciano la fattoria di famiglia riducendoli in miseria. Anche la madre, impazzita dal dolore, muore poco dopo in un manicomio. Passando attraverso diverse famiglie Malcolm arriva a New York, dove inizia a delinquere, finisce in prigione, si converte all’Islam, si fa una cultura e decide di opporsi al potere dei bianchi. Una volta fuori di galera il nostro prende moglie, entra a far parte di un gruppo islamico, cambia il suo nome in “Malcolm X” (la lettera X sottolinea il cognome perduto) e diventa un leader politico capace di trascinare le masse con i suoi ideali appassionati ed estremi contro i bianchi ed il razzismo (che non escludono l’azione violenta se necessario). Si fa parecchi nemici, ma quando inizia ad assumere posizioni più moderate e favorevoli al dialogo con l’altra parte, finisce ucciso da un commando di sicari poco prima di tenere un discorso pubblico. Per il delitto furono condannati alcuni fanatici della Nation of Islam. Biopic romanzato di Spike Lee (la cui combattività in favore dei diritti dei neri ricorda un po’ quella di Malcolm X) sulla vita del celebre “principe” afroamericano che, negli anni ’50 e ’60, seppe accendere con veemenza i riflettori sul problema del razzismo e dei diritti civili degli americani di colore. Conoscendo la personalità, le idee e lo stile del regista possiamo dire che questo film era per lui praticamente inevitabile. Il risultato è un’opera appassionata, militante, didascalica, densa di propaganda antirazzista, agiografica fino all’estremo cristologico nel tracciare la parabola terrena del protagonista come quella di un autentico martire, redento dal vizio del mondo criminale, in cui era caduto per rabbia contro la società dei bianchi, e divenuto un “profeta” in difesa dei suoi fratelli. E’ quasi evidente che un film così spudoratamente “a tesi” sia poco interessante dal punto di vista ideologico, perchè nettamente di parte e a senso unico. Eppure ciò che lo riscatta e lo rende un’opera sopra la media, ricolma di personalità, è la bravura del regista nella direzione di una rapsodia di stili e di elementi che trova i suoi momenti più alti nelle sequenze musicali, nella lucidità caustica con cui vengono messi insieme i diversi tasselli, nell’estetica folcloristica ma anche ricca, esuberante, vigorosa, nelle scene di audace inventiva in cui il genere gangsteristico si sovrappone al musical classico. Ovviamente non si può non citare la memorabile interpretazione di Denzel Washington (una delle migliori della sua carriera), praticamente perfetto nei panni del leader politico protagonista. Completano il cast Angela Bassett, Al Freeman jr., Spike Lee, Kate Vernon, Roger Guenveur Smith, Giancarlo Esposito, Martin Donovan e Christopher Plummer. Indimenticabile la scena in cui Malcolm si fa dolorosamente stirare i riccioli per avere i capelli come i bianchi.

Voto:
voto: 3,5/5

Gli intrighi del potere - Nixon (Nixon, 1995) di Oliver Stone

Vita pubblica e privata di Richard Milhous Nixon, 37° presidente degli Stati Uniti, uno dei più controversi e pragmatici, un simbolo del lato oscuro della politica e degli intrallazzi del potere. Il film inizia dalla fine, dallo scandalo Watergate che, nel novembre 1973, segnò la fine della carriera politica di Nixon, costretto a dimettersi dalla carica presidenziale. Gli eventi principali della sua vita e della sua rapida carriera (deputato a 33 anni, senatore a 37, vicepresidente a 39, presidente a 55) sono raccontati in flashback, con un montaggio audace e vigoroso ben supportato da “miracolosi” effetti elettronici. E’ un kolossal storico biografico lungo (183 minuti nella versione cinematografica e 192 in quella Director's cut), puntiglioso, eccellente nella ricostruzione ambientale, esauriente nella disamina dei fatti, ambizioso come il suo protagonista, a volte mitizzato, altre volte tragicamente esasperato per accontentare la narrazione romanzata che il cinema hollywoodiano impone. Più classico, più misurato, meno isterico, più coeso e maturo rispetto agli standard del regista (che ha un’autentica predilezione per le biografie, i complotti e le storie caustiche contro il potere), è senza dubbio uno dei suoi film migliori e maggiormente equilibrati, un ritratto in chiaro scuro di un leader scomodo e ingombrante il cui destino si è sovrapposto idealmente e praticamente con anni particolarmente bui della storia americana. Grazie all’ottima sceneggiatura scritta dall’autore insieme a Stephen J. Rivele e Christopher Wilkinson, la pellicola approfondisce molti aspetti della vita di Nixon, con particolare attenzione verso la sfera privata, i tormenti interiori e gli avvenimenti che ne hanno segnato il carattere fin dalla giovinezza. Nel viaggio all’interno della personalità di Nixon ci vengono presentati, senza soluzione di continuità, il rimorso doloroso per la perdita dei fratelli, la risaputa invidia per i Kennedy (da lui sempre considerati dei privilegiati politici che hanno ottenuto il massimo senza doversi sporcare le mani), la frustrazione per non essere mai stato realmente amato dal popolo, l’orgoglio smisurato, la tronfia arroganza, gli scheletri nell’armadio, i mille compromessi, l’amara convinzione di essere stato usato come vittima sacrificale da dare in pasto al malcontento della nazione. Grandioso il cast con Anthony Hopkins (straordinaria e mimetica la sua interpretazione), Joan Allen, Paul Sorvino, Ed Harris, Bob Hoskins, E.G. Marshall, Mary Steenburgen, J.T. Walsh, James Woods e Kevin Dunn. Forse potrebbe risultare un po’ ostico al pubblico europeo per il gran numero di riferimenti ai fatti di politica interni, probabilmente sconosciuti ai non americani.

Voto:
voto: 4/5

Tempesta di ghiaccio (The Ice Storm, 1997) di Ang Lee

Connecticut, 1973: mentre l’America è turbata dallo scandalo Watergate, la famiglia borghese degli Hood, dall’apparenza impeccabile, si trova in un momento di generale impasse. Il marito Ben ha una relazione senza entusiasmo con la vicina di casa, la moglie Elena è irritata per le continue menzogne del coniuge e per le sue ambizioni culturali sempre messe in secondo piano, la figlia adolescente Wendy fa strani giochi maliziosi con due coetanei, il figlio maggiore è sempre assente per correre dietro alle ragazze. Per rompere la monotonia della routine matrimoniale Ben ed Elena partecipano a feste con scambi di coppia ma la cosa non sembra funzionare molto. L’arrivo di una tempesta epocale che paralizza la città, causa un blackout, una tragica disgrazia e costringe tutti in casa, darà modo a ciascuno di riflettere sul proprio comportamento, provocando un apparente rinsavimento generale. Ma quanto durerà ? Dramma familiare di Ang Lee, tratto dall'omonimo romanzo di Rick Moody, che riflette amaramente sul perbenismo della borghesia americana degli anni ’70, che, sotto la facciata di pavido conformismo e di presunta emancipazione giovanile, nasconde profonde insoddisfazioni, drammi personali, demoni interiori, miseria morale. Asettico e glaciale dal punto di vista figurativo, in bilico tra commedia e tragedia, smaschera l’assoluta confusione giovanile, alla ricerca di una propria identità (anche sessuale), di cui però non sono esenti neanche gli adulti, ancora più pateticamente persi tra voglie inconfessabili, desideri repressi e delusioni recondite. L’istituzione familiare, che dovrebbe essere il porto sicuro per antonomasia, diventa qui il centro nevralgico di frustrazioni, depressioni e risentimenti. Nonostante il potenziale della storia il film non graffia come dovrebbe ma si mantiene costantemente sul filo di un manierismo raffreddato e di una grigia prevedibilità. Buono il cast con Kevin Kline, Joan Allen, Sigourney Weaver, Tobey Maguire, Christina Ricci ed Elijah Wood. Vincitore del premio per la migliore sceneggiatura, a James Schamus, al 50° Festival di Cannes.

Voto:
voto: 3/5

Bronx (A Bronx Tale, 1993) di Robert De Niro

Il piccolo Calogero Aniello, italoamericano del Bronx, è figlio di Lorenzo, onesto conducente di autobus, ma è affascinato da Sonny, un potente gangster del quartiere, con cui diventa amico. Il padre cerca in tutti i modi di contrastare questo rapporto perchè conosce bene l’ambiente in cui è cresciuto e teme che il figlio possa essere attratto dal fascino del male e della vita facile che il mondo criminale promette, celando però il caro prezzo da pagare. Un giorno il piccolo vede Sonny commettere un omicidio sotto i suoi occhi ma, quando viene chiamato dalla polizia per un confronto diretto, rifiuta di identificare l’uomo come autore del delitto. Il rapporto tra il bambino e il mafioso diventa sempre più stretto, ormai Calogero vede nel criminale il padre che avrebbe sempre voluto avere: forte, carismatico, sicuro di sè, rispettato e sempre benevolente verso di lui. Dopo otto anni Sonny è diventato un boss e Calogero un adolescente sempre più ammaliato dall’ambiente mafioso, per la disperazione di Lorenzo che non rinuncia al tentativo di salvare il figlio strappandolo dall’influenza di Sonny. Buon esordio registico di Robert De Niro con un un dramma di formazione dai tratti malinconici che pesca a piene mani da quel background italoamericano newyorchese che l’autore conosce alla perfezione, sia per esperienza diretta sia per le collaborazioni con Martin Scorsese. La novità consiste nell’originalità del punto di vista, quello di un bambino di 9 anni nella sua crescita fino ai 17, con tutto il relativo carico di speranze, paure, sogni e idealizzazioni. Conteso tra due figure paterne antitetiche, un lavoratore umile e onesto non particolarmente brillante nell’eloquio ed un boss magnetico e suadente che sa incantare il ragazzo col suo modo di fare, Calogero dovrà fare il suo difficile e doloroso percorso interiore prima di operare una scelta e trovare la sua strada nella vita. La regia di De Niro è discreta e sobria, esattamente come la sua recitazione nel ruolo di Lorenzo Aniello, che si mette volutamente in secondo piano per concedere la scena al vero protagonista (e proprietario morale) del film: il bravissimo Chazz Palminteri, autore sia della sceneggiatura sia della pièce teatrale da cui la pellicola è tratta e magnifico interprete del gangster Sonny. Il cuore della storia sta tutto in due frasi simboliche che rappresentano i due stili di vita tra cui il piccolo è combattuto: “chi lavora è un fesso” dice Sonny (anche se poi ammonisce sempre il ragazzo di non imitarlo), invece il solido Lorenzo, da sempre fedele al suo onesto lavoro di autista che gli ha permesso di vivere con dignità e senza grilli per la testa, ha sempre sostenuto che “i veri eroi sono i “fessi” che ogni mattina si alzano per andare a lavorare”. Il finale moralistico è il punto più debole di un’opera coesa e concreta, che scorre con buon ritmo sospesa tra ironia e dramma, avvalendosi delle ottime recitazioni di tutto il cast. C’è anche un cameo finale di Joe Pesci, ovviamente nel ruolo di un boss mafioso. I nomi di Lorenzo e Calogero sono quelli dell’autore di soggetto e sceneggiatura, Chazz Palminteri, che in realtà si chiama Calogero Lorenzo Palminteri.

Voto:
voto: 3,5/5

mercoledì 28 giugno 2017

Full Monty - Squattrinati organizzati (The Full Monty, 1997) di Peter Cattaneo

A Sheffield, famoso centro siderurgico britannico, un caporeparto, Gaz, e cinque operai vengono licenziati dall’acciaieria in cui lavorano a causa della crisi. La ricerca affannosa di una nuova occupazione non porta a nessun risultato e Gaz rischia di perdere anche l’affidamento del figlio per problemi economici. Per far fronte alla difficile situazione l’uomo ha un’idea strampalata che si rivelerà un trionfo: allestire un numero di striptease maschile, con nudo integrale, insieme ai suoi cinque compagni di sventura. Dopo le titubanze iniziali lo show avrà un successo clamoroso e premierà il coraggio dei sei uomini. Da una trovata semplice e apparentemente banale, quasi ricalcando la trama del film, è venuto fuori il maggior successo commerciale della stagione cinematografica 1997-98 e uno dei più considerevoli dell’intero decennio, in rapporto al minimo budget speso (circa 3,5 milioni di dollari a fronte di oltre 500 milioni di guadagno in tutto il mondo). Scritto egregiamente da Simon Beaufoy, diretto con briosa energia da Peter Cattaneo e splendidamente recitato da un cast trascinante (in cui spicca il protagonista Robert Carlyle), è una commedia irresistibile, ironica e dissacrante che unisce la leggerezza del tocco alla profondità delle sue numerose implicazioni sociali, senza mai prendersi troppo sul serio. Si ride (e di gusto) anche affrontando temi scottanti come la disoccupazione, che quasi sempre implica perdita di autostima e disorientamento in merito alla propria identità socio-familiare. Ma si ride anche sulla non sempre facile accettazione del proprio corpo o su quanto possa essere avvilente sentirsi valutati unicamente in base all’aspetto fisico (e qui c’è una punta, sempre divertita, di evidente complicità con l’universo femminile). In perfetto equilibrio tra umorismo, goliardia, intelligenza, solidità espressiva, satira sociale e farsa di costume, questa pellicola fieramente british andrebbe seriamente studiata per cercare di carpirne la formula vincente, semplice e geniale. Pieno di rispettoso affetto e di accorata tenerezza verso i suoi personaggi, il film mette al bando ogni tentazione di moralismo demagogico e si prende persino la briga di mostrare (con caustica provocazione) anche la prospettiva femminile nei confronti dello striptease maschile: allegra, giocosa e spensierata, senza velleità morbose di immediato appagamento onanistico. La pellicola fu premiata con l’Oscar alla miglior colonna sonora assegnato ad Anne Dudley. Il titolo originale significa (letteralmente) "servizio completo", alludendo ovviamente al nudo integrale che l’orda femminile pretende dai sei improbabili spogliarellisti. E’ un film sorridente ed acuto che mette di buon umore e che lancia almeno due messaggi incoraggianti. Il primo: quando si crede di aver perso tutto non bisogna mai dimenticarsi del proprio corpo, un bene supremo che siamo portati a dare per scontato, dimenticandone il grande valore. E il secondo: ridersi addosso è un segno di grande forza e saggezza e, anche se magari non risolve, sicuramente aiuta, facendoti sentire meglio.

Voto:
voto: 4/5

Ritorno dal nulla (The Basketball Diaries, 1995) di Scott Kalvert

New York, anni ’60: Jim Carroll è un giovane cestista dilettante che vive in un sobborgo degradato di New York. Ribelle, scapestrato e poco seguito da una madre anaffettiva, il ragazzo prende presto cattive strade insieme al suo gruppo di amici. Quando uno di questi muore di leucemia, Jim si abbandona totalmente alla droga e alla microdelinquenza, diventando in breve totalmente dipendente dall’eroina. Per procurarsi i soldi necessari si prostituisce o compie piccoli furti, peggiorando ulteriormente la sua condizione. Cacciato di casa, finisce in riformatorio, sempre più solo ed emarginato, alla disperata ricerca di un appiglio di speranza per uscire dal tunnel. Dal romanzo autobiografico “Jim entra nel campo di basket” (1978), scritto dal poeta e musicista Jim Carroll, il regista Scott Kalvert ha saputo trarre un ritratto sporco e duro della difficile realtà giovanile dei ghetti periferici delle grandi metropoli americane, in cui la mancanza di prospettive, le difficili condizioni esistenziali, la scarsa cultura, i cattivi esempi e la miseria morale conducono, quasi inevitabilmente, a intraprendere strade pericolose, spesso senza possibilità di ritorno. L’adesione emotiva alla problematica sociale e alla tormentata vita del protagonista è totale, con un affresco doloroso, trasgressivo, sincero, a tratti scioccante, ma non privo di morbosa sensualità nella frequente esposizione dei corpi nudi di questi adolescenti “maledetti”. L’evidente finalità educativa dell’opera non ne attenua la potenza espressiva ed il coinvolgimento emotivo perchè evita accuratamente ogni sorta di moralismo e di giudizio su quello che mostra, limitandosi al racconto dei fatti dal punto di vista di Jim. Nel cast ottime interpretazioni di Leonardo DiCaprio e Juliette Lewis, affiancati da Lorraine Bracco, Bruno Kirby e Mark Wahlberg. Il ruolo di Jim Carroll doveva essere interpretato da River Phoenix, che però morì proprio a causa di una overdose di eroina e cocaina, venendo così sostituito da DiCaprio. Il film passò inosservato in Italia alla sua uscita, ma dopo il grande successo dell’attore protagonista ritornò in auge a qualche anno di distanza. E’ una delle pellicole sull’argomento droga che andrebbe assolutamente mostrata ai giovani come deterrente (o come speranza di “redenzione”).

Voto:
voto: 3,5/5