mercoledì 31 maggio 2017

Santa Sangre (Santa Sangre, 1989) di Alejandro Jodorowsky

Traumatizzato da un’infanzia a dir poco agghiacciante (sua madre ha evirato il marito adultero con l’acido e questi, prima di uccidersi, le ha tagliato entrambe le braccia), Fenix viene rinchiuso per vent’anni in una clinica di igiene mentale nel tentativo di curare la sua mente. Dopo essere riuscito a scappare, Fenix si riunisce alla madre che lavora in un circo itinerante dove i due mettono in piedi un numero macabro in cui il figlio “presta” le sue braccia alla madre, nascondendosi dietro il suo corpo. Psicologicamente posseduto dalla demoniaca donna, il giovane viene spinto a commettere atroci delitti a danno di giovani donne, in un insano desiderio di vendetta sanguinaria. Truculento horror grottesco in puro stile Jodorowsky, scritto insieme a Claudio Argento (fratello del più celebre Dario), che lo ha anche prodotto, e che mischia insieme, impudentemente, melodramma barocco, grand-guignol, trash e splatter a iosa, esoterismo macabro, genialità visionaria, aberrazioni oniriche, anacronismo bizzarro, narcisismo esasperato, più una miriade di citazioni al cinema del passato che vanno da Fellini a Hitchcock, dai gialli all’italiana degli anni ’70 ai freaks. C’è tanto, e forse troppo, in questo minestrone un po’ indigesto per palati forti, distorto e sregolato, ma non privo di oscuro fascino visivo e spesso soccorso dalla pia mano di una perfida ironia nera. Insomma è puro Jodorowsky, un po’ genio e un po’ cialtrone, consigliabile unicamente agli amanti del cinema underground o weird. Memorabile (e al tempo stesso ripugnante) la sequenza del funerale dell’elefante.

Voto:
voto: 3,5/5

Fa' la cosa giusta (Do the Right Thing, 1989) di Spike Lee

Durante una giornata estiva di caldo torrido, sulla Bedford-Stuyvesant di Brooklyn, tutto sembra svolgersi normalmente nel quartiere popolare, a maggioranza “nera”, che mescola etnie diverse. Il centro nevralgico è la pizzeria italiana di Sal e dei suoi figli Pino e Vito, mentre il cuore pulsante è una stazione radio che trasmette black music “cazzuta” di aspra protesta sociale. Un banale litigio scatena, al calare della notte, un violento tumulto a sfondo razzista, riaccendendo vecchi rancori razziali che sembravano da tempo dimenticati. Veemente film di denuncia sociale e feroce atto d’accusa contro le discriminazioni razziali, realizzato da Spike Lee con lucido senso drammaturgico, solida maturità espressiva, sottile analisi sociologica di quel grande pentolone etnico chiamato America, eccellente compattezza narrativa e, soprattutto, una limpida requisitoria antirazzista che non fa una piega nella sua coerenza e che non indulge mai nella retorica o nel populismo dozzinale. La brutalità dei modi (necessaria alla presentazione di un quadro antropologico veristico) non intacca il rigore della disamina, né inficia l’evidente vicinanza emotiva dell’autore verso i suoi personaggi o l’indignazione nei confronti delle ingiustizie. A prescindere dal colore della pelle. E’ un film importante, necessario, forte e “bollente”, efficace fotografia del calderone razziale nord americano. Alla sua uscita fu un vero pugno allo stomaco e suscitò un mare di polemiche (strumentali) per il suo acido accento critico verso il capitalismo, i mass media e gran parte della società americana, al punto che molti lo accusarono di incitamento ai disordini violenti nei confronti della comunità afroamericana e di dividere ulteriormente i bianchi dai neri. Nonostante le tante accuse piovute sul regista, il film fu molto apprezzato in Europa dove ricevette larghi consensi per il suo impeto polemico, per la sua energia critica e per il suo verace realismo. Piaccia o meno è uno dei manifesti più sinceri e autorevoli del cinema di strada di Spike Lee. La canzone tormentone della pellicola, “Fight the Power” dei Public Enemy, riscosse un notevole successo e lo stesso Lee ne diresse il videoclip dopo aver finito le riprese del film. Grande prova d’insieme del cast che annovera Danny Aiello (candidato all'Oscar come miglior attore non protagonista), Ossie Davis, John Turturro, Richard Edson, Spike Lee, Giancarlo Esposito, Bill Nunn e Samuel L. Jackson.

Voto:
voto: 4/5

Z - L'orgia del potere (Z, 1969) di Costa-Gavras

In un imprecisato paese mediterraneo, dove vige una pseudo democrazia che in realtà nasconde metodi dittatoriali, un deputato dell’opposizione di sinistra viene assassinato in un finto incidente automobilistico. Il complotto è stato organizzato a regola d’arte da esponenti della polizia che si sono serviti di una organizzazione di estrema destra per commettere l’omicidio. Lo zelante magistrato che si occupa delle indagini fiuta subito il marcio, si batte come un leone contro i tentativi di insabbiamento che arrivano dall’alto e, con l’aiuto di due testimoni, incrimina alti rappresentanti delle istituzioni statali, sollevando un polverone che ricopre di scandalo persino il governo. Ma riuscirà davvero a far prevalere la giustizia ? Dal romanzo del 1966 di Vassili Vassilikos, Costa-Gavras ha tratto un oscuro apologo sui mali del potere, appassionante e teso, girato abilmente “all’americana” con tensione martellante, effetti spettacolari e stacchi di montaggio per favorire il ritmo dell’azione. Nonostante questo i contenuti sono tutti assimilabili al cinema europeo, con scandaglio psicologico, lettura critica della storia, perfida analisi sociale, attenzione al dettaglio, interpretazioni introspettive. Fu un grande successo di pubblico e critica, lodato e celebrato, e vinse molti premi importanti: due Oscar (miglior film straniero e montaggio) e due premi al Festival di Cannes (il Premio della giuria e quello alla miglior interpretazione maschile per Jean-Louis Trintignant). Grande il cast con Yves Montand, Irene Papas, Jean-Louis Trintignant, Jacques Perrin, Charles Denner ed il nostro Renato Salvatori. Viene unanimemente considerato uno dei modelli più alti del cinema politico, eppure c’è la chiara sensazione che qualcosa di artistico si perda nell’efficace analisi “a tesi” portata avanti come un treno nella notte dal regista, che si è chiaramente ispirato al golpe greco del 1967 ed alla successiva repressione portata avanti dalla così detta “dittatura dei colonnelli”. L’enfasi della denuncia è così evidente da superare, a volte, i livelli di guardia. Probabilmente un approccio più surreale e visionario (alla Petri, per intenderci) avrebbe giovato. Resta comunque un importante documento storico e politico di indiscutibile forza e legittimità etica. Il titolo originale (la lettera Z) vuol suggerire (in assonanza dal greco antico) la frase “lui è vivo”, alludendo all’omicidio del deputato, chiaramente ispirato alla figura di Gregoris Lambrakis, politico di sinistra ucciso a Salonicco da militanti della destra nel 1963.

Voto:
voto: 4/5

Femmina folle (Leave Her to Heaven, 1945) di John M.Stahl

Ellen Berent, giovane e bella ereditiera, si invaghisce dello scrittore Richard Hartland e, in breve tempo, lo seduce e lo sposa. Dopo i primi tempi sereni e felici, la donna inizia a rivelare un carattere nevrotico e possessivo, attraverso un insano sentimento di gelosia morbosa sempre crescente che la spinge ad eliminare tutti quelli che la sua mente disturbata individua come possibili “rivali” nel rapporto con il marito. Giunta all’apice della sua follia distruttiva, Ellen concepisce un diabolico piano per darsi la morte ma far ricadere la colpa su un’altra donna, che lei vede come vittima da colpire nel suo delirio. Celebre melodramma psicologico degli anni ’40, carico di malia oscura, fascino perverso, atmosfere torbide, un modello di cinema dei cattivi segmenti che spesso sconfina nel thriller. Il suo impatto selvaggio e la sua estetica delirante (riassunta nella fotografia “distorta” di Leon Shamroy, premiata con l’Oscar) ne decretarono il successo di pubblico, ma il vero punto di forza è la straordinaria interpretazione di Gene Tierney, bella da fare male e spaventosamente credibile nel suo ruolo eccessivo. Leggenda vuole che la Tierney avesse realmente avuto, nella sua vita, problemi di salute mentale, al punto da doversi addirittura ricoverare per un certo periodo. Da questa drammatica esperienza personale l’attrice ha sicuramente tratto molti elementi da utilizzare nella sua scioccante interpretazione in Femmina folle. Completano il cast Cornel Wilde, Jeanne Crain e Vincent Price. Due i punti deboli più evidenti dell’opera: l’inviluppo della trama finisce per aggrovigliarsi in eccessi poco credibili e la fragile presenza scenica del partner maschile Cornel Wilde che non riesce a giustificare in alcun modo la sconsiderata attrazione della donna nei suoi confronti. Si sa che l’amore è cieco ma a tutto c’è un limite. Va poi steso un velo pietoso sul banalissimo titolo italiano che disperde totalmente la tragica bellezza dell’originale.

Voto:
voto: 3,5/5

I migliori anni della nostra vita (The best Years of Our Lives, 1946) di William Wyler

Dopo la fine della seconda guerra mondiale tre reduci tornano a casa, ma il tanto agognato rientro non sarà né facile né felice come previsto. Homer Parrish, invalido per aver perso entrambe le mani, sopporta a fatica l’atteggiamento pietoso della fidanzata, che cerca di proteggerlo dagli sguardi indiscreti della gente. Al Stephenson è scosso da profonde crisi di coscienza e, nonostante l’affetto dei familiari e la ripresa del suo vecchio lavoro in banca, non riesce più ad avere rapporti sereni con gli altri. Fred Derry, già provato dagli orrori del conflitto, deve fare i conti con il tradimento della moglie che lo ha prontamente rimpiazzato. Dal romanzo “Glory for me” di MacKinley Kantor, Wyler ha tratto uno strepitoso dramma sentimentale, lucido, amaro e struggente, la cui capacità di trattare (per la prima volta a questi livelli) il problema dei reduci bellici (spesso ignorato o sottovalutato) ha fatto epoca, segnando la nascita di un nuovo nobile modello di riferimento nella storia del cinema americano. Alla sua uscita spiazzò e commosse il pubblico, ma scosse le coscienze e accese i riflettori su una realtà scomoda e difficile, quasi sempre relegata nel doloroso silenzio delle famiglie coinvolte. Nonostante qualche passaggio accademico e qualche prolissità, è un film forte, importante, complesso, fiero e giusto, abilissimo nel mantenere l’equilibrio tra compassione e indignazione. Memorabile la fotografia di Gregg Toland, che si avvale di specchi e superfici riflettenti per suggerire una lettura introspettiva delle immagini, a diversi livelli di emotività. Eccellente il cast nel suo insieme con Myrna Loy, Fredric March, Dana Andrews, Michael Hall, Teresa Wright e Virginia Mayo. Vinse sette oscar “pesanti”: miglior film, regia, Fredric March attore protagonista, Harold Russell attore non protagonista, sceneggiatura, montaggio e colonna sonora. E’ stato uno dei primi film hollywoodiani a mettere l’America faccia a faccia con il lato oscuro del suo apparente (e sbandierato) benessere sociale.

Voto:
voto: 4,5/5

La voce nella tempesta (Wuthering Heights, 1939) di William Wyler

Dal celebre romanzo “Cime tempestose” (1847) di Emily Brontë, storia di un amore intenso e tormentato: Heathcliff è un trovatello che viene raccolto dalla strada dal Sig. Earnshaw, che lo accoglie in casa sua per farlo crescere insieme ai suoi figli, Cathy e Hindley. Una volta diventati grandi Heathcliff e Cathy si innamorano follemente, ma sono costretti a tenere segreta la loro sconveniente relazione, mentre Hindley, divenuto insolente e dispotico dopo la morte del padre, prova un odio viscerale nei confronti del fratellastro. Costretta a sposare il rampollo di una ricca famiglia della zona, Cathy provoca l’ira di Heathcliff che fugge via maledicendola, per poi tornare, dopo diversi anni, ricco e ben vestito, al punto da comprare la residenza degli Earnshaw da Hindley, divenuto nel frattempo un misero alcolizzato. Per far ingelosire Cathy, che intanto ha sposato il facoltoso Edgar Linton, il nostro corteggia e seduce l’ingenua sorella di  Edgar. Le azioni di Heathcliff innescheranno una sequenza imprevista di eventi tragici. Ma i grandi amori infelici, a volte, sopravvivono anche dopo la morte dei due spasimanti, sotto forma di leggende o di voci dall’aldilà che urlano nella tempesta. Imponente dramma sentimentale di Wyler di grande atmosfera e di potente suggestione ipnotica. Gli sterminati spazi della brughiera nebbiosa, gli ambienti austeri e decadenti, il rigido immobilismo delle convenzioni sociali e la meschinità della natura umana finiscono per mortificare, e spezzare, il sentimento forte e puro dei due amanti, la cui separazione sarà ferocemente brutale nei suoi infausti esiti. Pur attutendo la forza impetuosa del romanzo della Brontë (che è stato adattato ben sette volte per il cinema o per la televisione), il film di Wyler è un vero capolavoro di romanticismo gotico, carico di simboli arcani e di una velata sensualità che striscia sotto pelle, rendendolo un memorabile affresco malinconico sul potere dell’amore. Grandi gli interpreti, con Laurence Olivier sugli scudi accompagnato da un cast in grande spolvero che annovera Merle Oberon, David Niven, Flora Robson, Donald Crisp e Geraldine Fitzgerald. Vinse solo l’Oscar alla fotografia su sette nomination complessive.

Voto:
voto: 4,5/5

La vita è meravigliosa (It's a Wonderful Life, 1946) di Frank Capra

George Bailey è un brav’uomo che ha sempre vissuto una vita onesta, all’insegna della rettitudine, del lavoro, del decoro, della famiglia e dell’altruismo verso gli altri. Il nostro non è però mai stato particolarmente fortunato e, dopo aver cercato in tutti i modi di mandare avanti l’attività del padre, morto prematuramente, si trova ora con gravi problemi finanziari. Depresso e sconfortato, pensa di suicidarsi gettandosi da un ponte la notte della vigilia di Natale. Ma il suo angelo custode gli appare sotto forma di simpatico vecchietto che gli mostra cosa sarebbe successo se lui non fosse mai venuto al mondo. Dopo questa incredibile visione di un ipotetico futuro, George ritrova la fiducia in sé stesso e capisce che, in fondo, “la vita è meravigliosa”. Celeberrima commedia fantastica di Frank Capra, adorato da intere generazioni, unanimemente considerato tra i capolavori del cinema sentimentale per famiglie, è, senza dubbio, il più famoso e il più visto tra i film di Natale, con innumerevoli tentativi di imitazione. E’ anche il manifesto più puro del cinema di Capra, all’insegna dei buoni sentimenti edificanti, della celebrazione del Sogno americano e dell’esaltazione di tutte quei piccoli valori quotidiani (solidarietà, altruismo, ottimismo) che consolidano l’utopia della comunità operosa e felice. Traboccante di ingenuo sentimentalismo e di buonismo trasognato, in accordo all’estetica dell’autore, va letto come una favola “miracolosa” che converte il dramma in commedia, che mescola risate e lacrime e che si avvale di un cast sontuoso in cui James Stewart fa ampio sfoggio di tutta la sua naturale eleganza, fiera incarnazione dell’americano medio. Lo affiancano con lodevoli interpretazioni Donna Reed, Lionel Barrymore, Thomas Mitchell, Henry Travers e Samuel S. Hinds. Nonostante alcune perplessità iniziali alla sua uscita (su cinque candidature agli Oscar non raccolse nessun premio), il film ha avuto riscontri sempre crescenti anche a livello di impatto culturale. Già pochi anni dopo la sua distribuzione divenne, in America, un sinonimo del Natale, amatissimo dalla famiglie per il suo messaggio conciliante e il suo spirito ottimistico. Oggi è ritenuto un grande classico del cinema positivistico americano e il testamento spirituale del sognatore Frank Capra.

Voto:
voto: 4/5

Vite vendute (Le salaire de la peur, 1953) di Henri-Georges Clouzot

Guatemala, 1951: nel miserabile villaggio di Las Piedras, tormentato da fame e malattie infettive, quattro avventurieri sbandati (un italiano, due francesi e uno scandinavo) accettano di fare un pericoloso viaggio di 600 Km. con due autocarri, attraverso foreste e terreni accidentati, per trasportare un carico di 900 chili di nitroglicerina (un micidiale esplosivo che può saltare facilmente in caso di urti o scossoni). Lo scopo della missione, apparentemente suicida, è quello di usare la nitro per spegnare, tramite seppellimento, un vasto incendio ad un pozzo petrolifero in fiamme. Capolavoro della suspense di Henri-Georges Clouzot, tratto dall’omonimo romanzo di Georges Arnaud, è un modello memorabile di cinema della tensione, scandaglio psicologico dei personaggi, epopea dei perdenti, attenzione maniacale al dettaglio, apologia della sconfitta. Pervaso da un senso ineluttabile di cupo pessimismo, ma anche da una sottile vena di umorismo nero, è un affresco tetro di anime tormentate in fuga da un passato difficile che si ritrovano in un inferno, in cui la morte e la vita coesistono separate dal tenue filo dell’assurdo. La lunga parte introduttiva, che occupa quasi metà del film, è il lento preludio all’angosciante discesa negli inferi della seconda parte, che mantiene lo spettatore letteralmente incollato alla poltrona per la sua intera durata. Splendida la fotografia di Armand Thirard, ottimo il cast che annovera Yves Montand, Charles Vanel, Folco Lulli e Peter van Eyck e regia implacabile nel suo rigoroso cinismo per dar vita ad un insuperabile modello di cinema avventuroso ad alto rischio. E’ il film più personale e sentito dell’autore, che fu premiato al Festival di Cannes (Grand Prix du Festival) ed al Festival di Berlino (Orso d’oro al miglior film). Il film uscì nelle sale italiane con diversi tagli nelle scene non doppiate, in cui gli attori recitavano in lingue diverse. Nella versione home video queste scene sono state finalmente reintegrate, ancora non doppiate ma sottotitolate nella nostra lingua. Vite vendute ha avuto un remake nel 1977, Il salario della paura, diretto da William Friedkin.

Voto:
voto: 5/5

Scarpette rosse (The Red Shoes, 1948) di Michael Powell, Emeric Pressburger

La giovane ballerina Vicky Page è combattuta tra l’amore per il compositore Julian Craster e quello per la danza, dove la nostra eccelle grazie alla guida esperta del direttore Boris Lermontov che stravede per le sue qualità. Lermontov sottopone Vicky ad un duro allenamento e ad una ferrea disciplina, facendola diventare una stella di prima grandezza come protagonista del balletto “Scarpette rosse”, tratto da una favola di Andersen. Per amore di Craster Vicky si lascia convincere di abbandonare il suo maestro e il ballo, ma poi si pente amaramente e, identificandosi totalmente con il suo personaggio, si arrende alla sua ultima danza. Splendido melodramma fiammeggiante della coppia Powell e Pressburger, emozionante, raffinato, a tratti poetico, romanticamente sognante ma mai ingenuo, intimamente feroce, visivamente ricchissimo e denso di inventiva nell’utilizzo espressivo dei colori o nei movimenti di macchina avvolgenti che inducono una dimensione da fiaba onirica. E’ il film più famoso e di maggior successo dei due autori, un cult adorato da intere generazioni di spettatori, cinefili e registi e che viene unanimemente considerato come il miglior film sul mondo del balletto della Storia del Cinema. Sperimentale e vertiginoso, anticonvenzionale e commovente, un po’ incanto e un po’ incubo, appassionò e sconvolse il pubblico per la potenza crudele del suo messaggio: l’arte può condurre alla morte se vissuta con totalizzante intensità emotiva. Abilissimo nel miscelare i toni della narrativa popolare con un suggestivo uso del fantastico, che trova il suo tripudio nelle splendide sequenze di ballo surreali in cui arte e vita si confondono vicendevolmente, sa porre, quasi profeticamente, questioni ancora attualissime come il contrasto tra amore e carriera. Vinse due Oscar (scenografia e colonna sonora) e si avvale di un cast (Moira Shearer, Anton Walbrook e Marius Goring) in cui ogni pedina è collocata al posto giusto. E’ un capolavoro senza tempo che non ha perso un grammo della sua forza espressiva, capace di incantare e di inquietare oggi come allora.

Voto:
voto: 5/5