giovedì 29 marzo 2018

La tenerezza (La tenerezza, 2017) di Gianni Amelio

Lorenzo è un anziano avvocato napoletano scampato ad un infarto, vedovo e con due figli adulti, Elena e Saverio, da cui si è allontanato da un pezzo. Uomo burbero e solitario, sgualcito dalla vita, spigoloso nel carattere e con più di un'amarezza nel cuore, Lorenzo intrattiene un rapporto sincero solo col piccolo nipote Francesco e con la giovane vicina Michela, ragazza solare e un po' infantile che sembra trovare in lui il padre che non ha avuto. L'uomo si avvicina sempre di più alla famiglia di Michela, composta da due vivaci bambini e dal marito Fabio, ingegnere del nord Italia che sotto l'apparenza tranquilla nasconde angosciosi tormenti interiori. Una tragedia inattesa cambierà radicalmente le loro vite. Liberamente tratto dal romanzo "La tentazione di essere felici" di Lorenzo Marone, il dodicesimo lungometraggio di Gianni Amelio è un malinconico dramma introspettivo sulla solitudine e sulla difficoltà di stabilire una reale comunicazione nei rapporti familiari. Scritto benissimo e recitato ancora meglio da un cast eccellente che trova in Renato Carpentieri, Micaela Ramazzotti ed Elio Germano i suoi punti forti, questo film sincero, disarmante e quietamente struggente ha il rigore severo di una dolente autoconfessione morale e la pudica amarezza di un ritratto antropologico di travaglioso disincanto e lucido realismo. Ambientato in una Napoli borghese e autunnale, lontanissima dagli stereotipi da cartolina o di malaffare a cui siamo abituati, è un'opera asciutta e sommessa, mai urlata e mai enfatica, abilissima nel filtrare ogni ruffianeria sentimentale in favore di una finissima sobrietà emotiva. Raffinato e composto anche nelle sequenze più drammatiche, l'autore accompagna i suoi personaggi mettendosi al loro fianco e senza mai giudicarli, regalandoci dialoghi secchi e taglienti, lampi poetici ed un senso di dolorosa umanità che pervade la pellicola in tutte le sequenze. Più delle parole contano i silenzi, gli sguardi, i gesti, le espressioni e il linguaggio del corpo, in questo metaforico viaggio umano che ruota intorno al concetto di famiglia (perduta, idealizzata, disgregata e vagheggiata), procedendo per progressivi sfasamenti emotivi. Il personaggio di Lorenzo, centrale e periferico al tempo stesso, complesso e profondo nella sua problematica ricchezza di sfumature e imperfezioni, è uno dei più intensi che il cinema italiano ha saputo regalarci negli ultimi anni. Assolutamente magistrale l'interpretazione, sofferta e toccante, del caratterista campano Renato Carpentieri che qui ha trovato il ruolo della vita, riuscendo finalmente a meritarsi quel risalto da protagonista che meritava da tempo. Quasi obbligatorio per lui l'inevitabile riconoscimento del David di Donatello come miglior attore italiano 2017. La sequenza finale ambientata nel grande spazio aperto del Centro Direzionale, potente e silenziosa, è l'emblema perfetto di questo film teneramente violento che procede austero sul non banale percorso della sottrazione emozionale.

Voto:
voto: 4/5

venerdì 23 marzo 2018

Un sogno chiamato Florida (The Florida Project, 2017) di Sean Baker

Nell'estrema periferia di Orlando (Florida), a due passi da Disneyland, sorge un motel alveare a due piani chiamato Magic Castle, tanto sgargiante nella sua vivace colorazione lilla quanto modico nei prezzi e per questo meta prediletta di sbandati senza fissa dimora che tirano a campare. Qui vivono Moonee e i suoi inseparabili amici, Scooty e Jancey, tre bambini esuberanti e discoli, piccole pesti capaci di trasformare, con la forza gioiosa della fantasia infantile, una realtà di quotidiano squallore nel loro personale regno incantato. Halley, giovane madre di Moonee, è una "smandrappata" inquieta senza un lavoro fisso, tutta tatuaggi e cattive maniere, che sopravvive alla giornata in bilico sull'insidioso crinale dell'illegalità. In questo microcosmo miserabile di umano degrado, fatto di donne senza uomini prese a schiaffi dalla vita, che fanno quello che possono per garantire ai figli un'esistenza dignitosa, la figura di riferimento è Bobby, manager factotum del motel, operoso e autoritario ma non privo di senso della giustizia e compassionevole umanità. Il sesto lungometraggio di Sean Baker (che realizza con esso il suo film migliore) è un lucido ritratto del sottoproletariato statunitense, qui rappresentato dagli homeless "invisibili" che brulicano nascosti in dozzinali motel a basso costo, anime perse bandite dal sogno americano e mortificate dalla crisi economica esplosa nel 2008, inevitabilmente sospese tra resilienza e disperazione, speranza e dannazione, purgatorio e inferno. Il "paradiso" è proprio lì dietro l'angolo, rappresentato da quel grande parco Disney dei divertimenti che è il simbolo materiale di tutti i sogni promessi dalla grande madre America. Eppure è al tempo stesso lontanissimo, perchè la sua luce non illumina il grigiore quotidiano dei reietti protagonisti del film, fantasmi sgraditi e sgradevoli, scarti indecorosi del capitalismo di cui devono dividersi faticosamente le briciole, azzannandosi tra loro. Tra commedia e dramma, tenerezza e durezza, realismo e fiaba, euforia e tragedia, l'autore mette a segno uno dei più intensi e riusciti affreschi sul mondo dell'infanzia visti al cinema nell'ultimo decennio. Attraverso il punto di vista dei piccoli protagonisti veniamo immersi in questo universo colorato e grottesco, ricco di stridenti contrasti e di aspre contraddizioni, una favola adulta amara e toccante che scorre lenta e frammentaria, senza risparmiarci i momenti di noia proprio come nella vita, per poi sublimarsi nel meraviglioso finale che scalda il cuore e inumidisce gli occhi senza neanche un'oncia di ruffianeria o di pietismo. Straordinario il lavoro di direzione di un cast eccellente, in cui l'unico attore professionista è un emozionante Willem Dafoe nel ruolo di Bobby,  meritatamente candidato all'Oscar come miglior attore non protagonista. Brave e credibili anche la piccola Brooklynn Prince (Moonee) e l'esordiente Bria Vinaite, reclutata su Instagram per il ruolo cruciale di Halley, donna volgare e dissoluta ma anche madre amorevole e giocosa. Il magico potere dell'immaginazione infantile è il filo di Arianna per attraversare questo triste labirinto di miseria morale, solo aggrappandosi saldamente ad esso si può continuare a lottare e a sperare, nonostante tutto. Proprio come l'albero preferito di Moonee, che è la figura metaforica più riuscita del film: un albero caduto che però continua a crescere.

Voto:
voto: 4/5