martedì 30 settembre 2014

Il diario di un curato di campagna (Le journal d'un curé de campagne, 1951) di Robert Bresson

Un giovane prete viene destinato in un piccolo paese della campagna francese, Ambricourt, dove il suo operato ascetico non viene compreso. Nonostante sia affetto da una grave malattia cerca di riportare alla fede la moglie e la figlia di un conte, vittime di forti tormenti interiori, ma anche stavolta non otterrà la dovuta considerazione. Abbraccerà allora la morte con l'animo di lieto di chi si sente in pace con se stesso. Il cinema di Bresson è il cinema del rigore e della coerenza, quasi insensibile alle logiche produttive e fortemente legato alla concezione del film come forma d'arte, libera e totalmente avulsa dai discorsi commerciali. Cineasta indipendente e dotato di grande personalità, influenzò, con la sua opera, tutto il cinema francese, compresa quella Nouvelle Vague di cui non volle mai far parte. Il diario di un curato di campagna è uno dei suoi capolavori, uno dei vertici della sua estetica asciutta fondata sulla sottrazione del superfluo, per mirare alla pura essenza delle cose, al cuore. Tratto dall'omonimo romanzo di Georges Bernanos, ne epura tutti gli aspetti legati alla vita sociale o alla convivenza nel piccolo paese, e mette fuori fuoco persino quelli connessi alla malattia del giovane curato, per soffermarsi unicamente sull'aspetto mistico, su un doloroso percorso di fede e di carità che ricalca quello del Cristo. Infatti il film di Bresson è, essenzialmente, un meraviglioso elogio della santità, che sceglie unicamente la via spirituale per rappresentare una vita straordinaria, in cui il male fisico costituisce il mezzo per unirsi all'assoluto, annullandosi in esso. La compostezza formale, la tensione interiore sono i punti di forza di questa perla cinematografica che, attraverso immagini che tendono al metafisico, ci parla della fede attraverso aneddoti potenti, come il martirio quotidiano, il sacrificio solenne, insomma la Via Crucis. Il mondo degli uomini, lasciato in penombra con i suoi vizi e le sue imperfezioni, appare come lo spettatore inerte ed ignavo di questo glorioso cammino di cui riesce a cogliere soltanto gli aspetti esteriori: la sofferenza e la morte. Tra i tanti esempi di cinematografia della Fede quest'opera di Bresson è, senza alcun dubbio, una delle vette supreme e la sua scarna essenzialità possiede la forza di un raggio di luce che squarcia le tenebre.

Voto:
voto: 4,5/5

La corazzata Potëmkin (Bronenosets Potemkin, 1925) di Sergej M. Ejzenstejn

Più che un film è una leggenda del cinema muto, è la storia (ispirata ad una vicenda reale ma in buona parte romanzata) di un ammutinamento avvenuto a Odessa, in Ucraina, nel giugno del 1905 ad opera dei marinai della corazzata Kniaz Potëmkin Tavricevskil a causa delle disumane condizioni di vita. Commissionato appositamente dal governo sovietico per il ventennale della rivolta, è il più famoso, ed il migliore, film di propaganda mai realizzato a causa dei suoi elevati valori tecnici che si condensano in un apparato figurativo imponente, titanico, di altro spessore tragico, con delle sequenze che sono entrate di diritto nella Storia del Cinema. Su tutte quella del massacro sulla scalinata, con i soldati dello zar che sparano sulla folla inerme ed il dettaglio della carrozzina che scivola giù lungo i gradini, sequenza divenuta icona della settima arte e ripetutamente omaggiata da tanti registi, come il Brian De Palma de Gli intoccabili. Diviso in cinque atti (Uomini e vermi, Dramma sul ponte, Il sangue grida vendetta, La scalinata di Odessa, Una contro tutte) è una sinfonia epica all'insegna del gigantismo che divenne, dopo l'iniziale diffidenza, il manifesto dell'intellettualismo di sinistra, trionfando in tutti i paesi del blocco comunista. Ovviamente l'evidente intento di propaganda ne fa un prodotto a tesi, unilaterale e, quindi, facilmente tacciabile di retorica, ma i meriti estetici dell'opera sono innegabili e ne costituiscono, ancor'oggi, il punto di forza. Ejzenstejn alterna le immagini imponenti di ampio respiro ad una serie di inserti shock in primissimo piano (il celebre occhio della madre straziata dalla violenza dei soldati), che servono a provocare una forte reazione emotiva nello spettatore, immergendolo nell'orrore della situazione. E viene portato al massimo livello enfatico il così detto "montaggio delle attrazioni", marchio stilistico del regista, ovvero non lineare ma caotico, intervallato da continui stacchi e con l'apparizione di immagini improvvise, per rendere il pubblico partecipe dello straniamento filmico. Il tumultuoso masacro sulla scalinata ne è un fulgido esempio, probabilmente il più alto nel cinema di Ejzenstejn. Di grande impatto è anche la scelta di non mostrare mai direttamente i soldati carnefici, ma di inquadrarne sempre alcuni dettagli della divisa, tendendo così alla disumanizzazione e, quindi, all'astrazione del nemico in un'unica malefica entità: il potere zarista. Il consueto simbolismo esasperato del regista russo trova qui pieno compimento nei primi piani sulle bocche dei cannoni o nella celebre scena della statua di leone che, prima dormiente, poi "prende vita", come metafora della coscienza popolare che si ridesta, dando vita alla rivolta. Esistono diversi versioni del film, quella solitamente circolante in Italia, dove arrivò solo nel 1960, dura 68' e si avvale della voce di Arnoldo Foà nella lettura delle didascalie, ma è ugualmente reperibile, in home video, la versione originale di 75'.

Voto:
voto: 5/5

Il piacere (Le plaisir, 1952) di Max Ophüls

Raffinata commedia a episodi sulla ricerca del piacere, liberamente tratta da tre racconti del Maupassant, che corrispondono ai tre segmenti in cui il film è diviso. Il primo espisodio, La maschera, parla di un vecchio donnaiolo che si reca a un ballo, in cerca di conquiste femminili, indossando una maschera per celare la sua anzianità. Nel secondo, La casa di Madame Tellier, assistiamo a un'ardita commistione tra sacro e profano: la Maison Tellier è una casa di tolleranza, la cui tenutaria, Madame Tellier, decide di attuare un giorno di chiusura per portare le sue "lavoranti" ad una prima comunione che si tiene in uno splendido angolo di campagna. L'idillio del luogo e l'atmosfera mistica indotta dal sacramento immergeranno le ragazze in emozioni da troppo tempo sopite, facendole tornare, con la mente, alla loro infanzia incantata. Il terzo episodio è La modella: un pittore e la sua musa si amano fino allo sfinimento, poi si lasciano ma lei tenta il suicidio. Il tedesco Max Ophüls, uno dei registi preferiti di Stanley Kubrick, è passato alla storia per lo stile elegante, per la forma sontuosa e per i virtuosismi sublimi, spesso ad alto rischio di puro manierismo. In questo film, che è tra i suoi capolavori indiscussi, affronta il tema del piacere, come chiaramente espresso dal titolo, confrontandolo, rispettivamente, con la senilità, con il candore e con il matrimonio, nei tre episodi della pellicola. Nonostante l'impostazione non unitaria, l'opera ha una forte valenza d'insieme perchè tutte le singole parti hanno un tema comune e convergono verso una tesi dimostrativa, che ribalta il tono da commedia e sancisce la non esistenza di un piacere assoluto, in quanto inevitabilmente preceduto, o seguito, dal dolore. Dei tre episodi il migliore è il secondo, che scandalizzò i benpensanti dell'epoca, e che rappresenta il vertice assoluto del cinema di Ophüls, quello in cui gli opposti si toccano fino a coincidere in un'unica forma espressiva: eleganza e decadenza, purezza e lussuria, spiritualità e materialismo.

Voto:
voto: 4,5/5

Fanny e Alexander (Fanny och Alexander, 1982) di Ingmar Bergman

Opera conclusiva del grande Autore svedese, che in seguito ha girato solo piccoli film TV che nulla aggiungono alla sua fama, ed ultimo straordinario capolavoro di una carriera irripetibile. Nato inizialmente come prodotto televisivo della durata di più di 5 ore, poi ridotte a circa 3 nell'inevitabile adattamente per il grande schermo, fu un kolossal costosissimo che mandò sull'orlo del fallimento la Filminstitutet svedese. Maestosa epopea familiare divisa in 5 capitoli (il Natale, il fantasma, il commiato, i fatti dell'estate, i demoni) più un prologo ed un epilogo, racconta le vicende della famiglia Ekdahl di Uppsala tra il 1907 ed il 1909, con una moltitudine di personaggi, una varietà di ambienti ed una ricchezza figurativa non usuale nel rigoroso cinema di Bergman. E' un film profondamente autobiografico, nel quale il regista racconta, in forma trasfigurata e carica di nostalgia, le origini della sua famiglia ad inizio '900. Più che una saga, sembra una sorta di rivisitazione guidata dalla memoria e illuminata dalla saggezza, una sorta di seduta autopsicanalitica per ricercare nell'infanzia le influenze, i motivi di ispirazione e le radici delle ossessioni e dei temi trattati poi dall'autore nei suoi film. La rievocazione ambientale è accuratissima e le le atmosfere rarefatte sono cariche di suggestione, con una costante oscillazione tra ambienti sontuosamente decorati ad altri freddamente spartani, che trova il rispettivo riscontro interiore nello stato d'animo dei personaggi. La ricchezza visiva e l'esuberanza inventiva, sia formale che sostanziale, sono degne delle opere migliori dell'autore e vengono qui ulteriormente amplificate dalla raggiunta maturità artistica e dal necessario "distacco" dai temi trattati, per quanto personali, che consente ad un'opera di divenire universale e, quindi, di pura Arte. Film testamento di uno dei massimi Maestri cinematografici, è una summa di tutto il suo cinema che qui spazia liberamente tra tragedia, commedia, drammi da camera, gioioso erotismo, rituali familiari, idilli incantati, momenti horror, litigi di coppia, fanatismo religioso e persino tocchi fantastici di assoluta genialità. I temi principali dell'opera sono quattro: famiglia, arte, religione e magia. La famiglia è quella, ideale, di Bergman, che si identifica, evidentemente, in Alexander e che ricostruì con assoluta precisione la sua infanzia burrascosa e gli ambienti barocchi della sua vecchia casa di Uppsala. Le figure familiari rassicuranti che compaiono nella prima parte, la nonna Helena o il vecchio zio, sono le proiezioni sentimentali, idealizzate, del regista: i parenti che avrebbe voluto avere. L'arte viene qui intesa, in una delle sue forme più nobili, il teatro, di cui il direttore Oscar declama subito il potere ad inizio film, e Bergman ne traccia un apologo vibrante, evidenziandone il costante rapporto con la vita attraverso continue connessioni, scambi di ruoli, transfert psicologici, fino alla confusione tra persone e personaggi, contenuto e forma, palcoscenico e quotidiano. La religione compare, inevitabilmente, come tetro fanatismo luterano (le cui atmosfere rimandano direttamente al cinema di Dreyer) nell'agghiacciante figura del pastore Vergérus, despota intransigente che rappresenta il padre del regista, figura opprimente dalla cui rigida educazione non è mai riuscito a liberarsi, come sancito, in modo sinistro, nella scena dell'apparizione del fantasma del religioso ("Non ti libererai mai di me!"). La magia è quella dell'infanzia, lo sguardo incantato di Alexander mentre osserva il mondo degli adulti rielaborandolo con la forza esuberante della sua fantasia e dando vita a visioni ora terribili ora meravigliose, trasfigurazioni possenti, simboli arcani dell'universo interiore bergmaniano. Magia che assume la valenza metaforica di un'utopia concreta (l'illusione cinematografica) quando consente di infrangere le leggi fisiche del reale (la fuga dei bambini dalla casa prigione), come se la verità fosse una mera illusione, un'idea evanescente, non razionale, ma frutto emotivo del desiderio infantile, mediante il quale "tutto è possibile", come detto dalla nonna Helena nel meraviglioso finale. Questo enorme caleidoscopio di immagini e suggestioni è un'opera di straordinario spessore testuale e pienezza espressiva, il lascito artistico di un genio ed uno dei maggiori capolavori della Storia del Cinema. Una menzione speciale va fatta per l'espressiva fotografia a colori di Sven Nykvist, straordinaria nell'esaltazione dei toni rossi (come già visto in Sussurri e grida), nella freddezza dei grigi e nel donare un'enfasi spettrale agli ambienti tetri. Ogni capitolo del film, che corrisponde ad una diversa "stagione" emotiva oltre che temporale, ha il suo colore caratteristico che gli conferisce la giusta personalità ed atmosfera. La pellicola vinse 4 Oscar: miglior film straniero, fotografia, scenografia e costumi e l'Academy perse, incredibilmente, l'ultima occasione di conferire il meritato premio al grande regista, candidato (ancora una volta invano) per regia e sceneggiatura.

Voto:
voto: 5+/5

lunedì 29 settembre 2014

L'avventura (L'avventura, 1960) di Michelangelo Antonioni

Durante una gita in barca alle isole Eolie, una giovane donna, Anna, che vive una tormentata relazione con Sandro, architetto donnaiolo, scompare misteriosamente nel nulla su un isolotto deserto. Dopo vane ricerche da parte dei suoi compagni di viaggio, Sandro inizia a cercarla in giro per la Sicilia accompagnato da Claudia, amica comune presente sulla barca al momento della sparizione. Ma, ben presto, i due finiranno per dimenticarla e cederanno alla reciproca attrazione, palpabile fin dall'inizio. Capolavoro scomodo e controverso di Antonioni, travagliato nella realizzazione (5 mesi di riprese in esterni in luoghi poco agevoli) e criptico nella struttura; divise la critica, fu premiato a Cannes con il Premio della Giuria ed ebbe non pochi problemi con la censura, per contenuti e scene "scandalose", alcune delle quali furono oscurate per consentirne l'uscita in sala. E' un'opera fondamentale per il cinema europeo degli anni '60 per la sua innovativa revisione del linguaggio cinematografico tramite uno stile ermetico ma elegantissimo, basato sull'estrema dilatazione dei tempi per attuare un'oculata sospensione metaforica che tende all'astrazione dei concetti basilari della poetica dell'autore. Concetti profondi, e già attuali nei primi anni del boom economico, in cui l'ottimismo vitale degli anni della ricostruzione post bellica era già stato contaminato dai germi del benessere materiale e della ricerca edonistica del piacere, trasformandosi in un più oscuro senso di disagio e di malessere interiore culminati nella crisi. Crisi esistenziale, crisi di valori, crisi della coppia (secondo la definizione tradizionale della vecchia società patriarcale), crisi di identità e di prospettive che esulano dall'immediato. In tal senso va letto questo film, autentico manifesto della crisi e dell'incapacità umana di comunicare in modo stabile, se non attraverso fugaci lampi di istintiva passionalità. Ne L'avventura il più problematico tra gli autori italiani intende raccontare l'implosione, morale e ideologica, della società del suo tempo, avvenuta bruscamente ma in modo subdolo perchè invisibile all'uomo comune, con un silenzio così opprimente da risultare "assordante". Il lento incedere della pellicola, a cerchi ellittici che mirano alla cristallizzazione del momento in una dimensione più onirica che reale, la rende un'opera di difficile metabolizzazione ma ne costituisce, nel contempo, la cifra stilistica pregnante che intende rappresentare (e lo fa egregiamente) il vuoto morale e strutturale della società borghese. Il giallo che dà il via all'azione, la scomparsa di Anna, resterà senza soluzione e lo spettatore finirà per dimenticarsene proprio come Sandro e Claudia, sopraffatto dal senso di smarrimento indotto dalla consapevolezza che nulla è certo, nulla può essere verificato o indagato, se non la certezza dell'assenza di senso. L'alienazione profonda descritta dal film, che sarà poi ulteriormente analizzata nelle successive opere dell'autore ferrarese (La notte e L'eclisse, che costituiscono, con L'avventura, una sorta di "trilogia" dell'incomunicabilità e del vuoto interiore), è quella ideologica e culturale di inizio anni '60 e troverà voce ed espressione anche in altri grandi Maestri come, ad esempio, Fellini o Resnais. Sotto la coltre intimista con evidenti rimandi psicologici, la pellicola possiede anche una notevole carica erotica, quasi sempre trattenuta ma, proprio per questo, ben più conturbante fino a quando la noia non contamina anche l'eros ed il sesso diventa mero esercizio strumentale di libido o di potere. Tutte le domande restano sospese e la mancanza di risposte simboleggia, secondo Antonioni, la sconfitta della società del suo tempo che non ha saputo adattarsi al rapido cambiamento dei tempi ed è implosa, scivolando in un patetico stallo esistenziale in cui la donna rappresenta l'antenna più sensibile. Nella sua agghiacciante lucidità è un memorabile esempio di monito antropologico, i cui contorni sfuggenti convergono inesorabili verso il senso dell'inadeguatezza e, quindi, della sconfitta. Nel cast brilla la Vitti, musa del regista, che, proprio con questo film, inizierà con lui una proficua e duratura collaborazione artistica oltre che una relazione sentimentale.

Voto:
voto: 5/5

Rapacità (Greed, 1924) di Erich von Stroheim

Dal romanzo McTeague di Frank Norris, Stroheim ha tratto il film "maledetto" per eccellenza, praticamente una leggenda della vecchia Hollywood per i costi di realizzazione, le difficoltà nelle riprese, le controversie produttive che portarono ad innumerevoli versioni, il clamoroso insuccesso al botteghino e gli strali della critica indispettita. Attraverso tre personaggi sporchi e ruvidi (Marcus, MacTeague e Trina), il regista austriaco racconta l'America alle soglie della grande depressione: un paese brutale e violento, dominato da istinti cinici e prevaricatori, in cui l'inseguimento del "sogno" passa attraverso la meschina cupidigia, come già sancito dal titolo esplicativo. Animato da un furore realistico quasi maniacale, che guarda a Zola ma con evidenti influenze sadiane, l'autore pretese di girare in luoghi e condizioni proibitive (la Death Valley), facendo crescere a dismisura tempi e costi e dando vita ad un'opera smisurata di quasi 7 ore, poi ridotta a 3 ore e 40' fino ad arrivare una versione "maciullata" di soli 108', con enormi tagli e stravolgimenti, che è quella normalmente circolante e che mandò il regista su tutte le furie. La storia del cinema è piena di contrasti tra autori e produttori, a discapito dell'arte, e quello di Greed è forse uno dei più eclatanti e clamorosi. Nel nuovo millennio ha preso a circolare una nuova versione, con il ripristino di molte sequenze tagliate, che dura 4 ore e che fu presentata, con notevole successo, alla rassegna per il cinema muto della 56° edizione del Festival del Cinema di Venezia. Questa nuova edizione, più vicina all'originale, ha restituito dignità ad un capolavoro dell'arte cinematografica, un apologo fosco e visionario sulla cupidigia e sulla cattiveria umana, una visione infernale del mondo (non solo del nuovo mondo) da parte di un autore ossessionato dalla ricerca della verità. Le interpretazioni sono straordinarie, in particolare la bravissima ZaSu Pitts, nel ruolo di Trina, è divenuta l'icona cinematografica dell'avarizia, ed anche dal punto di vista tecnico ci troviamo di fronte ad un film memorabile. Stroheim fa ampio uso di tecniche innovative, come la profondità di campo, per introdurre inserti surreali di grande effetto, che stridono volutamente con il realismo rigoroso alla base dell'opera per ottenere un contrasto di fertile ambiguità e di alto spessore metaforico. Basti pensare, as esempio, alla celebre scena del matrimonio tra Trina e Mac, con il carro funebre (sinistro presagio) che passa sullo sfondo, fuori dalla finestra, o al grottesco pranzo nuziale, a base di squallide portate, per sottolineare la volgarità degli invitati, fino alle braccia di Trina che diventano scheletriche mentre accarezzano le adorate monete d'oro. Minuzioso, impietoso, crudele e non privo di conturbante carica erotica (inusuale per i tempi), quest'opera titanica era, evidentemente, troppo per gli anni '20 e per il cinema muto. Oggi, dopo la dovuta ed inevitabile rivalutazione, resta come il monumentale lascito incompleto, perchè ci è arrivato solo in parte, di un visionario coraggioso e geniale.

Voto:
voto: 5/5

Roma città aperta (Roma città aperta, 1945) di Roberto Rossellini

Più che un film è un documento, straordinario, sul periodo più oscuro della storia italiana del '900: l'occupazione nazista durante gli ultimi tragici anni della seconda guerra mondiale. Nell'inverno del '44, in una Roma oppressa dal giogo tedesco, si intersecano tre vicende principali: quella di Manfredi, comunista in fuga, che cerca di progettare un'azione contro l'opressore, con l'appoggio di alcuni partigiani e di un'amante ingombrante, quella di Pina (Anna Magnani), popolana risoluta, vedova e con un figlio a carico, che, pur essendo in procinto di risposarsi con Francesco, si offre di aiutare Manfredi, offrendogli riparo, e quella di un prete, don Pietro (Aldo Fabrizi), attivamente impegnato nell'aiutare la gente e non estraneo alle manovre della resistenza. Film mito, beatificato a furor di popolo perchè primo a parlare apertamente di antifascismo e lotta partigiana subito dopo la fine della guerra, diede risalto mondiale al cinema italiano e fece entrare il regista e la Magnani nell'olimpo cinematografico. E' senza dubbio, insieme a Ladri di biciclette di De Sica, il manifesto ed il film più famoso del nostro Neorealismo, studiato nelle scuole, osannato nei festival ed eletto unanimemente come memoria storica del paese. Girato in fretta e con pochi mezzi ha la sua forza nel verismo potente, nei volti dolenti, nei luoghi ancora imbrattati dal lezzo della barbarie e, chiaramente, nella capacità del regista di conciliare, accordandole, le diverse storie che lo compongono, donando al quadro d'insieme un elevato spessore drammatico ed un'immediatezza espressiva che, ancora oggi, tocca il cuore del pubblico. L'urlo disperato della Magnani mentre insegue il caimon nazista che porta via il suo futuro marito, catturato dalla Gestapo, quell'indimenticabile "Francesco!" prima di essere abbattuta da una raffica di mitra, è entrato immediatamente nell'immaginario collettivo, elevandosi ad immagine simbolo di un paese sconfitto, umiliato, calpestato ma anche indignato, disposto a resistere ed a far sì che queste tragedie non vengano mai dimenticate attraverso il potere dell'arte. E' un film immenso ma, ad onor di critica, non privo di difetti che possono essere facilmente identificati in qualche comprensibile eccesso di populismo, dovuto alla lavorazione troppo "a caldo", appena due mesi dopo la liberazione, ed in un'impostazione moralmente a senso unico, e quindi manichea, tuttavia giustificabile essendo un'opera dalla prospettiva del popolo (le vittime), in accordo ai canoni del Neorealismo. Al di là di questo è impossibile non concedere il massimo dei voti a questa icona storica e artistica del nostro paese.

Voto:
voto: 5/5

La passione di Giovanna d'Arco (La passion de Jeanne d'Arc, 1928) di Carl Theodor Dreyer

Mirabile capolavoro del cinema muto, di cui quest'opera costituisce uno dei massimi risultati mai conseguiti, per alcuni il migliore in senso assoluto. Dreyer porta in scena gli ultimi tragici giorni della Pulzella d'Orléans, vilipesa, processata e bruciata viva sull'altare del fanatismo e della superstizione. Opera d'arte di sontuosa fattura e di assoluta avanguardia, celebra la figura femminile, elemento centrale del cinema di Dreyer, con un'intensità, una partecipazione emotiva, una suggestione pietosa e un misticismo evocativo mai più raggiunti in nessun'altra opera cinematografica. Più che un film storico è un monumento celebrativo al volto umano, qui usato come specchio della storia e dell'anima, per abbattere le distanze temporali e culturali e metterci in totale sintonia con la sofferenza di Giovanna, un dolore universale espresso con straordinaria espressività dall'attrice Renée Falconetti, nell'interpretazione della sua vita. L'attrice si sottopose a dure prove psicofisiche, come il taglio totale dei capelli, per diventare l'allucinata maschera di dolore che vediamo sullo schermo ed uscì assai provata dall'esperienza sul set. Si è anche detto, per anni, che la scena del salasso subito dalla martire fosse reale ma poi, nel tempo, la voce è stata smentita e oggi sembra certo che a girarla non fu la Falconetti ma una controfigura. E' geniale e rivoluzionario lo studio compiuto dal regista sul volto umano per trasmetterci le emozioni, azzerando i "limiti" naturali del film storico (quali anacronismo e ricostruzione degli ambienti) ed "attualizzando", quindi, fatti secolari, decontestualizzandoli e rendendoli senza tempo. Il volto sofferente di Giovanna, costantemente in primo piano per almento metà film, bilancia e condensa il tempo e lo spazio, e diventa un elemento espressivo eterno, un simbolo archetipo del dolore e dell'ingiustizia, una nuova icona di santità totalmente umana. Lo straordinario uso espressionista del primo piano dona alla vicenda ed ai personaggi un risalto plastico di incredibile fascinazione e conferisce all'opera un assoluto rilievo tecnico nella storia della settima arte. Tale è la forza delle immagini di questo film, ed il pathos che ne deriva, che se ne resta avvinti e sembra quasi di poter "sentire" i rumori e le urla provenire dalla nostra anima: l'assoluto espressionismo del volto dreyeriano dà parola al silenzio e ci "parla" ancora oggi, eternamente immortale proprio come il martirio della protagonista. Esistono diverse versioni di questo capolavoro, quella solitamente circolante presenta circa 25' di tagli significativi rispetto all'originale. Per fortuna, negli anni '80, è stata ritrovata una copia del primo negativo, scampato ad un incendio, che ha consentito la stampa di una nuova più completa edizione, probabilmente prossima a quella voluta dal Maestro danese.

Voto:
voto: 5+/5