lunedì 14 novembre 2016

Knight of Cups (Knight of Cups, 2015) di Terrence Malick

Rick è uno sceneggiatore di Hollywood, donnaiolo incallito, con un padre anziano, un fratello turbolento da tenere a freno e un vecchio dramma familiare alle spalle. Egli trascorre le sue giornate nell’indolenza, tra feste mondane, ville da sogno, eleganti piscine, donne bellissime e le strade di Los Angeles, brulicanti di umanità. Ma dai suoi occhi traspare un intenso disagio esistenziale, un tedio profondo che lo attanaglia, lo intorpidisce e lo fa vagare come un sonnambulo inebetito, perso nella sua opulenta quotidianità, alla disperata ricerca di un senso autentico. Obbedendo alla sua natura di avventuriero romantico dalla sensibilità artistica, Rick vaga inquieto nel mondo per trovare se stesso. “C'era una volta un giovane principe che il padre, il re d'Oriente, inviò in Egitto a cercare una perla. Ma, quando il principe arrivò, la gente gli porse una tazza. Una volta bevuto, si dimenticò di essere il figlio del re, dimenticò anche la perla e cadde in un sonno profondo”. Si apre con questa premessa fiabesca l’opus n. 7 di Terrence Malick e suo penultimo film, dato che il successivo documentario “Voyage of Time: Life's Journey” è rimasto ancora inedito nel nostro paese. Una premessa carica di risvolti allegorici che già contiene il senso intimo di quest’opera errante e meditabonda, un viaggio interiore di possente fascino spirituale che insegue quel barlume di mistico presente in ciascuno di noi. Il titolo è ispirato all’omonima carta dei tarocchi, il cavaliere di coppe (da non confondere con il fante!), che rappresenta la fantasia, l’amore e l’avventura, ma anche l’insicurezza e la vulnerabilità se girata al contrario. E il film intero è a sua volta suddiviso in  otto capitoli (più un prologo) recanti i nomi di carte dei tarocchi: la Luna, l'Appeso, l'Eremita, il Giudizio, la Torre, la Papessa, la Morte, la Felicità. Ciascuno dei segmenti è a suo modo unitario, una sorta di piccolo surrogato del film stesso: in pratica ciascuna delle parti già contiene il tutto e la loro somma crea un corpo unico, che le compenetra e ne replica la semantica, pur rispettandone l'unità narrativa indipendente. Esiste un contrasto intimo e profondo alla base del cinema di Terrence Malick: il contrasto tra la fulgida bellezza delle immagini, la sontuosa impaginazione estetica che guarda al poetico, e quell’evidente malessere di fondo, silente ma struggente, che traspare dai contenuti, pacatamente narrati attraverso la dilatazione dei tempi, la ciclicità degli eventi, le ellissi contemplative, i lunghi silenzi e la voce fuori campo, che fa da metronomo al libero flusso di pensieri. Uno stream of consciousness che rompe gli schemi rigidi della narrazione tradizionale, in favore di una maggiore densità concettuale e di un’astrazione forse manieristica ma anche doverosa nel perseguimento ascetico del sublime, del meraviglioso, del mistico che è, da sempre, l’obiettivo principale del grande regista americano. Fedele (e quasi “prigioniero”) della sua estetica “tirannica” e radicale, che nel tempo gli ha fatto ben meritare lo status di autore di culto, Malick non si smentisce in questo suo nuovo lavoro, che si muove sulla medesima scia dei due precedenti (The Tree of Life e To the wonder), pur mantenendo una propria salda autonomia artistica ed una propria originale personalità. Come al solito il cast è stellare (Christian Bale, Cate Blanchett, Natalie Portman, Antonio Banderas, Wes Bentley, Isabel Lucas, Teresa Palmer, Freida Pinto, Armin Mueller-Stahl) e totalmente “in balia” del geniale regista dell’Illinois, sempre più demiurgo di un’idea di cinema alta, elitaria, coerente e profonda, lontana anni luce dalle regole di quello showbiz hollywoodiano, che qui viene amaramente deriso nella sua vana protervia edificata sul futile materialismo e sull’ossessione dell’apparire. E, come sempre, la confezione tecnica è di altissimo livello, incorniciata dalla sontuosa fotografia di Emmanuel Lubezki e dalle affascinanti musiche di Hanan Townshend. E, ancora una volta, se ci si abbandona e si è (ben) disposti a perdersi nel flusso di suggestioni evocative e di allegorie ieratiche malickiane, il risultato sarà un’esperienza indimenticabile. Una nuova odissea spirituale dell’uomo e nell’uomo, perché il piacere del viaggio conta sempre più della meta.

Voto:
voto: 4,5/5