martedì 21 dicembre 2021

È stata la mano di Dio (2021) di Paolo Sorrentino

Napoli, estate del 1984. Fabio Schisa, detto "Fabietto", è un adolescente introverso di famiglia borghese che vive al Vomero, il quartiere "bene" del capoluogo campano, con un padre distinto funzionario di banca, una madre vitale e giocosa, un fratello maggiore, una sorella perennemente chiusa in bagno ed una zia, Patrizia, procace e disinibita, con sospetti problemi mentali, che incarna tutti i suoi sogni erotici di ragazzo in crescita, spaventato dalla vita e dalle donne ma confortato da un ambiente familiare serenamente protettivo. Anche se non mancano problemi e dissidi, i genitori di "Fabietto" si amano teneramente, mentre la città è pervasa dall'euforia collettiva per il clamoroso acquisto di Diego Armando Maradona da parte del Napoli calcio, scatenando un entusiasmo popolare che oscilla tra la voglia di riscatto sociale e l'idolatria pagana. L'avvento del fuoriclasse argentino e una improvvisa tragedia familiare cambieranno per sempre la vita del ragazzo, indirizzandolo, dolorosamente ma ineluttabilmente, verso una carriera artistica. Il nono lungometraggio di Paolo Sorrentino, da lui scritto e diretto, è un dramma autobiografico intimo ed intenso in cui l'autore ritorna, fisicamente e spiritualmente, nella sua Napoli 20 anni dopo L'uomo in più, per tracciare, simultaneamente, un racconto di formazione, un diario sentimentale, un affresco emotivo ed un bilancio esistenziale che scava nei suoi ricordi dolci amari di adolescente per mettere in immagini la sintesi di un dolore universale, la magia di un periodo mitizzato e la nascita di un artista. Oscillando come da sua abitudine tra sacro e profano, poetico e grottesco, sublime e trash, Sorrentino si muove agilmente tra sequenze straordinarie (come il prologo visionario o la visita nella casa della baronessa) e inserti ampollosi, tra spontanea ispirazione e forzature folcloristiche, consegnandoci il suo film più sentito, più semplice e più appassionato, idealmente diviso in due parti distinte: la prima è una commedia nostalgica non priva di spunti comici e la seconda è una tragedia personale asciugata nei toni ma intrisa di rimpianto. Omaggiando ripetutamente i grandi Maestri del cinema italiano (Fellini, Rossellini, Leone), i suoi numi tutelari (Maradona) ed il suo primo mentore artistico (Antonio Capuano), l'autore racconta, ricorda, inventa, sogna e realizza il suo personale Amarcord attraverso l'alter ego "Fabietto", celebrando la possente magia evocativa della sua città natale (a cui alla fine finisci sempre per tornare) ed il potere salvifico dell'arte come unico vero antidoto contro il male di vivere. Nel cast, che al solito fedelissimo Toni Servillo vede affiancati Filippo Scotti, Teresa Saponangelo, Luisa Ranieri, Renato Carpentieri, Enzo De Caro e Lino Musella, spiccano le due interpreti femminili capaci di incarnare con autentica pregnanza due aspetti diversi della napoletanità. Il film ha vinto due premi al Festival di Venezia, dove è stato presentato in anteprima: il Leone d'argento (Gran premio della giuria) ed il premio Marcello Mastroianni per il giovane attore esordiente Filippo Scotti. Con la speranza di trionfare nuovamente agli Oscar, È stata la mano di Dio ha ottenuto unanimi consensi di pubblico e critica, a conferma di una maggiore semplicità nello stile narrativo.
 
Voto:
voto: 3,5/5

mercoledì 1 dicembre 2021

The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Il "duello di Dio" o duello giudiziario era un'usanza medioevale tipica dei popoli germanici per risolvere controversie tra due contendenti nei casi in cui la corte destinata a decidere non riusciva a raggiungere il convincimento necessario per condannare l'una o l'altra parte in causa. Era l'atto conclusivo della disputa e consisteva in una sfida all'arma bianca e all'ultimo sangue tra accusato e accusatore che si teneva in pubblica piazza, preceduta e seguita da minuziosi rituali e con epiloghi spesso di macabra efferatezza. La convinzione generale, da cui nasceva il nome dell'ordalia, era che fosse Dio stesso a giudicare e decidere, facendo vincere colui che era nel giusto e facendo soccombere l'altro. Questo oscuro dramma storico biografico di Ridley Scott (scritto da Ben Affleck, Matt Damon e Nicole Holofcener) è dedicato alla vera storia dell'ultimo "duello di Dio" che si tenne in Francia nell'anno 1386, ispirandosi liberamente al romanzo "L'ultimo duello. La storia vera di un crimine, uno scandalo e una prova per combattimento nella Francia medievale" di Eric Jager. Si narra della tenzone tra Jean de Carrouges e Jacques Le Gris, personaggi realmente esistiti, due scudieri, compagni d'armi e amici di lunga data, divenuti poi acerrimi rivali dopo che il secondo fu accusato di avere stuprato la bella moglie del primo, Marguerite de Thibouville, su esplicita e coraggiosa denuncia da parte della donna che si affidò direttamente al giudizio del Re Carlo VI. E' una storia torbida e brutale, raccontata attraverso una eccellente ricostruzione ambientale, con una fotografia grigia ed atmosfere tetre, che ben si accordano al senso morale della vicenda, riuscendo a rendere perfettamente in immagini un'epoca di oscurantismo e di violenze, in cui le donne erano ridotte a meri orpelli ornamentali, brutalmente sottomesse dal dominio dei maschi e generalmente considerate "oggetto" di piacere e "strumento" per sfornare eredi della casata. Non è ovviamente un caso che la scelta sia caduta su un soggetto di questo tipo, stabilendo inevitabili connessioni con la realtà contemporanea in cui ancora si discute di discriminazioni sessuali, piena emancipazione femminile e violenza contro le donne. Il film coglie in pieno l'essenza ideologica del Medioevo in merito a tali questioni, ce la presenta in tutto il suo orrore e propone, tra le righe, uno sguardo al presente per indurre riflessioni nello spettatore. E' vero che oggi a Hollywood e dintorni è molto di moda cavalcare l'onda lunga del #me_too per suscitare un facile consenso, spesso con atteggiamenti ipocriti di edificante buonismo di facciata, ma Ridley Scott ha il merito di evitare (almeno in parte) le trappole del moralismo attraverso una struttura narrativa alla Rashomon, ispirandosi all'idea di base del capolavoro di Akira Kurosawa del 1950 e dividendo la pellicola in tre segmenti che raccontano la "stessa storia" da prospettive diverse: quella di Carrouges, quella di Le Gris e infine quella di Marguerite de Thibouville. Le tre versioni differiscono in alcuni punti cruciali e determinanti, ponendo l'intera questione sotto un fertile velo di ambiguità e lasciando allo spettatore il compito di decidere quale sia la verità in cui vuol credere. E' questa la chiave vincente di un film che non si discosta molto dalle ultime frequenti incursioni del regista britannico nella Storia antica, ma che trova in questa felice intuizione una marcia in più che lo rende superiore alla media e concettualmente "super partes". E' un'opera di profonda cupezza, che ricerca una truce spettacolarità non molto originale solo nell'epilogo (in cui, inevitabilmente, verranno in mente altri lavori famosi di Scott senior), nella quale non esistono eroi ma soltanto vittime o carnefici e la classica mitizzazione romantica del cavaliere senza macchia viene demolita dai due protagonisti maschili, tra cui è arduo stabilire chi sia il peggiore. L'atavico tema del duello, fondamentale e ricorrente a diversi livelli in quasi tutta la filmografia dell'autore a partire dal cult I duellanti (The Duellists, 1977), si spoglia stavolta di ogni retorica "nobile" per assumere la valenza di una tragica casualità: la vittoria del caos in un mondo spietato e primitivo che da esso è dominato. Ottimo il cast in cui svettano i quattro protagonisti principali: Matt Damon, Adam Driver, Jodie Comer e Ben Affleck. In particolare Driver, impressionante per presenza scenica e oscuro carisma, dimostra ancora una volta di essere ampiamente a suo agio nei panni di "cavaliere nero". Nonostante i riscontri generalmente positivi da parte della critica, il film si è rivelato un flop al botteghino, dimostrando come il pubblico generalista sia ormai poco interessato ai racconti storici in costume e meno che mai a quelli che non possiedono un tronfio sensazionalismo retorico di facile presa e di immediato consenso populistico. E ogni riferimento a Il gladiatore (Gladiator, 2000) non è puramente casuale.

Voto:
voto: 3,5/5

martedì 30 novembre 2021

Benedetta (2021) di Paul Verhoeven

Il 17-esimo lungometraggio del truce regista olandese Paul Verhoeven, da molti atteso come scandalo annunciato del 74° Festival di Cannes, è un dramma biografico ispirato alla vita della suora italiana Benedetta Carlini, vissuta in convento a Pescia (Toscana) nel '600 e ampiamente controversa. Per alcuni era una mistica veggente ispirata da visioni del Cristo, da cui ricevette anche le stimmate, per altri era un'abile manipolatrice dotata di buona favella e naturale carisma, grazie ai quali riuscì ad ingannare tutti sfruttando l'ignoranza e le superstizioni ampiamente diffuse in quei tempi di oscurantismo e di fanatismo. Quello che viene dato per certo è il rapporto carnale omosessuale da lei intrattenuto con una giovane novizia che suscitò grande clamore. Ispirandosi liberamente al saggio storico "Atti impuri - Vita di una monaca lesbica nell'Italia del Rinascimento" di Judith C. Brown, Verhoeven si è tuffato con entusiasmo in questa storia ambigua, fosca e sordida, evidentemente attratto dal suo lato morboso, dal suo potenziale scandaloso e dai suoi numerosi risvolti politici e religiosi. Benedetta entra a 9 anni in convento per un voto fatto dai genitori alla Vergine Maria, che l'ha "miracolosamente" salvata alla sua nascita. Fin da subito dimostra capacità intellettive superiori alla media, una bellezza fisica fuori dal comune, un'ars oratoria eccellente e presunti poteri mistici che fanno gridare alla "santità". La comparsa delle stimmate, le visioni di Gesù e le doti di preveggenza la rendono amata dal popolo, oggetto di interesse delle alte sfere ecclesiastiche e la mettono in competizione con la rigida madre superiora del convento. Con l'aumentare dei "miracoli", Benedetta  brucia le tappe e viene promossa badessa, rimpiazzando la vecchia rivale alla guida del cenobio. L'incontro con la giovane Bartolomea, da lei ammessa nella comunità per salvarla dalle grinfie di un padre orco che abusava di lei, le fa scoprire i piaceri della carne, dando inizio ad una passionale relazione sessuale. Scoperta e denunciata dalle sue avversarie, la donna è costretta a difendersi, mentre la città è sconvolta dall'ombra della peste nera e dalla venuta di un viscido nunzio apostolico, potente e corrotto, chiamato a processare Benedetta per i suoi peccati utilizzando i metodi sadici della Controriforma. Nel 1970 il "diabolico" Ken Russell aveva già detto tutto sull'argomento, in maniera scioccante e definitiva, con il suo capolavoro "maledetto" I diavoli (The Devils), uno dei film più censurati della storia del cinema per i suoi temi scottanti e per i suoi modi "blasfemi". Era dunque necessario, oggi come oggi, un film del genere? La risposta è ovviamente no. Specialmente se poi il risultato si traduce in un grossolano accumulo di horror religioso, erotismo pruriginoso, delirio misticheggiante, trash involontario, becero sensazionalismo eretico e la consueta fiera di corpi, violenza, sesso e sangue tipica del regista (che invero qui abbonda oltremodo nell'esibizione di effluvi organici). Con un tono grottesco fortunatamente quasi mai serioso, Verhoeven declina la sua poetica dello scandalo programmatico con il chiaro intento di tracciare un libello polemico contro la Chiesa e i suoi corrotti giochi di potere, puntando il dito contro tutte le perversioni, iniquità, inganni e crimini da essa commessi in nome della fede. Ma tutto resta nell'alveo delle intenzioni perchè la critica si ferma alla superficie e non riesce mai ad affondare realmente il colpo, disperdendosi tra effettismi strumentali e momenti camp che rasentano il ridicolo (basti citare le visioni cristologiche di Benedetta o la statuetta della Madonna adattata a sex toy). La presunta oscenità ricercata dal regista come il pane quotidiano è schematica, turgida, forzata, compiaciuta e quindi sterile, innocua, più goffa che pungente, esattamente come il film. Da salvare l'efficace ricostruzione scenografica ambientale (le riprese si sono svolte principalmente a Montepulciano e a La Roque-d'Anthéron) e la credibile interpretazione delle attrici principali (Virginie Efira, Charlotte Rampling, Daphne Patakia). Tra un "amen" ed un "abiuro" resta la retorica domanda iniziale: era davvero necessario?
 
Voto:
voto: 2/5

Il collezionista di carte (The Card Counter, 2021) di Paul Schrader

William Tell ha passato 10 anni in prigione dove ha scoperto aspetti della sua personalità che non conosceva: ha imparato a riflettere, a leggere, ad attendere ed è diventato un mago nel contare le carte, ricordando a memoria tutte quelle che sono uscite durante una partita e calcolando rapidamente le probabilità di vittoria o di sconfitta alla prossima mano. Una volta uscito William sfrutta il suo talento ed inizia una carriera di giocatore d'azzardo professionista: trascorre le sue giornate in giro tra un Casinò e l'altro, vincendo ai tavoli di blackjack o di poker, ma mantenendo sempre un profilo basso (la sua regola è vincere poco e perdere poco per non dare nell'occhio). L'incontro casuale con Cirk, un ragazzo spiantato e indebitato che medita un efferato piano per vendicarsi di un ex pezzo grosso dell'esercito che ha commessi crimini orrendi, apre una breccia nella vita metodica e ripetitiva di Will, facendo riemergere fantasmi del suo doloroso passato di cui non parla mai con nessuno. Questo cupo thriller esistenziale, prodotto da Martin Scorsese, scritto e diretto da Paul Schrader e ben interpretato da Oscar Isaac, Tiffany Haddish, Tye Sheridan e Willem Dafoe, è un nuovo solido tassello coerente all'itinerario artistico del bravo regista del Michigan, modellato sull'eterno conflitto (alla base della sua poetica) tra il senso di colpa per i peccati commessi e il faticoso cammino verso la redenzione. E' un film teso, secco e senza fronzoli, dallo stile sommesso ed a tratti angosciante, in accordo all'animo del protagonista apparentemente glaciale ma carico di tormenti interiori tenuti a freno grazie ad una ferrea disciplina psicologica acquisita negli anni di reclusione. E' un'opera tetra e metaforica, diretta con mano sapiente da un autore esperto e maturo, che si concede un solo momento magico apertamente sentimentale: la visita alla "città delle luci", girata nell'Orto botanico del Missouri a Saint Louis, che in periodo natalizio diventa un giardino di luminarie. Senza svelare dettagli sugli sviluppi della trama possiamo dire che l'intero film è un simbolico viaggio spirituale alla ricerca della catarsi che punta il dito criticamente verso i malcostumi sociali di un intero paese, con specifico riferimento ai poteri forti, a quel sistema corrotto che agisce nell'ombra, manipola le coscienze e determina i destini. In tal senso vanno lette le numerose allegorie della pellicola, a cominciare da quella del gioco, stabilendo una connessione tra i debiti contratti al tavolo verde e i peccati commessi nella vita, in entrambi i casi "macchie" da purificare non senza difficoltà. Si allude ovviamente anche allo stile di vita di una nazione che vive al di sopra della sue possibilità, indebitandosi fino al collo per alimentare il perverso sistema capitalistico e danneggiando la propria vita a vantaggio di pochi speculatori. Il tutto condito da una ideologia di massa fanatica e distorta, rappresentata dal gambler che continua ad inneggiare agli USA ad ogni manche vinta al tavolo da poker. Il pensiero politico di Schrader viene espresso chiaramente attraverso la parabola delle mele marce, che sono tali perchè è marcio l'intero cesto che le contiene e che poi è pronto a defilarsi al momento di pagarne lo scotto, addossando le colpe ai singoli elementi che vengono sbattuti in prima pagina come i mostri da massacrare mediaticamente. Non a caso il nome del protagonista, ottimamente interpretato da un dolente Oscar Isaac, è quello del leggendario eroe popolare svizzero che con le "mele" aveva molto a che fare. Perchè in questo film nulla è lasciato al caso ma ogni singolo elemento s'incastra perfettamente nel disegno polemico e morale del suo autore. A volerci trovare un difetto bisogna anche ammettere che il suo abituale schema narrativo dell'anti-eroe solitario che agisce da solo contro il sistema soffrendo per le sue colpe appare un po' stinto, anche perchè già ampiamente sviscerato al meglio in opere passate (a cominciare da quel capolavoro assoluto che è Taxi Driver (1976) diretto da Scorsese e scritto da Schrader). Rimasta per molti mesi in stand-by a causa della pandemia di covid-19, la pellicola è stata faticosamente completata nel 2020 grazie all'azione pressante del regista, e presentata in anteprima al Festival di Venezia 2021. Da menzionare la buona prova recitativa dell'attrice comica Tiffany Haddish in un ruolo drammatico per lei inconsueto.

Voto:
voto: 3,5/5

lunedì 29 novembre 2021

Titane (2021) di Julia Ducournau

Alexia è una ragazza sociopatica che ha una placca di titanio nella calotta cranica a causa di un incidente stradale accadutole da piccola. Da quel momento ha sviluppato un morboso senso di attrazione erotica nei confronti delle automobili e, non a caso, si esibisce come sexy dancer negli autosaloni, offrendo spettacoli voluttuosi a intimo contatto con il metallo delle macchine in esposizione. Ma Alexia è anche una spietata serial killer che uccide brutalmente tutti coloro che le si avvicinano troppo "in quel senso". In fuga dalla polizia e dopo aver scoperto di essere incinta, la nostra cambia completamente il suo aspetto: si finge un maschio per sfuggire alla cattura ed assume l'identità di Adrien, un ragazzo da molti anni scomparso nel nulla, figlio di Vincent, roccioso comandante di una squadra di pompieri. L'incontro tra Alexia e Vincent, due anime perse e "uniche", tormentate dal medesimo senso di profonda solitudine e inconsciamente bisognose di amare e sentirsi amate "a modo loro", cambierà per sempre le vite di entrambi. Horror visionario scritto e diretto dalla francese Julia Ducournau, all'insegna di un'estetica allucinata, una potente fascinazione oscura di matrice allegorica, un erotismo "malato" dai richiami psicoanalitici ed uno stile denso di audacia creativa, che sa mescolare abilmente il fantastico, l'orrido, il romantico e lo splatter in una dimensione estrema da delirio fiabesco. Non è un film per tutti per i suoi contenuti indubbiamente forti, è un'opera underground inevitabilmente destinata a dividere, che potrà affascinare o inorridire molto in egual misura, suscitando reazioni nette in un verso o nell'altro, ma che di sicuro non lascia indifferenti. E' diventato "famoso", e non senza polemiche, dopo essere stato premiato (con molto coraggio) con la Palma d'Oro al Festival di Cannes dalla giuria presieduta da Spike Lee, provocando feedback contrastanti e le ire di molti critici o addetti ai lavori, tra cui il nostro Nanni Moretti (che era in concorso, non senza aspettative, con il suo Tre Piani) che ha ironizzato a modo suo sulla pellicola, banalizzandola con superficialità di parte. Questo Titane di Julia Ducournau è molte cose, ma di sicuro non è un'opera sciocca, nè tanto meno futile. E' una vigorosa riflessione in chiave fantastica-orripilante sul concetto relativo di "genere" (inteso in termine identitario più che sessuale), oltre che una straordinaria "storia di amore", quasi unica nel suo genere, tra un essere androgino mutante ed un macho malinconico dal cuore tenero, l'uno alla ricerca di un padre e l'altro di un figlio, e dal cui strano incontro potrebbe generarsi una "nuova specie", un ibrido che simboleggia la crisi di un modello maschilistico ormai antiquato e la nascita di un genere ambiguamente indefinibile, che li contiene tutti ma che è fiero di essere unicamente sè stesso. E' quasi ovvio che la regista non si riferisce solamente ai moderni dibattiti sulla pari dignità dei generi (sessuali) e sulla fluidità del concetto stesso di identità, ma sta parlando anche del cinema stesso e della sua necessità di mutare verso "generi" nuovi, probabilmente indefinibili con i vecchi criteri di classificazione. Tra le molteplici suggestioni evocate da questo film di culto possiamo citare la carnalità efferata di Gaspar Noé, il body-horror di David Cronenberg o l'invenzione visionaria di Leos Carax (senza dimenticare la presenza nel cast del regista Bertrand Bonello, autore dello splendido Nocturama del 2016), ma tutto viene filtrato secondo una prospettiva intimamente personale e sottilmente metaforica, e non senza un perfido gusto della provocazione. I due attori protagonisti, Vincent Lindon e la sconosciuta Agathe Rousselle, sono assolutamente straordinari e contribuiscono a rendere la visione dell'opera molto difficile da dimenticare. In Italia è stato distribuito in pochissime sale con un divieto ai minori di 18 anni.
 
Voto:
voto: 4/5

Ultima notte a Soho (Last Night in Soho, 2021) di Edgar Wright

Ellie è una giovane ragazza orfana di madre che lascia il suo piccolo villaggio rurale della Cornovaglia e arriva a Londra, inseguendo il suo sogno di diventare un'affermata stilista di moda. Sensibile, di buoni sentimenti e appassionata del vintage, Ellie si scontra presto con l'ipocrisia, i malcostumi, i pericoli e la feroce competitività della grande metropoli e decide di lasciare il più agevole pensionato della scuola per vivere da sola in piccolo e antico appartamento di Soho, affittato da una vecchia signora. Immersa nelle atmosfere di un quartiere ricco di storia e di memorie del passato, Ellie inizia fare dei sogni (sempre più vividi) di quel mondo che l'ha sempre affascinata, la "Swingin' London" degli anni '60, in cui rivive la vita di Sandie, una bella biondina arrivata a Londra per fare la cantante e finita in un giro di frequentazioni poco raccomandabili. I sogni di Ellie diventano gradualmente più invadenti e il pensiero di Sandie la ossessiona fino a sovrapporsi alla sua stessa vita. Col trascorrere dei giorni l'esistenza della ragazza diventa un incubo, lei inizia a indagare sulla sorte di Sandie ma anche a dubitare se ciò che le sta accadendo sia reale o frutto della sua fantasia alterata, tra fantasmi del passato e paura di affrontare una difficile realtà. Il settimo lungometraggio del talentuoso regista inglese Edgar Wright, da lui prodotto, scritto e diretto, è una rutilante miscela caleidoscopica di musical d'antan, atmosfere pop-art, thriller deduttivo e horror psicologico. Impaginato in una sfavillante patina glamour che ricostruisce (anche grazie alle sapienti scelte musicali delle canzoni d'epoca) le suggestioni nostalgiche del periodo culturale più mitizzato della capitale britannica, questo accattivante film ibrido, carico di invenzioni visive e di fascinazione onirica, è assolutamente straordinario per circa tre quarti della sua durata ma si perde un po' nel finale troppo prevedibile e risolutivo, infiacchito anche da una dimensione horror non molto convincente, che è, specialmente nella sua resa grafica, il vero tallone di Achille di un'opera altrimenti eccellente. Le due giovani interpreti principali (Thomasin McKenzie e Anya Taylor-Joy) sono perfette nei rispettivi ruoli e confermano tutto quanto di buono avevano già dimostrato nelle precedenti apparizioni. Notevole anche il cast "di contorno" con Diana Rigg, Matt Smith ed un ingrigito (ma sempre carismatico) Terence Stamp che appare, piacevolmente, come un fantasma di quel passato a cui la pellicola è dedicato. La ricostruzione emotiva, malinconica e sentimentale della "Swingin' London" è magnifica e trova il suo momento di volo alto nella memorabile sequenza di "ingresso" negli anni '60 sulle note di "You're my world", versione anglofona del brano di Umberto Bindi e Gino Paoli portato al successo internazionale dalla versione cantata da Cilla Black. Tra le pieghe di un racconto dalla forte connotazione "di genere" (con influenze e omaggi al cinema di Nicolas Roeg e di Roman Polanski), l'autore inserisce anche piccoli elementi autobiografici, sovrapponendo lo sguardo incantato e sognante della protagonista al suo, provinciale di campagna sbarcato da ragazzo tra le mille luci della capitale, subendone inevitabilmente il fascino che rapisce, turba e atterrisce allo stesso tempo. E non vanno dimenticate le inevitabili allusioni a problematiche attualissime come quella della violenza sulle donne o le intelligenti riflessioni di sottile demitizzazione del passatismo: al netto della dolce coltre alimentata dalla nostalgia, Wright non manca di mostrare come sia fragile il caro mito abusato dei "bei vecchi tempi", perchè tutte le epoche hanno i loro lati oscuri e i loro orrori indicibili, che però la memoria tende inconsciamente a rimuovere, lasciando solo il "bello".
 
Voto:
voto: 3,5/5

Spencer (2021) di Pablo Larraín

Lady Diana Spencer, una delle icone popolari del secolo scorso, generalmente amatissima ma in certi casi anche controversa, da sempre oggetto di attenzione morbosa da parte dei media che ne hanno saccheggiato l'intimità da viva e non hanno smesso di "interessarsi" a lei neanche dopo la tragica morte, continua a far parlare di sè e a rimanere impressa nell'immaginario collettivo anche grazie alla lunga serie di documentari, film televisivi e serie tv che le sono state dedicate. Dal punto di vista cinematografico l'ombra lunga di una Lady D. appena scomparsa faceva da ingombrante coprotagonista assente nel riuscito biopic The Queen - La regina (The Queen, 2006) di Stephen Frears. E nel 2013 il tedesco Oliver Hirschbiegel le ha dedicato una poco riuscita ricostruzione biografica con il banale Diana - La storia segreta di Lady D (Diana) con Naomi Watts protagonista. Ma molto della recente percezione popolare del personaggio è stato indubbiamente influenzato dal serial televisivo di grande successo The Crown in cui l'ex principessa del Galles è efficacemente interpretata da Emma Corrin, stabilendo un involontario (ma inevitabile) termine di paragone per i casi futuri, come questo dell'ottimo regista cileno Pablo Larraín che, dopo due affreschi biografici "atipici", Neruda (2016) e Jackie (2016), ed un capolavoro visionario come Ema (2019), ha deciso, affidandosi alla penna di Steven Knight come sceneggiatore, di realizzare questo ritratto intimo, romanzato ma evidentemente realistico e verosimile sulla figura mitizzata della "principessa triste". L'approccio stilistico e concettuale è in linea con quello dei suoi due precedenti biopic: l'autore immagina gli eventi, interiorizzandoli dalla prospettiva della protagonista, dei giorni delle festività natalizie del 1991 nell'austera residenza di Sandringham House, in cui Diana decise di interrompere il suo matrimonio "fasullo" con Carlo dando così il via a tutta la valanga di eventi, scandali e pettegolezzi che ne sarebbero conseguiti e che 6 anni dopo l'avrebbero fatalmente travolta. Ambientato in una 4 giorni fatale nella raggelante atmosfera inerte della brughiera inglese e diviso in 4 atti (Vigilia, Natale, Santo Stefano e Gita di caccia), Spencer è una anti-favola tragica, onirica, intimistica ed immersiva nel mondo interiore di una Diana che già ci appare in crisi profonda, depressa, bulimica, infelice, inquieta, schiacciata dal peso di un matrimonio di facciata e di una tradizione, di un conformismo e di un protocollo castrante che non tollera più, e che le provocano angoscia, isteria, atteggiamenti ribelli, manie capricciose, tendenze all'autolesionismo e persino pensieri suicidi. Lo stile è sontuoso, elegantissimo e glaciale, talvolta un po' accademico, da porre in contrasto con la tempesta interiore, faticosamente (mal) tenuta a freno, che impazza nell'animo della fragile protagonista, efficacemente interpretata dall'americana Kristen Stewart (intensa, tormentata e dolorosamente magnifica nel conflitto tra radiosa bellezza e cupezza interiore). La giovane attrice californiana (qui alla sua vera prova di maturità) ci offre una performance notevole e solo in parte mimetica, con un notevole lavoro linguistico sull'accentazione britannica ed una emotività trasmessa interamente attraverso lo sguardo. Vanno altresì menzionate: la ricostruzione scenografica imponente di pregnante suggestione, le musiche evocative di Jonny Greenwood, la fotografia di Claire Mathon e le eccellenti prove del cast in cui, oltre alla Stewart, spiccano i bravissimi Timothy Spall, Sean Harris e Sally Hawkins. Larraín garantisce il suo solito tocco "magico" e vellutato, attingendo a mani basse da tutta l'iconografia mitizzata del personaggio di Lady D. ma sublimandola attraverso una eterea stilizzazione e aggiungendovi persino degli inserti fantasmatici (invero un po' forzati) nelle connessioni con la figura tragica di Anna Bolena. Il film non manca di toni politici e ci consegna diverse sequenze straordinarie che resteranno nella memoria: la visita notturna nella casa di famiglia abbandonata, il dialogo con Carlo "a distanza" dai lati opposti del tavolo da biliardo, la principessa distesa di spalle sul pavimento del bagno in un vistoso abito da cerimonia. E non ultimi i numerose omaggi colti a Hitchcock (Rebecca), al cinema horror e noir d'autore (Kubrick, Siodmak, Polanski) che il talentuoso regista si diverte a inserire e che possono rappresentare un ulteriore motivo di interesse per i cinefili. Tra pulsioni trattenute e desideri inespressi Larraín ci presenta il lato amaro di quel mondo rigido, inamidato, ipocrita e bacchettone che è il cerimoniale dei reali, eletto a dogmatico formalismo esistenziale, attraverso gli occhi afflitti di una principessa che non voleva esserlo, lontanissima dall'immagine edulcorata delle fiabe, un'eroina spettrale prigioniera del suo ruolo, insofferente del sistema e dispersa nei ricordi malinconici della sua infanzia, vissuta proprio al confine di quel Sogno che poi si è rivelato essere un incubo.

Voto:
voto: 3,5/5

venerdì 26 novembre 2021

.45 (2006) di Gary Lennon

La bella Kat vive con Big Al, delinquente violento, geloso e manesco che traffica in armi illegali e la sottomette sia sessualmente sia fisicamente con il suo brutale senso malato di possesso. Kat si sente prigioniera ma è al contempo attratta da lui e non riesce a mollarlo, anche perchè ne teme la reazione. Dopo una folle scenata di gelosia per averla vista parlare in un bar con un portoricano, la ragazza viene selvaggiamente picchiata e Al finisce in prigione. Ma nonostante le pressioni di un'appassionata assistente sociale, Kat si rifiuta di sporgere denuncia e quindi il suo persecutore esce dopo pochi giorni. Ma lei non è così debole come potrebbe apparire e sta meditando la sua vendetta. Thriller indipendente scritto e diretto da Gary Lennon sul tema, doloroso e purtroppo sempre attuale, della violenza contro le donne. Efficacemente interpretato da una intensa e sorprendente Milla Jovovich, eroina dei film d'azione tratti dai videogiochi che ha avuto il coraggio di confrontarsi con il cinema indie in un ruolo indubbiamente difficile, è una pellicola aspra che utilizza uno stile singolare dai due volti: da un lato utilizza un'estetica di truce realismo, con uso frequente della camera a mano, per rendere le scene di violenza al massimo della verosimiglianza. Dall'altro si avvale di stranianti inserti di svariati personaggi che parlano in camera come se venissero intervistati e ci regalano ogni volta una nuova tessera per comporre il puzzle della personalità della protagonista. Impossibile non citare in tal senso il monologo di apertura con Kat che guarda in macchina da presa e si rivolge "a noi" lodando esplicitamente le doti sessuali del suo partner Al. A tratti è una pellicola un po' effettistica ed eccessiva, altre volte forzatamente sgradevole, ma merita la visione per la performance della Jovovich, in un ruolo molto diverso dai suoi consueti.

Voto:
voto: 3/5

Manifesto (2015) di Julian Rosefeldt

Interessante e coraggioso esperimento di video arte del bavarese Julian Rosefeldt, costruito su un'idea (enunciare 13 manifesti di movimenti artistici o politici facendoli "raccontare" da 13 personaggi diversi) e su una straordinaria attrice (l'australiana Cate Blanchett, che interpreta tutti i 13 personaggi dimostrando una stupefacente abilità di trasformismo). Il progetto nasce inizialmente come un insieme di 13 cortometraggi, ciascuno dedicato ad uno specifico Manifesto, della durata di 10 minuti e 30 secondi cadauno, poi montati insieme in sequenza in una installazione video presentata per la prima volta all'Australian Centre for the Moving Image dal dicembre 2015 al marzo 2016. L'autore ha poi pensato di farne anche un lungometraggio per il cinema, mostrato in anteprima tra la curiosità generale al Sundance Festival del 2017, in una versione ridotta di 90 minuti. Tra i vari personaggi interpretati dalla Blanchett vi sono una homeless, un'operaia, una punk tatuata, una coreografa, una scienziata, una giornalista televisiva, una vedova, una professoressa e via discorrendo. Per quanto riguarda i Manifesti che ciascun personaggio declama a suo modo ricordiamo quello del Partito Comunista, il dadaismo, il futurismo, il surrealismo, la pop-art, il situazionismo, il minimalismo e persino il "Dogma 95" di Lars von Trier e Thomas Vinterberg. A metà strada tra il documentario, la provocazione, l'intellettualismo e l'equilibrismo visionario, questo film colto e strano è ben più di un mero sfoggio di virtuosismo autoreferenziale, ma un'originale riflessione sul rapporto tra arte, politica e società, per rileggere alcuni principi di movimenti più o meno famosi e interrogarsi su quanto (e se) siano ancora attuali. Per gli spettatori più preparati sarà piacevole sentire gli slogan di Apollinaire, Marx, Marinetti, Kandinsky, Breton, von Trier o Fontana declamati in situazioni diverse (e talvolta stranianti) dai personaggi della Blanchett, ma il film è tutt'altro che elitario o ermetico e risulta pienamente stimolante e comprensibile anche per coloro che ignorassero persino l'esistenza di uno o più dei movimenti in questione. E' un'opera intelligente, originale e bizzarra, consigliabile a tutti coloro che amano confrontarsi con un cinema diverso e fuori dagli schemi convenzionali.
 
Voto:
voto: 4/5