martedì 21 dicembre 2021

È stata la mano di Dio (2021) di Paolo Sorrentino

Napoli, estate del 1984. Fabio Schisa, detto "Fabietto", è un adolescente introverso di famiglia borghese che vive al Vomero, il quartiere "bene" del capoluogo campano, con un padre distinto funzionario di banca, una madre vitale e giocosa, un fratello maggiore, una sorella perennemente chiusa in bagno ed una zia, Patrizia, procace e disinibita, con sospetti problemi mentali, che incarna tutti i suoi sogni erotici di ragazzo in crescita, spaventato dalla vita e dalle donne ma confortato da un ambiente familiare serenamente protettivo. Anche se non mancano problemi e dissidi, i genitori di "Fabietto" si amano teneramente, mentre la città è pervasa dall'euforia collettiva per il clamoroso acquisto di Diego Armando Maradona da parte del Napoli calcio, scatenando un entusiasmo popolare che oscilla tra la voglia di riscatto sociale e l'idolatria pagana. L'avvento del fuoriclasse argentino e una improvvisa tragedia familiare cambieranno per sempre la vita del ragazzo, indirizzandolo, dolorosamente ma ineluttabilmente, verso una carriera artistica. Il nono lungometraggio di Paolo Sorrentino, da lui scritto e diretto, è un dramma autobiografico intimo ed intenso in cui l'autore ritorna, fisicamente e spiritualmente, nella sua Napoli 20 anni dopo L'uomo in più, per tracciare, simultaneamente, un racconto di formazione, un diario sentimentale, un affresco emotivo ed un bilancio esistenziale che scava nei suoi ricordi dolci amari di adolescente per mettere in immagini la sintesi di un dolore universale, la magia di un periodo mitizzato e la nascita di un artista. Oscillando come da sua abitudine tra sacro e profano, poetico e grottesco, sublime e trash, Sorrentino si muove agilmente tra sequenze straordinarie (come il prologo visionario o la visita nella casa della baronessa) e inserti ampollosi, tra spontanea ispirazione e forzature folcloristiche, consegnandoci il suo film più sentito, più semplice e più appassionato, idealmente diviso in due parti distinte: la prima è una commedia nostalgica non priva di spunti comici e la seconda è una tragedia personale asciugata nei toni ma intrisa di rimpianto. Omaggiando ripetutamente i grandi Maestri del cinema italiano (Fellini, Rossellini, Leone), i suoi numi tutelari (Maradona) ed il suo primo mentore artistico (Antonio Capuano), l'autore racconta, ricorda, inventa, sogna e realizza il suo personale Amarcord attraverso l'alter ego "Fabietto", celebrando la possente magia evocativa della sua città natale (a cui alla fine finisci sempre per tornare) ed il potere salvifico dell'arte come unico vero antidoto contro il male di vivere. Nel cast, che al solito fedelissimo Toni Servillo vede affiancati Filippo Scotti, Teresa Saponangelo, Luisa Ranieri, Renato Carpentieri, Enzo De Caro e Lino Musella, spiccano le due interpreti femminili capaci di incarnare con autentica pregnanza due aspetti diversi della napoletanità. Il film ha vinto due premi al Festival di Venezia, dove è stato presentato in anteprima: il Leone d'argento (Gran premio della giuria) ed il premio Marcello Mastroianni per il giovane attore esordiente Filippo Scotti. Con la speranza di trionfare nuovamente agli Oscar, È stata la mano di Dio ha ottenuto unanimi consensi di pubblico e critica, a conferma di una maggiore semplicità nello stile narrativo.
 
Voto:
voto: 3,5/5

mercoledì 1 dicembre 2021

The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Il "duello di Dio" o duello giudiziario era un'usanza medioevale tipica dei popoli germanici per risolvere controversie tra due contendenti nei casi in cui la corte destinata a decidere non riusciva a raggiungere il convincimento necessario per condannare l'una o l'altra parte in causa. Era l'atto conclusivo della disputa e consisteva in una sfida all'arma bianca e all'ultimo sangue tra accusato e accusatore che si teneva in pubblica piazza, preceduta e seguita da minuziosi rituali e con epiloghi spesso di macabra efferatezza. La convinzione generale, da cui nasceva il nome dell'ordalia, era che fosse Dio stesso a giudicare e decidere, facendo vincere colui che era nel giusto e facendo soccombere l'altro. Questo oscuro dramma storico biografico di Ridley Scott (scritto da Ben Affleck, Matt Damon e Nicole Holofcener) è dedicato alla vera storia dell'ultimo "duello di Dio" che si tenne in Francia nell'anno 1386, ispirandosi liberamente al romanzo "L'ultimo duello. La storia vera di un crimine, uno scandalo e una prova per combattimento nella Francia medievale" di Eric Jager. Si narra della tenzone tra Jean de Carrouges e Jacques Le Gris, personaggi realmente esistiti, due scudieri, compagni d'armi e amici di lunga data, divenuti poi acerrimi rivali dopo che il secondo fu accusato di avere stuprato la bella moglie del primo, Marguerite de Thibouville, su esplicita e coraggiosa denuncia da parte della donna che si affidò direttamente al giudizio del Re Carlo VI. E' una storia torbida e brutale, raccontata attraverso una eccellente ricostruzione ambientale, con una fotografia grigia ed atmosfere tetre, che ben si accordano al senso morale della vicenda, riuscendo a rendere perfettamente in immagini un'epoca di oscurantismo e di violenze, in cui le donne erano ridotte a meri orpelli ornamentali, brutalmente sottomesse dal dominio dei maschi e generalmente considerate "oggetto" di piacere e "strumento" per sfornare eredi della casata. Non è ovviamente un caso che la scelta sia caduta su un soggetto di questo tipo, stabilendo inevitabili connessioni con la realtà contemporanea in cui ancora si discute di discriminazioni sessuali, piena emancipazione femminile e violenza contro le donne. Il film coglie in pieno l'essenza ideologica del Medioevo in merito a tali questioni, ce la presenta in tutto il suo orrore e propone, tra le righe, uno sguardo al presente per indurre riflessioni nello spettatore. E' vero che oggi a Hollywood e dintorni è molto di moda cavalcare l'onda lunga del #me_too per suscitare un facile consenso, spesso con atteggiamenti ipocriti di edificante buonismo di facciata, ma Ridley Scott ha il merito di evitare (almeno in parte) le trappole del moralismo attraverso una struttura narrativa alla Rashomon, ispirandosi all'idea di base del capolavoro di Akira Kurosawa del 1950 e dividendo la pellicola in tre segmenti che raccontano la "stessa storia" da prospettive diverse: quella di Carrouges, quella di Le Gris e infine quella di Marguerite de Thibouville. Le tre versioni differiscono in alcuni punti cruciali e determinanti, ponendo l'intera questione sotto un fertile velo di ambiguità e lasciando allo spettatore il compito di decidere quale sia la verità in cui vuol credere. E' questa la chiave vincente di un film che non si discosta molto dalle ultime frequenti incursioni del regista britannico nella Storia antica, ma che trova in questa felice intuizione una marcia in più che lo rende superiore alla media e concettualmente "super partes". E' un'opera di profonda cupezza, che ricerca una truce spettacolarità non molto originale solo nell'epilogo (in cui, inevitabilmente, verranno in mente altri lavori famosi di Scott senior), nella quale non esistono eroi ma soltanto vittime o carnefici e la classica mitizzazione romantica del cavaliere senza macchia viene demolita dai due protagonisti maschili, tra cui è arduo stabilire chi sia il peggiore. L'atavico tema del duello, fondamentale e ricorrente a diversi livelli in quasi tutta la filmografia dell'autore a partire dal cult I duellanti (The Duellists, 1977), si spoglia stavolta di ogni retorica "nobile" per assumere la valenza di una tragica casualità: la vittoria del caos in un mondo spietato e primitivo che da esso è dominato. Ottimo il cast in cui svettano i quattro protagonisti principali: Matt Damon, Adam Driver, Jodie Comer e Ben Affleck. In particolare Driver, impressionante per presenza scenica e oscuro carisma, dimostra ancora una volta di essere ampiamente a suo agio nei panni di "cavaliere nero". Nonostante i riscontri generalmente positivi da parte della critica, il film si è rivelato un flop al botteghino, dimostrando come il pubblico generalista sia ormai poco interessato ai racconti storici in costume e meno che mai a quelli che non possiedono un tronfio sensazionalismo retorico di facile presa e di immediato consenso populistico. E ogni riferimento a Il gladiatore (Gladiator, 2000) non è puramente casuale.

Voto:
voto: 3,5/5