venerdì 21 marzo 2014

The Counselor - Il procuratore (The Counselor, 2013) di Ridley Scott

Algido noir scritto da Cormac McCarthy e diretto da Ridley Scott, tutto costruito sui contrasti: dalla solarità delle ambientazioni (quel "mexican border" dominato dai cartelli del narcotraffico) alla glaciale architettura degli ambienti interni, dall'opulenza americana alla povertà messicana, dall'aspetto "giusto" e cool dei personaggi principali al degrado morale che li contraddistingue, sotto l'egida dell'avidità. Come sempre in McCarthy il mondo appare in balia della violenza e le situazioni estreme servono a mettere alla prova i protagonisti ponendoli di fronte a tragiche scelte in cui si rivelerà la loro debolezza, in accordo al radicale pessimismo dell'autore di No country for old men. Ma i problemi di questo film risiedono nell'impianto eccessivamente verboso e nella costante esasperazione di dialoghi e situazioni alla ricerca della frase o della scena ad effetto, fino a scadere in un artificioso parossismo. Il cast stellare sembra un po' sprecato tra le luci e le ombre del film: sotto tono Fassbender, forse a causa del personaggio che è, di fatto, un idiota, macchiettistico Bardem, decorativa la Cruz, posticcio Brad Pitt, di cui ci si ricorderà solo per la scena finale, sopra la (sua) media la Diaz nel ruolo, centrale, della dark lady: creatura sensuale e luciferina che muove tutto a proprio piacimento. Le cose migliori risiedono in ciò che non si vede: il "cartello", forza malefica invisibile ma onnipresente, pronta a colpirti quando meno te lo aspetti proprio come il fato ineffabile a cui non si può sfuggire ed anche un dvd che non ha bisogno di essere mostrato perchè va troppo al di là di ciò che l'umana pietas può tollerare. In un generale senso di incompiuto o di sprecato la tragica escalation finale ha la forza di un maglio che ci lascia senza fiato, come un cappio di metallo che si stringe, inesorabile, intorno alla gola. Ridley Scott ha perso, ormai da tempo, la giusta ispirazione. Un vero peccato.

Voto:
voto: 3/5

Closer (Closer, 2004) di Mike Nichols

Due uomini  e due donne si incontrano e si scontrano a Londra. Dan, scrittore in disarmo, s'innamora della sexy Alice, giovane americana che fa la spogliarellista in un club per soli uomini. Ma quando Dan incontra Anna, matura fotografa ancora piacente e sposata con Larry, sarà così attratto da farle una corte serrata. Complice la scarsa presenza matrimoniale di Larry, dottore in dermatologia dai metodi sbrigativi, Anna finisce per cedere alle avance di Dan. Intanto Larry conosce Alice nello strip club in cui lavora e si getta a capofitto in una relazione con lei. Melò "da camera", cinico e verboso, che intreccia le vite di due uomini e due donne in un gioco al massacro di tradimenti, attrazioni, debolezze, passioni e incomprensioni, sempre sul filo dell'attuale egoismo edonistico occidentale. In un mondo frenetico e tecnlogico che viaggia a mille all'ora, l'amore è un lusso che non ci si può più concedere e resta solo il tempo per brevi pillole di fugace "piacere". Ereditando l'impianto teatrale dalla piece da cui è tratto, è un film di attori, non sempre equilibrato, con un cast stellare in cui spiccano l'audace Clive Owen e la sensuale Natalie Portman. Convincente Jude Law, un po' spaesata Julia Roberts, che appare l'anello debole del quadrilatero amoroso. Regia accademica di Nichols che viaggia col pilota automatico, al servizio della tirannia del moderno cinismo che fa tendenza e cannibalizza i sentimenti. Abbasso l'amore, viva il sesso. Possiamo anche essere d'accordo, ma la sensualità dove la mettiamo ? Mezza stellina in più rispetto al voto che avrebbe meritato, come atto di stima alla carriera del regista.

Voto:
voto: 3,5/5

La finestra di fronte (La finestra di fronte, 2003) di Ferzan Ozpetek

Intenso dramma sentimentale a due livelli: quello della memoria, attraverso il ricordo di un amore perduto e proibito da parte di un anziano (Massimo Girotti) che soffre di amnesie, e quello del presente, attraverso un prevedibile triangolo amoroso Nigro-Mezzogiorno-Bova. La prima parte è la migliore. Ozpetek fa quello che sa fare meglio: molti personaggi, molti sentimenti e un po' di verace folklore, ma è solo grazie al personaggio di Girotti, che emana un'austera nobiltà antica, che il film riesce a trasmettere sprazzi di sincera umanità, elevandosi dalla sua dimensione di ordinaria banalità. Buon successo di pubblico per un film mediocre, premiato quattro volte ai David di Donatello. Bella la colonna sonora non originale che si avvale di brani di Giorgia, Nada, Mina, Guadalupe Pineda e Sezen Aksu. Il regista turco resta sempre a metà strada tra una commedia agrodolce dal retrogusto kitsch ed un romanticismo alienato che percorre il filo di un dolente intimismo, spesso inerente alla ricerca dell'identità sessuale. Tra le due cose quella che gli riesce meglio è la seconda, che però viene spesso offuscata dalla colorita anarchia della prima. AAA equilibrio registico cercasi.

Voto:
voto: 3/5

Titanic (Titanic, 1997) di James Cameron

Kolossal smisurato che coniuga dramma, azione e sentimento sullo sfondo della più celebre tragedia navale della storia: l'affondamento del Titanic, avvenuto il 15 aprile 1912 al largo di Terranova. E', probabilmente, il film più famoso e più visto del cinema moderno che ha reso Leonardo DiCaprio e Kate Winslet divi all'improvviso ed icone romantiche, travolgendoli con un successo "oceanico". Megalomane come il suo regista è un imponente spettacolo visivo la cui anima, fragile, è una storia d'amore improbabile, zuccherosa e strappalacrime, costruita a puntino per commuovere il mondo attraverso scene madri ad effetto. Ma il resto è autentica magia per gli occhi: dalla perfetta ricostruzione storico ambientale alla cura maniacale degli interni, degli arredi e degli orpelli della grande nave, dalle sequenze di ampio respiro ai drammatici istanti dell'affondamento, ricreati con prodigiosi effetti speciali. E come non citare la stupefacente (e reale) discesa negli abissi, del mare e del tempo, alla ricerca del vecchio relitto abbandonato a circa quattromila metri di profondità. Cameron ci riporta tutti sul Titanic, insieme alla vecchia Rose, su questa fittizia giostra dei sogni, luminosa fiera viaggiante di vanità e di illusioni e, visti gli incassi, senza alcun timore di iceberg. Il risultato complessivo è un elefantiaco "parco dei divertimenti" in cui tutto abbonda: spettacolo, retorica, amore, illusione, magnificenza, furbizia, incanto, tragedia. Su questo enorme blockbuster si può dire tutto e il contrario di tutto, ma non se ne può negare la funzione intrattenitrice che risponde ad uno dei requisiti principali del cinema delle origini: creare uno "spettacolo spettacolare".

Voto:
voto: 4/5

Luna di Fiele (Bitter Moon, 1992) di Roman Polanski

Due coppie si incontrano su una nave da crociera diretta in India: Nigel e Fiona, lui represso, ipocrita conformista e lei apparentemente dalla sua stessa parte, Oscar e Mimì, lui americano, scrittore fallito, sgradevole e depravato, costretto su una sedia a rotelle, lei francese, sensuale, conturbante, con una carica erotica in grado di far "sparire" ogni altra donna. Nigel è evidentemente attratto da Mimì e Oscar lo incoraggia, a patto che lui accetti di ascoltare il racconto dettagliato della loro sordida storia, come in una seduta di psicoanalisi. Saranno tutti travolti da un turbine di perverso erotismo. E', probabilmente, il film più nero del grande regista polacco, da sempre ossessionato da temi come il lato oscuro della sessualità o il rapporto tra sesso e potere. Al di là dell'aspetto erotico, indubbiamente forte e con picchi di morbosità, è un film sull'ossessione, sulla disperazione interiore e sul senso di possesso: alla maniera dell'ultimo Pasolini, il sesso diviene un simbolo di potere ed il corpo il suo dolente "territorio" di insano dominio. Il sadico protagonista (Coyote) e la sua conturbante musa (Seigner, moglie del regista) ci accompagnano in un vortice di sadismo e di disperata perversione, in un "cupio dissolvi" che non può che condurre all'inevitabile finale che, nonostante tutto, riserverà anche qualche "sorpresa". Tra diverse scene di pregevole fattura ed alcuni sapienti tocchi di regia, è un film con troppo livore, la cui carica morbosa finisce per debordare in un triste spettacolo "a tesi", ma vanta diversi estimatori a causa del suo indubbio fascino oscuro. Suggestiva colonna sonora di Vangelis.

Voto:
voto: 3,5/5

I giorni del cielo (Days of Heaven, 1978) di Terrence Malick

Agli inizi del '900, Bill, manovale di Chicago, fugge verso i campi del Midwest, dopo avere ucciso accidentalmente un uomo in una lite, e porta con se Abby, la sua donna, e la piccola sorella di lei. Trovano lavoro nella fattoria del latifondista Chuck, ricco e malato, che s'invaghisce dell'avvenenza di Abby. Bill la convince a cedere alla sua corte ed a sposarlo, per garantire condizioni di vita dignitose a tutti e tre, ma, ben presto, la sua gelosia diventerà insostenibile e scoppierà la tragedia. Capolavoro di Malick che trasforma una squallida storia di disperati reietti in una saga rurale di stupefacente impaginazione estetica e dal potente respiro epico. L'incanto delle immagini è assoluto, per molti (me compreso) la fotografia di questo film, curata da Nestor Almendros, è la più bella mai vista sul grande schermo ed il connubio con la raffinata colonna sonora di un ispiratissimo Ennio Morricone regala momenti di assoluta poesia, tra i più alti nel cinema del Maestro texano. Rappresentato come una sontuosa opera pittorica di superiore espressività artistica, è un melodramma introspettivo sospeso tra opportunismo e ribellione, cinismo e feudalesimo. Ma la sua componente più intima ha a che fare con la rottura: lo strappo tra ordine sociale ed ordine naturale, già visto, a livello seminale, nel precedente Badlands. Malick è un poeta delle immagini, in cui la sospensione simbolica viaggia insieme all'incanto visivo, e quando questo si traduce in concreta densità espressiva abbiamo il capolavoro, come in questo caso. E' il suo film migliore dopo The thin red line.

Voto:
voto: 5/5

Quell'oscuro oggetto del desiderio (Cet obscur objet du désir, 1977) di Luis Buñuel

Il vecchio borghese Mathieu ama follemente Conchita che lo mantiene al guinzaglio di un prorompente desiderio sessuale mai completamente appagato. Un po' gattina e un po' maliarda la donna un po' si nega e un po' si dà, ma non concede mai totalmente ciò che l'uomo brama con tutto sè stesso. Tra liti e passione la tormentata relazione prosegue, toccando i vertici del grottesco. Straordinaria opera ultima del Maestro Buñuel, che ci regala il suo film-testamento come suggello definitivo della sua arte. Liberamente tratto dal romanzo La donna e il burattino di Pierre Louÿs, è un racconto onirico a più livelli denso di simboli, metafore, trappole narrative, ribaltamenti di evidente natura psicoanalitica. Ad un certo livello può essere letto come disordinato apologo sul desiderio sessuale non corrisposto e, quindi, sulla frustrazione che ne deriva e che diviene, inconsciamente, rottura dell'io e perdita del senso di "realtà". Ma, come sempre in Buñuel, tutto è assai più ambiguo, più complesso, al punto che cercare di "spiegare" razionalmente il film significa mortificarne la portata visionaria e la natura surreale. Geniale la scelta di ribaltare il senso del romanzo ispiratore, mostrando gli "eventi" dal punto di vista del "burattino". Il personaggio femminile di Conchita, oggetto e fonte del desiderio del titolo, è interpretato da due attrici diverse, Carole Bouquet e Ángela Molina, a seconda del differente livello di percezione della "realtà" da parte del protagonista Mathieu (Fernando Rey). La libertà espressiva e la straordinaria capacità di controllo della materia filmica raggiunte dal grande regista spagnolo non possono che suscitare ammirazione. Forse solo Pier Paolo Pasolini e John Huston hanno chiuso la loro carriera con opere di analoga grandezza e di altrettanta incisività simbolica.

Voto:
voto: 4,5/5

La piscina (La Piscine, 1969) di Jacques Deray

Jean Paul e Marianne sono due amanti che trascorrono dei giorni di vacanza in una lussuosa villa con piscina a Saint-Tropez. Qui vengono raggiunti dal piacente Harry, ex fiamma di Marianne, e dalla splendida figlia diciottenne dell'uomo, Penelope. La calura estiva, l'avvenenza dei quattro e la situazione stimolante darà il via ad una serie di incroci amorosi che faranno crescere la tensione tra i due uomini, con inevitabile tragedia finale. Torbido dramma erotico in cui il gioco delle coppie, che si incontrano e si scontrano, è solo il pretesto per dissimulare fallimenti, antichi rancori, debolezze e delusioni mai sopite. Ben poco viene spiegato allo spettatore perchè il film è tutto giocato sulle atmosfere, sull'ambiguo e sul non detto, attraverso personaggi simbolici e monodimensionali che funzionano meglio nel gioco d'insieme. La regia di Deray è compita nell'assecondare la sensualità degli attori ed il meccanismo della suspense regge bene fino ad un finale che lascia interdetti. A parte le splendide protagoniste, Romy Schneider e Jane Birkin, da segnalare Alain Delon all'apice del suo fascino "maledetto". Ha i suoi ammiratori ma è un film riuscito solo a metà. Il nostro Luca Guadagnino ne ha tratto un recente remake: A bigger splash (2015).

Voto:
voto: 3,5/5

Bande à part (Bande à part, 1964) di Jean-Luc Godard

Arthur e Franz sono giovani, scapestrati e amici per la pelle. Entrambi amano Odile, che si concede generosamente a tutti e due e non disdegna di aiutarli nell'esecuzione di un piano criminoso: rapinare la sua vecchia zia che tiene con sé tutti i suoi risparmi. Ma il colpo finisce nel sangue e il triangolo amoroso è costretto a sciogliersi. Tratto da un racconto noir (Fool's Gold) di Dolores Hitchens, fu girato da Godard con pochi mezzi, spirito "amatoriale" ed una consapevole aria da B movie. Film briccone animato da personaggi bricconi, irresistibili canaglie intrise di disarmante malinconia e di quella sfacciata impudenza tipica dei giovani francesi degli anni '60. Frammentario nella struttura ed incerto nella direzione, divenne uno dei simboli più vividi della Nouvelle Vague, a causa della contagiosa carica energica irradiata dai tre protagonisti e dell'estro burlesco di Godard che sa trasformare una squallida storia di follia giovanile in un disinvolto elogio della ribellione, sospeso tra poetico e populista. Film di culto per cinefili e cineasti, ad esempio Quentin Tarantino che ne ha scelto il titolo come nome della sua casa di produzione o che ne ha rifatto, pari pari, la scena del ballo in Pulp Fiction. Ed anche il "sodale" Bertolucci ha pagato il suo definitivo tributo al maestro Godard omaggiando ripetutamente il film nel recente The dreamers. La celeberrima scena della visita "di corsa" al Louvre fu aggiunta da Godard per allungare "il brodo", vista l'esigua durata della pellicola.

Voto:
voto: 4/5