domenica 13 novembre 2011

Stalker (Stalker, 1979) di Andrej Tarkovskij

In una remota e desolata area industriale è accaduto uno strano fenomeno: "qualcosa" è caduto dallo spazio ed ha scatenato forze misteriose. L'area, da tutti denominata "la Zona", viene prontamente recintata ed isolata dalle autorità che impediscono a chiunque di entrarvi e cercano di far calare la cortina del silenzio sugli strani fenomeni. Gli unici che riescono ad intrufolarsi nella Zona sono gli "stalker", ovvero degli esploratori furtivi e clandestini, che si offrono di accompagnare persone all'interno dell'area misteriosa in cambio di denaro. Uno scienziato ed uno scrittore decidono di entrare nella Zona, guidati da uno stalker, per raggiungere la così detta "camera dei desideri", di cui molti vociferano, ovvero un luogo posto nel cuore dell'area recintata, in cui qualunque desiderio di colui che ci entra può essere esaudito. Liberamente tratto dal racconto "Picnic sul ciglio della strada" (1971) dei fratelli Arkadij, "Stalker" è un fosco ed enigmatico apologo sulla fede, sulla ricerca della conoscenza e sull'amara presa di coscienza del fallimento del modello intellettuale di interventismo nella Storia (sovietica ma non solo). Come sempre, in Tarkovskij, siamo di fronte ad un cinema alto, poetico, astratto, che cerca nell'inquietante bellezza delle immagini di trovare il senso intimo delle cose, adottando il linguaggio dei simboli e delle metafore. Ad esempio la Zona rappresenta, evidentemente, la Vita ed il viaggio dei tre attraverso di essa è il percorso dell'Uomo alla ricerca del proprio cammino. La trama e la premessa su cui si regge la vicenda sono, evidentemente, di fantascienza, ma, come già successo nel più famoso e celebrato "Solaris" (1972), l'Autore si spinge ben oltre i confini dei generi per dar vita ad un affascinante affresco distopico distorsivo che mette al centro di tutto l'uomo, la sua condizione, la sua spiritualità, le sue pulsioni ed il suo misterioso destino. Il film si gioca anche sul contrasto, volutamente messo in risalto, tra gli ambienti grigi, ipnotici e quasi "distanti" nella loro silente sospensione ed i dialoghi di matrice filosofico intellettuale tra lo scienziato e lo scrittore. Ma è la loro controparte, il silenzioso e misterioso "stalker", il vero protagonista del film, che parla per aforismi ma che dimostra di essere il più puro, il più vicino alla "conoscenza" ed il depositario della fede. Il loro viaggio iniziatico e, a suo modo, purificatore, è un'amara presa di coscienza dei limiti umani, del cinismo imperante e della meschinità che lo contraddistingue; ma è, anche, la constatazione che la semplicità e l'ammissione della propria debolezza sono l'unica "salvezza" possibile contro il Mistero dell'Ineffabile. Anche il finale, potente, astratto ed ermetico, contiene un sottile messaggio di "speranza", come sottolineato dal commento musicale, l'Inno alla Gioia di Beethoven.

Voto:
voto: 5/5

sabato 12 novembre 2011

Lo specchio (Zerkalo, 1975) di Andrej Tarkovskij

Un uomo in punto di morte rievoca i ricordi della sua vita attraverso due vicende complementari che, pur traslate in tempi diversi, sembrano sovrapporsi per affinità emotive. Nella prima c'è il se stesso bambino, che subisce l'abbandono paterno e vive un'infanzia sofferta con la madre e la sorellina. Nella seconda c'è il se stesso adulto che lascia la moglie ed il figlio. Per aumentare la vis drammaturgica e la valenza simbolica, la stessa attrice interpreta prima la madre e poi la moglie del protagonista nelle due diverse età, così come lo stesso piccolo attore interpreta il protagonista bambino e poi suo figlio. Tra tutti i film di Tarkovsky questo è, senza dubbio, il più autobiografico, il più sentito, il più complesso, il più poetico. Appare evidente fin dall'inizio che l'Autore parli di se stesso e della sua vita: il film è, infatti, una specie di diario astratto in forma artistica. Il protagonista Aleksei è il regista stesso che si abbandona alle sue memorie, cercando di tracciare un bilancio della sua esistenza, giunto nella fase della "mezza età". In una meravigliosa elegia dai molti toni e dalle molteplici suggestioni si alternano presente e passato, sogno e realtà, ricordi e rimpianti, incanto e senso di colpa, dando vita ad una sorta di odissea spirituale in cui la Storia è lo sfondo tragico e la memoria è l'humus vitale. Pur avendo l'intimità e l'ermetismo di un diario personale, "Lo specchio" riesce ad elevarsi, stilisticamente ma non solo, bene al di sopra di tutto questo ed a volare alto, raggiungendo la sublime poesia e la forza possente dei sentimenti universali. E' impossibile resistere al fascino di questo film che ci conduce, attraverso un flusso visionario di immagini, stili, tematiche e sensazioni, nell'analisi metafisica di una vita, descritta attraverso immagini (e figure) che prima divergono e poi convergono, fino a sovrapporsi, simmetricamente, come in uno specchio. Anche nel suo film più lirico il grande regista non rinuncia al suo impegno politico: emblematica la visione fornita dell'Unione Sovietica, anche grazie al sapiente inserto di immagini documentaristiche, come perenne teatro di guerre e tragedie sociali. Straordinaria, per senso poetico e densità evocativa, la prima scena della pioggia in casa che ci immerge subito nel senso più intimo del film. Eccellente la fotografia, che mescola il colore al bianco e nero. Un'esperienza indimenticabile di alto magistero simbolico figurativo.

Voto:
voto: 4,5/5

lunedì 7 novembre 2011

Andrej Rublëv (Andreij Rubliov, 1966) di Andrej Tarkovskij

Nella Russia medioevale, sconquassata dalle invasioni di popoli asiatici e da faide intestine, si racconta la vita del monaco Andrej Rublëv, il più grande pittore di icone della Cristianità. Ambientato nei primi anni del 1400 e diviso in 8 capitoli (più un prologo ed un epilogo), è una grandiosa epopea storica, di stile prezioso e di sontuosa magnificenza visiva, che si erge a metafora del potere dell'Arte di eternare gli umani, cambiare la storia e piegare la tirannia. E' il miglior film del Maestro Tarkovskij ed uno dei Capolavori assoluti della Storia del Cinema. Il prologo, apparentemente sconnesso, ci mostra un uomo di nome Yefim che, novello Icaro, prepara una mongolfiera e si lancia in volo dal tetto di una chiesa per poi precipitare al suolo. Nei capitoli successivi (Il buffone, Teofane il Greco, La passione secondo Andrej, La festa, Il giudizio universale, La scorreria, Il silenzio, La campana) ci viene mostrata, con lucido realismo, la vicenda umana ed artistica di Andrej Rublëv, che ora appare come spettatore, ora come protagonista, ora come presenza evocata. L'epilogo (a colori) è la degna chiosa: ci vengono presentate le opere del pittore, a sugellarne la grandezza per l'eternità. Come tutti i capolavori il film presenta diverse chiavi di lettura, anche politiche, ad esempio trasuda il chiaro dissenso dell'Autore verso la politica oligarchica dell'Unione Sovietica degli anni '60. Non a caso fu boicottato dalle autorità sovietiche che ne ritardarono a lungo l'uscita. E' sicuramente il più grande film russo mai realizzato: minuzioso, epico, poetico, possiede la solennità di un trattato teosofico e la densità espressiva di un poema storico.

Voto:
voto: 5+/5

giovedì 3 novembre 2011

Amanti perduti (Les enfants du paradis, 1945) di Marcel Carné

In una compagnia di attori della Parigi ottocentesca riscuote grande successo il mimo Baptiste, uomo romantico e sensibile, che s'innamora perdutamente di Garance, donna tanto bella quanto ambigua. Per un po' la donna ne corrisponde l'amore, pur non comprendendo mai appieno la portata del romanticismo del mimo, ma, ben presto, lo lascia per un famoso attore e poi per un ricco conte. Baptiste si sposa, senza amore, con Nathalie e raggiunge l'apice del successo teatrale, ma un giorno ritrova Garance che assiste ad un suo spettacolo. E la fiamma si riaccende, più violenta di prima. Scritto dal regista Marcel Carné insieme al poeta Jacques Prévert, ispirandosi alle vicende di un vero attore mimo dell'800, "Amanti perduti" è uno dei più grandi e struggenti melodrammi della Storia del Cinema. La lavorazione del film fu lunga e travagliata: iniziata nel 1943 dovette interrompersi più volte a causa della guerra, facendo lievitare enormemente i costi di produzione. Venne girato tra Parigi e Nizza, dove fu ricostruito in studio il Boulevard du Crime. Uscì nelle sale francesi subito dopo la fine della guerra diviso in due episodi, Boulevard du Crime e L'Homme blanc, e fu subito un grande successo, malgrado le pesanti critiche del comitato di liberazione nazionale. Per l'edizione italiana ed americana, Carnè montò il film in un unico episodio, accorciandolo a circa 100', con il titolo "Amanti perduti". In ogni caso è possibile reperire anche la versione originale dell'opera. Melodramma romantico di ampio respiro e di sontuosa impaginazione, si ispira al periodo parigino di Victor Hugo, ricostruendolo con estrema dovizia di particolari. Abbraccia generosamente il concetto shakespeariano di fusione tra arte e vita, realtà e palcoscenico, giocando abilmente sull'antinomia tra persona e personaggio. Costruito ad arte su un sottile equilibrio di opposti, alterna e mescola tragedia e commedia, grottesco e sublime, incanto e disperazione. Stilisticamente sobrio ed essenziale, riesce a trasmettere la vitale forza dei sentimenti attraverso lo straordinario personaggio del mimo Baptiste Debureau (Jean-Louis Barrault) che incanta, commuove e fa sognare il pubblico, sia quello "finto" nel teatro sia quello "vero" al di qua dello schermo. Le scene degli incontri tra Baptiste e Garance sono tra le più struggenti e palpitanti sequenze d'amore viste sul grande schermo. Capolavoro assoluto del genere romantico, mantiene intatta, ancora oggi, la sua forza poetica senza tempo.

Voto:
voto: 5+/5

L'anno scorso a Marienbad (L'année dernière à Marienbad, 1961) di Alain Resnais

Un lussuoso albergo della Mitteleuropa. Una donna accompagnata da un sinistro marito. Un uomo misterioso che cerca di indurla a fuggire via con lui, memore di una promessa fattagli l'anno precedente a Marienbad. Ma lei, seppur turbata, sembra non ricordarsi di lui e di questo precedente incontro. O, magari, finge. Chi dei due avrà ragione ? Film stupefacente, spiazzante, ellittico, astratto, privo di punti di riferimento, ma di incredibile fascino visivo e dalle indimenticabili atmosfere oniriche e stranianti. E' un viaggio visionario attraverso tempo, spazio e memoria, con un continuo inestricabile groviglio labirintico di questi tre elementi, che si mescolano, confondendosi e perdendosi, mutuamente, come gli enormi corridoi vuoti dell'Hotel che sfociano in ampi saloni da cui si dipartono nuovi corridoi, in un infinito gioco di rimandi e di ricorsioni. Due anni dopo il bellissimo "Hiroshima Mon Amour" (1959), Resnais riprende la sua meditazione sui temi del tempo, del sogno, della memoria e dell'impossibilità di discernerli in modo razionale, e porta alla massima esasperazione la sua poetica anti-narrativa destrutturando non solo l'impianto del racconto, ma la stessa sintassi cinematografica utilizzando nuove forme espressive, insomma meta-cinema. Lo spettatore si trova immerso (e perso) in ambienti statici, atmosfere immobili, personaggi (evidentemente simbolici, già dai nomi: A, X, M) sospesi in una sorta di limbo atemporale e le poche conversazioni sono sempre enigmatiche e poco comprensibili. La sensazione è quella di uno stream of consciousness alla Joyce per navigare, senza precise coordinate, nella memoria, nel sogno e nel tempo attraverso continui sbalzi del piano "narrativo". Nulla è chiaro, ma tutto è sospeso, evocato, sussurrato, intuito e poi nuovamente negato, come in un gioco di specchi opposti puntati sull'animo dei misteriosi protagonisti. Impossibile avere una fruizione logica e tradizionale di un film di questo tipo, bisogna, invece, abbandonarsi al flusso e lasciarsi trasportare (e incantare) dalla sua conturbante magia. Dal punto di vista tecnico ci troviamo di fronte ad un capolavoro: regia e fotografia straordinarie, immagini ambigue ed eleganti, movimenti di macchina lenti e sinuosi alternati a piani sequenza statici, luci tenuemente ovattate e musiche (d'organo) suadenti e misteriose. E il tutto concorre ad immergere, letteralmente, lo spettatore in questo limbo di onirica sospensione, un altrove indefinito al di là del tempo e dello spazio in cui ci si muove secondo gli oscuri percorsi della memoria.Ci sono anche rimandi e citazioni, più o meno nascoste, al grande cinema d'Autore europeo: principalmente Bergman ed Antonioni. La critica ne fu entusiasta per fascinazione, estetica e portata innovativa e lo premiò con il Leone d'Oro al Festival di Venezia del 1961. Il pubblico, invece, gradì di meno per l'ostico ermetismo e l'estrema lentezza della pellicola. Ciò che invece divenne "famoso", e di tendenza, fu il gioco dei fiammiferi, che compare nel film ed ha, ovviamente, un valore metaforico. L'impressione che tutto si possa ricondurre ad un mero esercizio di alto manierismo stilistico è, ovviamente, forte ma il film resta uno dei più affascinanti ed ipnotici esempi di cinema d'avanguardia. Col tempo il suo status di cult è aumentato, sebbene sia principalmente apprezzato da un pubblico cinefilo colto ed amante di un "cinema-altro". D'altra parte è impossibile avere mezze misure con un'opera del genere: o si prende o si lascia. Io prendo.

Voto:
voto: 5/5

mercoledì 2 novembre 2011

L'Atalante (L'Atalante, 1934) di Jean Vigo

Straordinaria opera seconda del regista di culto Jean Vigo, che morì di tisi, a soli 29 anni, appena un mese dopo la prima uscita del film. Fu giudicato troppo ardito e stravagante e, complice il fiasco assoluto delle prime proiezioni pubbliche, venne fatto a pezzi dalla produzione che lo scorciò di circa 20' e lo semplificò, edulcorandolo, cambiando finanche il titolo in "Le chaland qui passe". Fin dagli anni '40 ci sono stati diversi tentativi, alcuni dei quali riusciti, di riportare l'opera alla forma originaria, per una pellicola che appariva e scompariva ad intermittenza, da un decennio all'altro. Negli anni '90 è stato, finalmente, restaurato e restituito allo splendore originale voluto da Vigo, anche grazie alla spinta di molti registi della Nouvelle Vague. L'Atalante è un film romantico, probabilmente il migliore tra i film romantici, ma la sua estrema originalità, la sua ricercatezza formale ed il suo sovversivo surrealismo lo rendono anche una pietra miliare del cinema d'avanguardia. La storia (d'amore) è quella di Juliette e Jean che vivono su una chiatta, l'Atalante, che naviga attraverso i fiumi francesi. Esasperata dall'ossessiva gelosia del marito, Juliette decide di scendere a terra, attratta dal miraggio delle lumière parigine, mentre Jean riparte con l'Atalante. Ma, un giorno, i due amanti si ritroveranno. L'Atalante è sicuramente un unicum cinematografico, un'esperienza straniante, ammaliante, ipnotica, a tratti allucinata ma incredibilmente poetica. Costruito come un'opera di rottura che rifiuta ogni enfasi drammatica, in favore di un'eterea lievezza espressiva, è divenuto un insuperato modello di coesistenza tra il realismo, tipicamente zoliano, ed il surrealismo che aveva preso piede in quegli anni, anche come movimento cinematografico grazie a Bunuel. La sintesi delle due forme espressive, evidentemente antitetiche, dà vita a questa meravigliosa elegia della delicatezza e dell'incanto, in cui il surrealismo conferisce potenza immaginifica, e quindi liricità, al rigore realistico. Ma sotto questa coltre di trasognata lievezza, si nascondono anche conturbanti valenze erotiche, che testimoniano tutta la reale carica eversiva e la portata innovativa del film di Vigo. In Italia è particolarmente conosciuta (in quanto sigla del programma di Rai 3, "Fuori Orario") la sequenza subacquea, onirico/surreale, in cui Jean, disperato, si tuffa nel fiume e "vede" la sua Juliette in abito da sposa. E' indubbiamente un film non facile, per cinefili preparati, ma rappresenta un'esperienza davvero impossibile da dimenticare. Opera di culto da riscoprire.

Voto:
voto: 5+/5

L'infernale Quinlan (Touch of Evil, 1958) di Orson Welles

Ultimo film hollywoodiano del Maestro Orson Welles, è una delle vette  del cinema noir per virtuosismo stilistico, rigore formale, compattezza drammaturgica, scandaglio dei personaggi, invenzioni visive. Si apre con un magistrale piano sequenza di circa tre minuti che parte dal particolare di due mani che preparano una bomba e la posizionano in una macchina, per poi mostrarci un campo lungo di una cittadina di frontiera, con la macchina che ne attraversa le strade, mostrando tutti i personaggi principali della storia. Il lungo piano sequenza termina con l'automobile che esplode fuori campo. Scritto dallo stesso Welles adattando liberamente un romanzo pulp, "Badge of Evil" di Whit Masterson, il film narra la vicenda di Vargas (uno spaesato e poco convincente Charlton Heston), integerrimo poliziotto messicano dell'antidroga, che si trova in viaggio di nozze in una squallida cittadina al confine tra Stati Uniti e Messico. Qui Vargas avrà un incontro-scontro con il dispotico il capitano Quinlan (Welles), sbirro dal fiuto infallibile ma dalla dubbia morale e dai metodi poco ortodossi, che si ritiene al di sopra delle legge. Tra intrighi malavitosi e connivenze con il cartello della droga locale, le scintille tra i due uomini saranno inevitabili. Capolavoro del cinema nero che abbonda di invenzioni stilistiche, mirabilie estetiche, atmosfere malsane, ambiguità tematiche e personaggi straordinari. Su tutti il luciferino Quinlan-Welles, all'apice del suo titanismo barocco, e la magnetica chiromante interpretata da Marlene Dietrich. Anche stavolta la produzione (Universal) fece danni notevoli, giudicando il materiale girato da Welles troppo ardito ed intriso di perfido cinismo. Il risultato fu un taglio di circa 20' di pellicola con molte scene modificate o girate ex novo, per la regia di Harry Keller. Fortunatamente Walter Murch e Rick Schmidlin ne hanno curato il restauro negli anni '90 con un'edizione home video che ha riportato il film nella sua forma originale, voluta da Welles. Unica nota (ancora) stonata è l'improbabile Charlton Heston, effettivamente poco credibile come messicano, che venne imposto dalla produzione per il suo appeal divistico. Dei capolavori di Welles è, forse, il più apprezzato tra i cinefili.

Voto:
voto: 5/5

L'orgoglio degli Amberson (The Magnificent Ambersons, 1942) di Orson Welles

La ricca famiglia degli  Amberson del sud degli Stati Uniti vive con grande difficoltà l'inevitabile passaggio verso la società industriale sul finire del XIX secolo. Ai problemi finanziari si aggiungono le beghe familiari con la vedova Amberson che si scontra con il duro veto di suo figlio George, che si oppone al di lei matrimonio con una vecchia fiamma mai dimenticata, Eugene Morgan, divenuto un brillante imprenditore del settore automobilistico. Secondo film di Orson Welles, dopo il roboante esordio con "Citizen Kane", tratto dall'omonimo romanzo di Booth Tarkington. E' la storia di una ricca famiglia del sud degli Stati Uniti, a cavallo tra il 1800 ed il 1900, che viene travolta dai venti del cambiamento portati dalla rivoluzione industriale, ma anche dal peso delle convenzioni conformiste che impedisce la libera espressione di passioni e sentimenti. I produttori della RKO fecero letteralmente a pezzi il film, eliminando oltre 40' di pellicola e modificando il finale voluto da Welles con uno più rassicurante girato da Freddie Flick. Il futuro regista Robert Wise fu uno degli esecutori materiali dello scempio al montaggio. Welles decise di disconoscere il film, ruppe il contratto con la RKO ed iniziò la sua "guerra" personale agli studios che, nel giro di pochi anni, lo renderà un autore "maledetto" ed inviso al sistema delle major americane. Ma, anche in questo modo, l'opera seconda del geniale regista americano è un film straordinario: visivamente splendido, stilisticamente elegantissimo, ben più sobrio ed asciutto rispetto al mitico predecessore, ma ancor più duro e realistico, oltre che ricco di invenzioni stilistiche funzionali alla vicenda. Innovativo l'uso e l'esplorazione degli spazi scenici e dei tempi, oltre che del sonoro, per la prima volta analizzato in profondità attraverso una concorrenza di suoni, voci e rumori per accrescere il senso di realismo. Il genio Welles, stavolta, non compare come attore ma solo come voce fuori campo, e ci regala anche la chicca dei titoli di coda letti anzichè scritti. Da citare anche l'eccellente fotografia in B/N di Stanley Cortez e la grande interpretazione di Agnes Moorehead. Un capolavoro "perduto" e dimenticato da recuperare assolutamente.

Voto:
voto: 5/5