martedì 30 marzo 2021

Dogman (2018) di Matteo Garrone

Il mite Marcello è un omino dall'animo sensibile amante dei cani, che accudisce premurosamente nel suo piccolo negozio di toelettatura, e di sua figlia Alida, con cui deve accontentarsi di un rapporto part-time a causa della separazione dalla moglie. Circondato dal degrado del ghetto periferico in cui vive, è costretto a tollerare e scendere a compromessi con persone violente e attività criminose, in nome del quieto vivere a cui aspira. Tra questi c'è Simone, il bullo locale, fisico da pugile e modi brutali, che lo costringe a sopportare continue vessazioni appellandosi ad un'antica "amicizia" in cui lui è il carnefice e Marcello la vittima. Ma una serie di tragici eventi faranno cambiare le cose. Capolavoro di Garrone e miglior film italiano dell'anno 2018, incredibilmente snobbato agli Oscar ma premiato al Festival di Cannes con il Prix d'interprétation masculine per uno straordinario e commovente Marcello Fonte, e omaggiato in sala da 10 minuti di applausi spontanei a fine proiezione. Liberamente ispirato ad uno dei più agghiaccianti eventi della cronaca nera italiana (il "delitto del Canaro della Magliana", avvenuto negli anni '80 e salito alla ribalta nazionale per le sue efferate modalità), ne prende immediatamente le distanze, eliminando ogni sospetto di spettacolarizzazione morbosa e rinunciando ad ogni pretesa di cruda biografia neorealista, ma diventando qualcos'altro. Una magistrale lezione di cinema sobrio e metafisico, un apologo crepuscolare (e universale) sulla natura umana, intriso di realismo magico, violenza simbolica, toccante poesia, senso profondo. Si va oltre la critica sociale, l'analisi antropologica o la descrizione di un microcosmo criminale di ordinario squallore, realizzando un magnifico racconto per immagini che eleva una storia, semplice e tragica, ambientata in un non-luogo grigio, sporco e piovoso, verso una dimensione mitica (Davide contro Golia), facendone una metafora di riscatto, oltre che una superba riflessione su temi quali la dignità umana e la spaventosa complessità del nostro animo, in cui concetti assoluti come bene e male sono assolutamente fluidi, relativi, intercambiabili, inestricabili. Una "favola" nera ed etologica (in accordo alla poetica dell'autore) che vira costantemente verso elementi fantastici, allegorie archetipe, elementi onirici, gesti rituali. Basti pensare al meraviglioso finale ambiguamente "sospeso" che ci trasmette tutta la potenza e l'angoscia del film e rimane indelebilmente impresso nella memoria. E, ancora una volta, Garrone torna a girare in una dei "suoi" luoghi (il Villaggio Coppola di Castel Volturno), tratteggiandolo come un "inferno" spettrale e desolato, di sinistra fascinazione, simbolo pregnante dei mali e delle contraddizioni sociali di un paese. O, probabilmente, di tutti i paesi. Tra Dogville, Antonioni e Dostoevskij, Garrone ci mette davanti allo specchio (oscuro) della miseria umana, ma anche della sua forza ancestrale che ambisce al decoro, al riscatto, al riconoscimento. Elementi contrastanti che convivono in un rapporto simbiotico, proprio come quello tra Marcello e Simone. La forza del cinema dell'autore è, come sempre, tutta impressa nelle immagini, nelle ambientazioni, nelle atmosfere, nei volti. E quello scavato e sofferente di Marcello Fonte ne costituisce una nuova e definitiva icona da consegnare alla storia.
 
Voto:
voto: 4,5/5

L'uomo del labirinto (2019) di Donato Carrisi

Una giovane donna, Samantha Andretti, si risveglia in stato confusionale in un letto d'ospedale. I suoi ricordi sono confusi a causa di una droga che è stata costretta ad assumere durante la sua lunga prigionia durata 15 anni. Samantha fu rapita, ancora adolescente, da uno psicopatico mascherato da coniglio e adesso riesce a ricordare di una sinistra prigione, che lei chiama "labirinto", e di un aguzzino che l'ha sottoposta a terribili torture psicofisiche nel corso degli anni. Il Dottor Green è l'uomo che deve aiutarla a recuperare la memoria per cercare di risalire all'identità del suo persecutore. Intanto l'investigatore Bruno Genko, uomo tormentato, disincantato e prossimo alla morte per una grave malattia, riprende le sue indagini sul caso Andretti. Un caso che, molti anni prima, lo aveva a lungo ossessionato ma non era mai riuscito a risolvere. Ha così inizio un'angosciante "caccia al tesoro", sempre più misteriosa, dentro e fuori la mente di Samantha. Secondo film da regista di Donato Carrisi (dopo "La ragazza nella nebbia"), ancora una volta tratto dal suo omonimo romanzo (e bestseller). E, nuovamente, ci troviamo di fronte ad un thriller psicologico con inquietanti atmosfere da mistery che ruota intorno ad una serie di personaggi ambigui e dall'animo travagliato, la cui progressiva messa a fuoco, tra flashback e colpi di scena, porterà alla risoluzione finale, con immancabile sorpresa annessa. Ma stavolta il risultato è un film più sfilacciato e confuso, penalizzato dalla ricerca programmatica di un effettismo narrativo, volto a stupire lo spettatore, che risulta claudicante e non all'altezza delle evidenti ambizioni dell'intero progetto. Anche l'impostazione del racconto su due linee parallele (l'indagine poliziesca di Bruno Genko/Toni Servillo e quella psicologica di Green/Dustin Hoffman) appare, alla lunga, stancante e poco equilibrata. Sicuramente migliore (anche dal punto di vista visivo) la parte con Servillo rispetto a quella di un  Dustin Hoffman incerto e fuori contesto. Molto brava invece Valentina Bellè che è la nota più lieta di quest'opera seconda di Donato Carrisi. Un "gigante" dai piedi d'argilla infarcito di citazioni pop.
 
Voto:
voto: 2,5/5

lunedì 29 marzo 2021

Mank (2020) di David Fincher

Nel 1940 il famoso sceneggiatore Herman J.Mankiewicz, detto "Mank", alle prese con seri problemi di alcolismo e un infortunio che lo costringe momentaneamente a letto, si isola in un ranch nel deserto californiano per scrivere la sceneggiatura del film che cambierà la storia del cinema per sempre: "Quarto Potere". Il complesso processo creativo di scrittura si mescola con i ricordi del passato di "Mank", da cui emergono le amicizie, i rapporti e gli scontri con importanti personalità della politica, della finanza e delle major di Hollywood. Da tutto questo bagaglio di esperienze vissute il nostro prenderà ispirazione per la scrittura del capolavoro di Orson Welles, giovane regista lanciato verso una carriera folgorante. Biopic atipico di David Fincher, liberamente ispirato al controverso articolo giornalistico "Raising Kane", scritto da Pauline Kael nel 1971, che attribuisce i meriti della scrittura di "Citizen Kane" interamente a Mankiewicz, senza alcuna condivisione con Welles (i due furono entrambi premiati con l'Oscar per la migliore sceneggiatura originale nel 1942). Il risultato finale è un film assolutamente magistrale: molto personale, molto elegante, molto colto, molto ardito. Si può non essere d'accordo su certe interpretazioni dei fatti storici ma di sicuro il regista dimostra (ancora una volta) di avere personalità e "spalle larghe", oltre che un grandissimo e incontestabile talento. Splendide interpretazioni, ricostruzione storica e d'atmosfera sontuosa, regia apparentemente sobria ma che dispensa tocchi di pregevole fattura, confezione estetica sfavillante per un immenso omaggio "romantico" al cinema dei pionieri. Un tributo nostalgico che viene poi volutamente "contaminato" da scelte iconoclaste e da una sottile ironia di matrice caustica rivolta contro quei "poteri forti" che manipolano il destino di molti. E in questo continuo scontro tra anime diverse (l'amore per un'epoca e la sua cinica rilettura critica) risiede molto della bellezza e dell'importanza di questo film, di cui sono evidenti il grande lavoro di scrittura e progettazione concettuale a monte. E infine, lasciando il meglio per ultimo, il continuo gioco di specchi meta-cinematografici che pervade l'intero progetto, creando suggestive sovrapposizioni tra storia e leggenda, cronaca e romanzo, film e film-nel-film, il racconto che vediamo sullo schermo e l'oggetto dello stesso. Come se questo Mank fosse un viaggio introspettivo in osmosi con Quarto Potere (e con la sua leggenda). La buona conoscenza del film di Welles e, più in generale, del suo "mondo" aiuterà sicuramente sia la comprensione sia l'apprezzamento di quest'ultimo lavoro di Fincher, probabilmente poco adatto al pubblico di massa, sia per la materia, sia per la collocazione storica, sia per la scelta della fotografia in bianco e nero. Cast di gran livello (che annovera, tra gli altri, Gary Oldman, Amanda Seyfried, Lily Collins, Tom Pelphrey e Tom Burke) e ben 10 nomination agli Oscar 2021.
 
Voto:
voto: 4,5/5

Under the Silver Lake (2018) di David Robert Mitchell

Il giovane Sam è uno sfaccendato di Los Angeles che, nonostante l'incombente rischio di sfratto, si trastulla tra incontri di sesso occasionale e la decifrazione di codici misteriosi occultati nelle canzoni, nei fumetti, nei video giochi, nei programmi televisivi o negli spot pubblicitari. L'incontro con la bella biondina Sarah, dallo sguardo languido e apparentemente carico di "promesse", lo scuote dal suo tedioso torpore esistenziale e, quando lei sparisce senza lasciare traccia, si metterà, disperato, alla sua ricerca in una "città degli angeli" carica di enigmi inquietanti. Uno strambo autore di fumetti, che vede complotti segreti dietro ogni angolo, lo aiuterà nelle ricerche, a mano a mano che il mistero diventa sempre più fitto. Stravagante thriller del promettente regista David Robert Mitchell, una produzione indipendente e di nicchia che esplora, con stile patinato e sguardo irriverente, il mondo delle leggende metropolitane attraverso la vivisezione fantasiosa delle più disparate forme della cultura pop. Dando fondo al suo talento visivo l'autore realizza un affascinante pastiche di generi, tra il mistery esoterico, l'horror fantastico e la dark comedy, abbondando in situazioni grottesche, personaggi bizzarri, rebus arcani e domande senza risposta, senza prendersi mai troppo sul serio. Parossistico e citazionista fino all'esasperazione, è un film onnivoro e follemente vagabondo (come il suo protagonista) attraverso una giungla urbana di codici, segni, tentazioni, incubi e riferimenti eterogenei, impunemente accostati tra loro come in un trip allucinato, inseguendo le passioni giovanili e le influenze, ora "sacre" ora "profane", del suo autore. Scorre agilmente e regala diversi momenti di ottima suspense, nonostante la lunga durata, ma dà anche la sensazione di un effettismo troppo cervellotico nella costante ricerca di creazione dell'incubo "perfetto", da sovrapporre a quelli dei tanti modelli ispiratori da cui attinge a man bassa. E il ricercarli tutti nel labirinto di immagini del film potrebbe essere uno stimolante "gioco" per i cinefili più "competitivi". Presentato in Concorso al 71° festival di Cannes, ha lasciato interdetti pubblico e critica, passando totalmente in sordina sia in America che nel nostro paese, dove ha avuto una distribuzione praticamente inesistente. Ma ha tutti gli elementi per diventare un piccolo cult del cinema underground, specialmente per il pubblico più giovanile (o più nerd). Andrew Garfield è molto convincente nei panni del protagonista e la sexy Riley Keough brilla di luce propria ogni volta che appare in scena.
 
Voto:
voto: 3,5/5

domenica 28 marzo 2021

Sto pensando di finirla qui (I'm Thinking of Ending Things, 2020) di Charlie Kaufman

Una giovane ragazza viaggia insieme al suo compagno Jake per andare a conoscere i genitori di lui. Durante il tragitto in auto, avvolti da una tormenta di neve, lei continua a rimuginare sul desiderio di "farla finita", interrompendo la relazione sentimentale iniziata da poco. Una volta giunti alla fattoria dove vive la famiglia di Jake, i cui membri si dimostrano tanto ospitali quanto "strani", inizieranno ad accadere una serie di misteriosi fenomeni, via via più inquietanti e incomprensibili. Ma che cosa sta succedendo realmente? Il terzo film del talentuoso Charlie Kaufman regista (che già aveva messo in mostra la sua arte visionaria come sceneggiatore di diverse opere di "culto") è un dramma psicologico che ondeggia tra il thriller onirico, la commedia grottesca e il mélo esistenziale. E' oggettivamente complesso trovare una chiara catalogazione a questa pellicola o parlarne nel dettaglio senza correre il rischio di svelare particolari della "trama" che potrebbero poi rovinare la visione allo spettatore. Alla fine dei conti trattasi, ovviamente, di puro Kaufman: una sorta di compendio del suo cinema, dei suoi tormenti e delle sue depressioni. Anche in questo caso si possono utilizzare tutti gli aggettivi che puntualmente accompagnano Charlie Kaufman: intrigante, masturbatorio, colto, irritante, geniale, elitario, cervellotico, raffinato, angosciante, irridente, seducente. Niente di particolarmente nuovo, nè di originale, ma anche un lavoro più maturo, equilibrato e coeso sui temi che da sempre ossessionano l'autore: la psiche umana, i rapporti interpersonali, il male di vivere, il concetto di identità ed il senso di inadeguatezza. Il tutto magicamente sospeso in un caleidoscopio di immagini affascinanti e stranianti, tra psicanalisi e poesia. Una metafora onirica dei tortuosi percorsi dell'esistenza, dei bivi del destino, delle scelte sbagliate e delle occasioni perdute. Interpretazioni superlative (Jesse Plemons e Jessie Buckley sono magistrali, ma anche Toni Collette regge il passo), momenti  surreali impagabili e una miriade di citazioni stravaganti che faranno la felicità dei cinefili (ad esempio la "recensione" di Una moglie di Cassavetes è pura libidine da cinéphile). Qua e là è un po' troppo tirato per le lunghe e il finale finisce per debordare oltre misura, ma alla fine tutto si ricompone e rimane in asse con il senso intimo del film. E' un prodotto "arthouse" finemente cesellato che potrebbe risultare particolarmente ostico per il pubblico mainstream, ma è anche il miglior risultato finora ottenuto dal Kaufman regista. Un progetto d'essai che ha visto la luce solo grazie all'impegno e al coraggio di Netflix. Per amanti dei labirinti psicologici e delle pellicole weird.
 
Voto:
voto: 4/5

sabato 27 marzo 2021

The Irishman (2019) di Martin Scorsese

L'incontro casuale tra l'autista Frank Sheeran e il boss mafioso Russell Bufalino cambia per sempre la vita del primo, che accetta di entrare nei ranghi del crimine come fedele "soldato" che si occupa dei lavori "sporchi". Bufalino è entusiasta della lealtà di Sheeran e lo introduce in un giro più grosso, presentandolo al famoso (e controverso) leader sindacale Jimmy Hoffa. Ammaliato dal carisma di Hoffa, istrionico affabulatore e uomo di grande stile, Sheeran ne diventerà in breve consigliere, amico e guardia del corpo. Epopea criminale intimistica e malinconica, larga nei tempi, densa nei contenuti e asciutta nei toni. Magnifico compendio auto-celebrativo di una carriera (quella, straordinaria, di Martin Scorsese), di un discorso storico e sociale (quello sul crimine) e di un'analisi antropologica (la violenza come forma espressiva inevitabile dell'agire umano). E' un film maturo e riflessivo girato con tecniche moderne ma con l'antico cuore di una volta, con lo spirito illuminato e libero di quei grandi Maestri della "New Hollywood" che magnificarono la settima arte negli anni '70 con racconti magniloquenti e coraggiosi, portando in scena gli orrori umani sotto forma di epica grandiosa, facendo nascere moderne mitologie impregnate di critica sociale e impegno civile. Le atmosfere sono diverse rispetto ai film del passato, la ferocia cede il passo ad una disincantata saggezza perchè adesso Scorsese, più che mostrare, ha la necessità di riflettere, di comprendere (pur senza mai giustificare), di tracciare insieme un bilancio ed un commiato verso quei gangster che hanno segnato una buona parte della sua filmografia. E', quindi, anche un film mortifero di fantasmi e sepolcri imbiancati, un'elegia amaramente tragica sulla vecchiaia e sulla colpa, sorretta, tra le righe, da un lucido filo morale giammai invadente o paternalistico. Ma, piuttosto, rasserenato e perentorio. Purtroppo è uno di quei grandi film di una volta che ormai non si fanno più, e che senza Netflix, probabilmente, non avrebbe mai visto la luce, perchè poco affine alle imperanti logiche attuali del profitto massimizzato. Già solo per questo andrebbe visto da tutti, e, ovviamente, in sala. Ispirato al racconto "L'irlandese. Ho ucciso Jimmy Hoffa" di Charles Brandt, sulla vita del vero Frank Sheeran, il film ha avuto dieci nomination agli Oscar ma non ha portato a casa nessun premio. Cast stellare con Robert De Niro, Al Pacino, Joe Pesci, Harvey Keitel, Ray Romano e Anna Paquin. Per De Niro è stata la nona collaborazione con Scorsese regista, invece per Pacino è stata la prima. Notevoli gli effetti speciali in CGI che hanno permesso il ringiovanimento facciale degli attori nei numerosi flashback che si snodano in un arco temporale di circa 40 anni. Al di là di nostalgie e sentimentalismi verso il cinema del passato, questo è un capolavoro tutto nuovo che consolida e riafferma l'immagine dell'ultimo Scorsese come un regista, tra i più grandi di tutti i tempi, che ha ancora moltissimo da dire. Per fortuna.
 
Voto:
voto: 4,5/5

venerdì 26 marzo 2021

C'era una volta... a Hollywood (Once Upon a Time... in Hollywood, 2019) di Quentin Tarantino

A Los Angeles, nell'anno 1969, Rick Dalton, attore divenuto famoso grazie a film televisivi d'azione, attraversa una fase delicata della sua carriera, in costante declino, e, per poter continuare a lavorare, deve scegliere se accettare il trasferimento in Italia per recitare negli "spaghetti western". A sostenerlo c'è il suo fedele amico di sempre, Cliff Booth, che gli fa da controfigura, da factotum e guardaspalle. Intanto il giovane regista Roman Polanski e la sua bellissima moglie Sharon Tate, star emergenti e lanciatissime della "Nuova Hollywood", si trasferiscono nella villa accanto a quella di Dalton. Le loro vicende si intersecano e si sfiorano, fino alla fatidica notte del 9 agosto, la più calda dell'estate 1969. Il nono film di Quentin Tarantino è una favola nostalgica sul cinema della sua infanzia e sul mestiere di fare il cinema. La scelta dei due personaggi protagonisti è emblematica, oltre che esplicativa, in tal senso. E' anche un malinconico racconto strutturato a bozzetti, un'ucronia sulla fine di un'epoca, che celebra i ricordi del regista sugli anni '60 ed i suoi miti giovanili. E lui inevitabilmente non può che scegliere un anno fatidico: il 1969, che segnò un passaggio epocale, storico, cinematografico, culturale, sociale e di costume. Secondo lo stile dell'autore (nonostante alcuni personaggi e situazioni siano reali) quasi nulla è realistico. Tarantino (un po' come faceva anche Fellini in modo diverso) non è per niente interessato alla storia, alla cronaca o all'attendibilità dei fatti. Tarantino è interessato al Cinema. E quindi tutto ruota intorno a questo, tutto viene filtrato attraverso l'occhio della macchina da presa, in questo caso interiore, uno sguardo artistico, personale, fatto di emozioni, citazioni, iperboli e sogni che il regista usa per raccontare una storia. La sua storia. E il potere immaginifico del cinema la sublima, la cambia, la trasla ora nel fumetto, ora nell'astrazione manierista, ora nell'enfatizzazione di vecchi miti su celluloide. Ma il territorio è sempre quello della "fiaba" pop, intessuta dei ricordi personali del regista, e filtrati attraverso la lente del cinema. In questo mondo parallelo tutto diventa possibile, le regole possono stravolgersi e l'arte può attuare la sua personale "vendetta" sulla storia. E' un Tarantino diverso ma non un Tarantino minore: più maturo, più rilassato, più pacificato, più tendente alla riflessione malinconica, all'elegia nostalgica che alla sua tipica energia briosa in bilico tra grottesco e pulp. Chi si aspettava un thriller violento sull'eccidio di Cielo Drive o un film alla Pulp Fiction non può che rimanere deluso, ovviamente. E' anche un film di fantasmi, di commiati e di metafore. Carico di citazioni, di riferimenti, di sogni, di miti e di ricercati simbolismi. E' evidente che la villa dei Polanski ed il suo fatidico cancello rappresentino la linea di demarcazione (e di passaggio) tra la nuova e la vecchia Hollywood, a cui ovviamente appartengono Dalton e il suo sodale. Come d'abitudine per il regista ci troviamo di fronte ad un prodotto tecnicamente impeccabile di sontuosa confezione estetica, ben scritto, ben recitato, e con le solite accattivante scelte musicali, un ulteriore omaggio agli indimenticabili anni '60. Nel cast stellare, che annovera nomi come Brad Pitt, Margot Robbie, Emile Hirsch, Timothy Olyphant, Dakota Fanning, Bruce Dern, Kurt Russell e Al Pacino, il più bravo è il protagonista Leonardo DiCaprio. Premiato con due Oscar: miglior attore non protagonista a Brad Pitt e migliore scenografia. La Sharon Tate di Margot Robbie è una sorta di fata leggiadra, una musa che risplende e quasi "galleggia", lievemente, oltre la storia. Due scene memorabili: la sequenza di Brad Pitt allo Spahn Ranch, sospesa tra thriller e western, e quella tra DiCaprio e la bambina del film nel film.
 
Voto:
voto: 4/5

mercoledì 24 marzo 2021

Via dei pompieri n. 25 (Tüzoltó utca 25., 1973) di István Szabó

In un'afosa notte d'estate, gli abitanti di un antico e fatiscente palazzo di Budapest, prossimo alla demolizione, non riescono a prender sonno e si abbandonano a ricordi, sogni, speranze, amarezze e delusioni, riflettendo sul loro passato e sul futuro incerto che li attende. Fino all'arrivo dell'alba. Questo piccolo grande gioiello della filmografia di István Szabó è un superbo racconto collettivo (e solo apparentemente intimistico) che prende le mosse dai ricordi della sua infanzia nei caseggiati periferici della capitale ungherese. E', purtroppo, anche una delle opere meno conosciute del regista, che meriterebbe il recupero da parte dei cinefili. Attraverso la descrizione di memorie, ansie e paure di un microcosmo eterogeneo di umanità, Szabó intende tracciare un affresco sociale e politico del suo paese, ricalcandone la storia post bellica alla vigilia di importanti cambiamenti epocali. Il piccolo mondo sopra citato è, ovviamente, quello degli inquilini di un vecchio stabile, situato all'indirizzo del titolo, destinato ad una fine imminente per fare spazio al nuovo che avanza, incessante e inesorabile. E' un film ambizioso e riuscito, in bilico tra la memoria nostalgica del passato e il timore razionale di un futuro denso di nubi. Raccontato come un malinconico canto corale attraverso la condivisione di un flusso di coscienza che unisce, per sorte e sentimenti, i variegati protagonisti, riesce a coinvolgere e far riflettere lo spettatore, proiettando le emozioni dei singoli sullo sfondo di un disegno storico più ampio e sublimando il diverso sentire individuale nella coscienza collettiva di una nazione. Lo sguardo dell'autore è partecipe ma lieve, felpato, come a voler accarezzare con dolente dolcezza i suoi personaggi e, quindi, il suo stesso paese.
 
Voto:
voto: 4/5

Pinocchio (2019) di Matteo Garrone

Ennesimo adattamento cinematografico del celebre romanzo per ragazzi scritto da Collodi nel 1883, "Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino". Una storia semplice e potente che ha commosso molteplici generazioni e ispirato tanti cineasti, anche d'oltre oceano, ma anche di non banale trasposizione, infatti non sono stati pochi i registi che ci si sono "rotti le ossa" (persino il grande Steven Spielberg con il farlocco "A.I. - Intelligenza artificiale"). Era quasi inevitabile che, prima o poi, vi si sarebbe confrontato anche quello che, attualmente, può essere considerato il miglior regista italiano in attività: Matteo Garrone. La storia è arcinota: il povero falegname Geppetto costruisce un burattino partendo da un pezzo di legno "magico", la marionetta prende vita e l'uomo gli si affeziona come a un figlio, a cui dà il nome di Pinocchio. Ma il burattino, che sogna di diventare un bambino vero in carne e ossa, non è esattamente obbediente e studioso come Geppetto sperava e la sua istintiva curiosità, unita ad un carattere discolo e credulone, faranno finire entrambi in un mare di guai. Il Pinocchio di Garrone è un film girato ad altezza di bambino, molto fedele al racconto ispiratore (in particolare alla prima versione a episodi del 1881), con un'anima volutamente "popolare", ma anche pregno del grande talento visivo dell'autore e, intimamente, del cuore pulsante della sua poetica: la capacità di trovare il fantastico nel reale e il reale nel fantastico. Sotto questo punto di vista questa apparente digressione del regista romano verso il cinema pop risulta non solo coerente con il suo naturale percorso artistico ma, addirittura, inevitabile, visto che Pinocchio è la fiaba italiana per eccellenza, ricca di metafore e commistioni con la realtà quotidiana. L'intero apparato estetico figurativo è di prim'ordine, dai costumi alle ambientazioni, dalla vivida rappresentazione di un mondo contadino umile (intriso di realismo "magico") agli effetti speciali artigianali sobriamente efficaci, fedeli alla concezione di fantasy dell'autore, che è molto distante da quella hollywoodiana di Tim Burton o Guillermo del Toro. Il bilanciamento tra la dimensione favolistica e quella realistica è perfettamente equanime, così come sono ben riusciti gli scarti grotteschi, vedi la rappresentazione della "fame" come elemento atavico e dominante di questo universo fiabesco che occhieggia al realistico. Solido anche il cast, in cui, tra Federico Ielapi, Rocco Papaleo, Massimo Ceccherini, Marine Vacth e Gigi Proietti, spicca un Roberto Benigni intenso e misurato nel ruolo di Geppetto. Due nomination agli imminenti Oscar 2021: costumi e trucco. Chi si è lamentato per una certa "freddezza" dell'opera e per lo sguardo "distaccato" del regista, evidentemente influenzati dal confronto inconscio con il celebre (e splendido) sceneggiato televisivo di Luigi Comencini del 1972, dimostra di conoscere poco il cinema di Garrone.
 
Voto:
voto: 4/5