martedì 27 dicembre 2016

Animali notturni (Nocturnal Animals, 2016) di Tom Ford

Susan è una gallerista di successo, ricca, elegante, impeccabile nella facciata ma afflitta dai rimorsi e dai turbamenti di una vita privata fallimentare. Un giorno riceve per posta il manoscritto del nuovo romanzo, intitolato “Animali notturni”, dell’ex marito Edward, da lei cinicamente lasciato molti anni prima per il più avvenente e vincente Hutton, con cui adesso è infelicemente sposata. La donna si immerge nella lettura del libro, a lei dedicato, e viene travolta da una tempesta di ricordi e di emozioni provocate dall’atroce vicenda in esso raccontata. Cupo dramma borghese narrato con glaciale eleganza e feroce potenza dallo stilista regista Tom Ford, alla sua seconda esperienza da director, dopo l’acclamato A single man del 2009. L’autore texano torna brillantemente a parlarci di amori difficili e di quella upper class vittima della propria rapace perfidia, che cerca di celare abissi di disperazione esistenziale sotto una coltre di buone maniere e rituali mondani. Sontuoso nella messa in scena e teso nei sottotesti oscuri, questo affascinante thriller coniugale ha la sua forza nella struttura a due livelli: la vicenda reale dalla fotografia patinata, che ci mostra la vita della protagonista con continui salti tra passato e presente, e quella del romanzo di Edward, fotografata con “sporca” ruvidezza, che innesca un sottile gioco metaforico a scatole cinesi che turba e avvince lo spettatore per l’intera durata della pellicola. Il continuo balzare dall’uno all’altro piano narrativo enfatizza il patos attraverso le enormi differenze stilistiche tra i due segmenti: all’algida raffinatezza spartana dei design della casa di  Susan si contrappone la rude violenza della polverosa provincia texana. Segmenti che però condividono la medesima tensione tragica, in un caso introspettiva e nell’altro esplicita. Riconfermando l’originalità del suo sguardo, Ford riesce a stilizzare l’anima violenta e selvaggia dell’amore, un sentimento  tanto profondo quanto crudele che influenza e determina le umane sorti, spesso con infauste conseguenze. L’utilizzo della letteratura come specchio tragico dei propri fallimenti non è ovviamente nuovo sul grande schermo, ma l’autore riesce a conferirgli una nuova linfa drammaturgica, grazie anche alle ottime interpretazioni di un cast ispirato in cui, tra i protagonisti Amy Adams e Jake Gyllenhaal (in un doppio ruolo), svetta il rude detective texano del sempre bravissimo Michael Shannon. Il film ha vinto il Gran Premio della Giuria al Festival del Cinema di Venezia del 2016, dove è stato presentato in anteprima.

Voto:
voto: 4/5

lunedì 14 novembre 2016

Knight of Cups (Knight of Cups, 2015) di Terrence Malick

Rick è uno sceneggiatore di Hollywood, donnaiolo incallito, con un padre anziano, un fratello turbolento da tenere a freno e un vecchio dramma familiare alle spalle. Egli trascorre le sue giornate nell’indolenza, tra feste mondane, ville da sogno, eleganti piscine, donne bellissime e le strade di Los Angeles, brulicanti di umanità. Ma dai suoi occhi traspare un intenso disagio esistenziale, un tedio profondo che lo attanaglia, lo intorpidisce e lo fa vagare come un sonnambulo inebetito, perso nella sua opulenta quotidianità, alla disperata ricerca di un senso autentico. Obbedendo alla sua natura di avventuriero romantico dalla sensibilità artistica, Rick vaga inquieto nel mondo per trovare se stesso. “C'era una volta un giovane principe che il padre, il re d'Oriente, inviò in Egitto a cercare una perla. Ma, quando il principe arrivò, la gente gli porse una tazza. Una volta bevuto, si dimenticò di essere il figlio del re, dimenticò anche la perla e cadde in un sonno profondo”. Si apre con questa premessa fiabesca l’opus n. 7 di Terrence Malick e suo penultimo film, dato che il successivo documentario “Voyage of Time: Life's Journey” è rimasto ancora inedito nel nostro paese. Una premessa carica di risvolti allegorici che già contiene il senso intimo di quest’opera errante e meditabonda, un viaggio interiore di possente fascino spirituale che insegue quel barlume di mistico presente in ciascuno di noi. Il titolo è ispirato all’omonima carta dei tarocchi, il cavaliere di coppe (da non confondere con il fante!), che rappresenta la fantasia, l’amore e l’avventura, ma anche l’insicurezza e la vulnerabilità se girata al contrario. E il film intero è a sua volta suddiviso in  otto capitoli (più un prologo) recanti i nomi di carte dei tarocchi: la Luna, l'Appeso, l'Eremita, il Giudizio, la Torre, la Papessa, la Morte, la Felicità. Ciascuno dei segmenti è a suo modo unitario, una sorta di piccolo surrogato del film stesso: in pratica ciascuna delle parti già contiene il tutto e la loro somma crea un corpo unico, che le compenetra e ne replica la semantica, pur rispettandone l'unità narrativa indipendente. Esiste un contrasto intimo e profondo alla base del cinema di Terrence Malick: il contrasto tra la fulgida bellezza delle immagini, la sontuosa impaginazione estetica che guarda al poetico, e quell’evidente malessere di fondo, silente ma struggente, che traspare dai contenuti, pacatamente narrati attraverso la dilatazione dei tempi, la ciclicità degli eventi, le ellissi contemplative, i lunghi silenzi e la voce fuori campo, che fa da metronomo al libero flusso di pensieri. Uno stream of consciousness che rompe gli schemi rigidi della narrazione tradizionale, in favore di una maggiore densità concettuale e di un’astrazione forse manieristica ma anche doverosa nel perseguimento ascetico del sublime, del meraviglioso, del mistico che è, da sempre, l’obiettivo principale del grande regista americano. Fedele (e quasi “prigioniero”) della sua estetica “tirannica” e radicale, che nel tempo gli ha fatto ben meritare lo status di autore di culto, Malick non si smentisce in questo suo nuovo lavoro, che si muove sulla medesima scia dei due precedenti (The Tree of Life e To the wonder), pur mantenendo una propria salda autonomia artistica ed una propria originale personalità. Come al solito il cast è stellare (Christian Bale, Cate Blanchett, Natalie Portman, Antonio Banderas, Wes Bentley, Isabel Lucas, Teresa Palmer, Freida Pinto, Armin Mueller-Stahl) e totalmente “in balia” del geniale regista dell’Illinois, sempre più demiurgo di un’idea di cinema alta, elitaria, coerente e profonda, lontana anni luce dalle regole di quello showbiz hollywoodiano, che qui viene amaramente deriso nella sua vana protervia edificata sul futile materialismo e sull’ossessione dell’apparire. E, come sempre, la confezione tecnica è di altissimo livello, incorniciata dalla sontuosa fotografia di Emmanuel Lubezki e dalle affascinanti musiche di Hanan Townshend. E, ancora una volta, se ci si abbandona e si è (ben) disposti a perdersi nel flusso di suggestioni evocative e di allegorie ieratiche malickiane, il risultato sarà un’esperienza indimenticabile. Una nuova odissea spirituale dell’uomo e nell’uomo, perché il piacere del viaggio conta sempre più della meta.

Voto:
voto: 4,5/5

martedì 18 ottobre 2016

Viva la libertà (Viva la libertà, 2013) di Roberto Andò

Enrico Olivieri, segretario del principale partito d’opposizione, colto da profonda crisi esistenziale, decide di lasciare tutto e fuggire in Francia da una sua vecchia amante. La sua improvvisa assenza, in un momento cruciale della storia politica del paese, provoca imbarazzo e caos nelle alte sfere del partito, che faticano a tenere a bada l’opinione pubblica inventando fantomatici motivi di salute per tener nascosto il fattaccio. Andrea Bottini, solerte braccio destro di Olivieri, pensa allora di rivolgersi a Giovanni, gemello del politico e docente di filosofia con seri problemi psichiatrici di bipolarismo, affinché prenda il posto del fratello nel periodo della sua assenza. Il bizzarro Giovanni, tra colpi di teatro e disarmante sincerità, riporta incredibilmente in auge il gradimento del partito d’opposizione. Vibrante dramma politico di Roberto Andò, tratto dal romanzo “Il trono vuoto”, scritto da lui stesso e diretto con tono lieve, alternando acuta ironia e lucidità di sguardo. Sulla scia di quel grande cinema politico che fu di Elio Petri, eternamente sospeso tra rigore di denuncia e visionarietà surreale, questo solido film dell’intellettuale Andò si rivela come uno tra i più interessanti prodotti cinematografici italiani degli ultimi anni, capace di coniugare densità tematica, forza critica, garbato favolismo e grottesco sarcasmo. Nonostante la storia semplice e l’assunto kafkiano (che cavalca temi classici ampiamente abusati come lo scambio di persona e la doppia identità), l’opera nasconde una complessità ben più stratificata, in bilico su quel filo sottile che separa il comico dal tragico. Una complessità che denunzia il fallimento di una classe dirigente ingessata nella sua mediocrità e che auspica il ritrovamento di un linguaggio (politico) semplice, viscerale, euforico, che sappia parlare al cuore della gente e possa rimettere ciascuno di fronte al proprio senso di responsabilità. Tra la saggia follia dell’improbabile segretario e l’ottusa razionalità dei mestieranti politici, il film ci regala una briosa boccata d’aria che soffia imperiosa tra le polveri delle stanze del potere e ci delizia con un potente finale ambiguo e con almeno una sequenza memorabile: il ballo a sorpresa tra Giovanni e la leader del governo tedesco, che strizza evidentemente l’occhio ad Angela Merkel. Nel cast svetta uno straordinario Toni Servillo, nel doppio ruolo di Enrico/Giovanni, che si conferma il miglior attore italiano contemporaneo e il più degno erede del compianto Gian Maria Volonté. Accanto a lui Valerio Mastandrea, Valeria Bruni Tedeschi, Michela Cescon e Anna Bonaiuto garantiscono interpretazioni di buona tenuta. Da segnalare l’apparizione, in un filmato d’epoca, di Federico Fellini che denuncia aspramente gli abomini della censura e degli spot pubblicitari che mortificano l’arte cinematografica durante i passaggi televisivi dei film.

Voto:
voto: 4/5

L'ultima eclissi (Dolores Claiborne, 1995) di Taylor Hackford

Dolores Claiborne è una cameriera di mezza età che vive sulla piccola isola di Little Tall (Maine) e lavora per la vecchia signora Donovan, ricca e pedante. Quando la sua padrona muore per una caduta dalle scale, Dolores viene accusata d’omicidio da un detective pignolo che non ha mai digerito la sua assoluzione da un vecchio caso giudiziario, in cui la donna fu assolta per la tragica morte del marito, violento e alcolizzato. In difesa di Dolores accorre la figlia Selena, che ha con lei un rapporto tormentato e che non fa ritorno all’isola natia da molti anni. La vicinanza tra le due donne farà riemergere dolorosi ricordi di un oscuro passato da cui Selena ha invano tentato di fuggire. Dal romanzo “Dolores Claiborne” di Stephen King, Hackford ha tratto un potente thriller al femminile strutturato a flashback, di sontuosa impaginazione estetica e di sapiente tensione drammatica. La struttura a due livelli, tra presente e passato, crea un suggestivo impasto di eventi (fotografati con diverso tono cromatico) che si fondono con sinuosa efficacia sovrapponendo il giallo dagli echi hitchcockiani allo struggente rapporto tra una madre ostica e una figlia ribelle, che costituisce il cuore intimo del film. Grazie a due attrici straordinarie (Kathy Bates e Jennifer Jason Leigh) che si mettono totalmente al servizio della cupa vicenda, la pellicola ha ritmo, forza emotiva e intensità tragica nel suo continuo gioco di salti temporali che trovano pieno (e non imprevedibile) compimento espressivo nella serie di rivelazioni finali. Splendide le lacustri atmosfere autunnali del Maine ricreate grazie agli scenari naturali della Nuova Scozia. In questo thriller familiare, avvolgente e sottile, la Bates si conferma interprete ideale per i personaggi creati dalla penna di Stephen King. Passato quasi in sordina nel nostro paese, e con un titolo che ne banalizza l’alta densità drammatica, è un film che merita il recupero, specialmente da parte degli appassionati dei gialli a sfondo psicologico. Va indubbiamente annoverato tra i migliori adattamenti di King fatti per il grande schermo.

Voto:
voto: 4/5

lunedì 17 ottobre 2016

The Zero Theorem - Tutto è vanità (The Zero Theorem, 2013) di Terry Gilliam

In un futuro imprecisato la società è controllata da potenti corporazioni informatiche che consentono la costante connessione dei cittadini ai sistemi digitali, in cui operano intelligenze artificiali e potenti software capaci di garantire evasioni virtuali. Sotto il controllo dell’enigmatico direttore noto come Management, opera il bizzarro Qohen, genio informatico alienato e solitario che abita in una chiesa abbandonata, parla sempre con il plurale maiestatis e vive recluso nell’attesa di una fantomatica telefonata che dovrebbe svelargli il senso della vita. Quando gli viene affidata la risoluzione di un algoritmo impossibile, il così detto “Zero Theorem”, che dovrebbe far luce sul fine ultimo dell’esistenza, il nostro cade in uno stato di profonda angoscia, tra incubi popolati da buchi neri e sedute di psicanalisi on-line con una dottoressa digitale. L’incontro con la sensuale Bainsley, giovane donna che sembra attratta da lui, e con il nerd Bob, figlio prodigio del sinistro Management, porterà Qohen ad esplorare sconosciuti recessi della sua anima. Ritorno in grande stile di Terry Gilliam alla fantascienza distopica, già esplorata con ottimi risultati in Brazil (1985) e L’esercito delle 12 scimmie (1995), con questo visionario dramma antropologico che, sotto la patina sci-fi, cela il suo vero volto di paradossale parabola sulla solitudine umana nell’era della tecnologia virtuale. Diretto con sagace frenesia dall’autore del Minnesota, il film si avvale di una vivida fotografia dai colori elettrici e di stranianti atmosfere ipnotiche che mescolano abilmente futuribile e rétro, attraverso l’accostamento (tipico nel cinema di Gilliam) di oggetti hi-tech con elementi anacronistici, inducendo suggestioni a metà strada tra sogno e profezia. Tra deformazioni grottesche e riflessioni filosofiche non esattamente originali, Gilliam si muove abilmente con un’estetica posta a metà strada tra Blade Runner e Brazil, fieramente nostalgica delle atmosfere degli anni ’80, e ci consegna l’ennesima brillante riflessione sulla fobia e sull’emarginazione dell’uomo in lotta per il riconoscimento del proprio individualismo di fronte alla spersonalizzazione imposta dal potere totalitario, che ricerca l’omologazione per preservare il proprio status quo. Brillante nella forma ma cupo e rassegnato nelle conclusioni, questo nuovo incubo paranoide targato Gilliam ci regala immagini potenti e bellissime, pur non indenni dai manierismi barocchi tipici dell’autore, e pone l’accento sulla ricerca, eroica e disperata, di un proprio percorso individuale, anche a costo di abbandonare ideali di fede e utopie amorose. Ottimo il cast, con Christoph Waltz esemplare nel ruolo dell’istrionico protagonista, Mélanie Thierry, David Thewlis, Lucas Hedges e due star come Matt Damon e Tilda Swinton, che si ritagliano apparizioni piccole ma incisive nei ruoli del direttore Management e della psicologa virtuale.

Voto:
voto: 4/5

giovedì 6 ottobre 2016

Sacro GRA (Sacro GRA, 2013) di Gianfranco Rosi

Il Grande Raccordo Anulare (GRA) è un’autostrada tangenziale che circonda Roma con un tracciato circolare a doppio senso di marcia tramite due carreggiate separate a tre corsie. Con i suoi 68 chilometri è l’autostrada locale più lunga d’Italia ed è anche la più trafficata con un volume di quasi 60 milioni di veicoli all’anno. Croce e delizia degli abitanti di Roma, il raccordo è ormai parte integrante della vita e del costume della nostra capitale, un anello d’asfalto che, idealmente e simbolicamente, segna il confine tra la città eterna e le sue periferie più estreme, popolate da un’umanità ai margini, antropologicamente distante dai canoni metropolitani. Il regista Gianfranco Rosi ha attraversato il raccordo in camper, esplorandone i luoghi limitrofi, per circa due anni, alla ricerca di personaggi particolari e di storie degne di essere raccontate in questo documentario anomalo che rappresenta un viaggio “on the road” in una terra di nessuno, per gettare uno sguardo in quell’umanità “sotterranea” puntualmente ignorata dall’occhio frettoloso degli automobilisti che sfrecciano veloci sull’asfalto del GRA. Ci vengono quindi presentate, senza soluzione di continuità, diverse storie vere di personaggi reali che “interpretano” loro stessi, in un colorito e paradossale collage eterogeneo di esistenze (molte delle quali al limite), il cui involontario collante è il raccordo anulare evocato dal geniale titolo, autentico protagonista del film, ovvero quella sorta di eccentricità stradale che, pur non conducendo da nessuna parte, collega ogni luogo di Roma grazie alle sue uscite. Assistiamo quindi a numerose vicende, tra cui ricordiamo: un botanico che cerca di salvare, con commovente meticolosità, le sue palme dal micidiale parassita detto punteruolo rosso, un barelliere che passa le notti in ambulanza per soccorrere le vittime di incidenti e che intrattiene un tenero rapporto con la vecchia madre malata, uno stravagante principe che vive in un lussuoso palazzo in zona Boccea, che spesso affitta come B&B o come set per cinema e fotoromanzi, un vecchio nobile piemontese dall’eloquio aulico che convive con la figlia studentessa in uno squallido monolocale di periferia, un pescatore di anguille che abita in una baracca sul Tevere sotto un viadotto del GRA insieme alla compagna ucraina. E ancora: un sedicente attore di fotoromanzi, ormai sfiorito ma sempre in cerca della fama, due anziane prostitute che esercitano il “mestiere” in uno squallido camper, un gruppo di donne fedeli che sembrano assistere a un’apparizione mistica, due avvenenti cubiste che si esibiscono sul bancone di un bar e la riesumazione di vecchie salme destinate ad una fossa comune nei pressi del raccordo. Con il suo sguardo lucido, radicale, attento e rispettoso dell’elemento umano, Rosi, secondo il suo stile tipico, parte dai luoghi per raccontarci l’uomo, attraverso una rapsodia armonica di vicende “border line” che evocano, al tempo stesso, decadenza sociale, vitalità esuberante, crudo realismo, densità tematica, trasfigurazione mitologica, allegorie universali. Con il suo stile ostico e rigoroso, ma indubbiamente unico, l’autore sposta un po’ più in alto l’asticella qualitativa del documentario, ridefinendone i canoni con un’estetica assai prossima al cinema, attraverso una non convenzionale linea di confine che, proprio come il raccordo anulare, avvolge, attraversa e scavalca contraddizioni, paradossi e dissonanze, forse evocando, senza alcun catastrofismo, la distruzione silenziosa e imminente del nostro modello sociale. Proprio come una pianta/anima tragicamente corrosa dall’interno da un’orda spietata di voraci parassiti. Il film è stato premiato, non senza polemiche, con il Leone d’Oro al Festival di Venezia dalla giuria presieduta da Bernardo Bertolucci.

Voto:
voto: 4/5

martedì 4 ottobre 2016

Fuocoammare (Fuocoammare, 2016) di Gianfranco Rosi

A Lampedusa il piccolo Samuele va a scuola, cerca di imparare il duro mestiere del mare e si diletta a costruire fionde con cui tirare sassi per cacciare uccelli. Intanto l’isola vive la tragedia quotidiana dei migranti che sbarcano dal terzo mondo per sfuggire alla fame, alla guerra e ad una vita miserabile priva di speranza e dignità. In cerca di un futuro migliore per sé stessi e per i loro figli, questo esercito di disperati, ignobilmente sfruttato da un manipolo di criminali che si arricchiscono organizzando i disumani viaggi della morte su battelli di fortuna, vede nell’isola italiana la porta di quell’Europa in cui confida di trovare la terra promessa. Ma molti di loro trovano la morte in quel mar Mediterraneo ormai divenuto la tomba dei poveri derelitti, reietti costretti ai margini della civiltà da anni di politiche di sfruttamento e dal cinismo delle società occidentali schiave del consumismo e dell’avida logica del profitto. Lampedusa, estremo sud dell’Italia e dell’Europa, è ormai divenuta il simbolo del problema dei migranti, una questione umanitaria, politica, sociale e morale che costituisce la vera sfida da affrontare da parte dei governi europei. Una sfida che non può più essere rimandata o sottovalutata. In questo splendido documentario il regista Gianfranco Rosi, cittadino italiano e americano nato in Eritrea, affronta l’ardua questione con uno sguardo lucido, asettico e anemozionale, posto al servizio di un freddo cronachismo che cerca di cogliere il lato invisibile dell’immane tragedia al di là del pietismo retorico, dell'estremismo intollerante e del clamore mediatico. Con un approccio rigoroso e anticonvenzionale, l’autore bandisce enfasi e retorica, asciugando la narrazione fino all’osso e presentendoci, senza soluzione di continuità, scene di vita ordinarie della comunità lampedusana alternate alle immagini terribili (mostrate senza alcun compiacimento morboso) degli sbarchi dei profughi, dei salvataggi in mare e della disperazione assoluta di chi ha perso tutto. Potente ed onesto nel suo crudo realismo, ma anche pudico nell’esternazione delle scene tragiche attraverso un punto di vista discreto e pietoso, il film trova il suo climax emotivo nella drammatica testimonianza del dottor Pietro Bartólo, eroico medico lampedusano sempre in prima linea per prestare soccorso agli sventurati che arrivano dal mare. Da menzionare altresì la fine dimensione allegorica della vicenda di Samuele, che contiene un tenue messaggio di speranza e l’esortazione (rivolta a tutti noi) ad utilizzare il nostro occhio pigro (obnubilato dal benessere opulento e dall’egoismo ignavo), per riuscire a guardare il mondo sotto una nuova luce. Il film è stato premiato con l’Orso d’Oro al Festival del Cinema di Berlino ed è stato scelto, non senza polemiche, come rappresentante italiano agli Oscar 2017.

Voto:
voto: 4/5

Passione (Passione, 2010) di John Turturro

Intenso viaggio, tra storia e mito, tra realtà e sogno, attraverso la musica napoletana, dai grandi classici famosi in tutto il mondo fino alle istanze più moderne. Con lo sguardo alieno di un americano che guarda al paese delle sue origini con un misto di passionale adorazione e nostalgico rispetto, Turturro realizza un affresco potente, esuberante, colorato, affascinante e struggente insieme che cerca di cogliere, riuscendoci in buona parte, l’anima di Napoli attraverso la sua musica, i suoi suoni ed il suo viscerale rapporto con le canzoni che, da sempre, ne attraversano le viscere come le arterie in un corpo. Utilizzando filmati storici, interviste, testimonianze e le interpretazioni canore di tanti grandi nomi della musica partenopea, questo vibrante documentario musicale ci avvolge e ci ammalia, stordendoci con la forza suggestiva di quel grande teatro all’aperto che è Napoli, di cui l’autore coglie non solo i celebri scenari da cartolina ma, soprattutto, i luoghi più autentici e vitali: i vicoli, i mercati, le aree degradate, i ruderi antichi, il cui afflato possente ci pone in costante oscillazione tra storia e leggenda, tra costume e verità. In questo energico “videoclip” di 90 minuti vediamo sfilare volti e luoghi simbolo del capoluogo campano, con quindici brani reinterpretati tra cui ricordiamo “Vesuvio”, “Era de maggio”, “Maruzzella”, “Malafemmena”, “Don Raffaè”, “Tamurriata nera”, “Passione”, “Caravan Petrol”, fino alla splendida “Napule è” di Pino Daniele che rappresenta la chiosa ideale, e inevitabile, di questo viaggio antologico viscerale. Tra i numerosi interpreti che hanno prestato voce e corpo al film vanno citati: Massimo Ranieri, Peppe Barra, Peppe Servillo e la Piccola Orchestra Avion Travel, Pietra Montecorvino, James Senese, Enzo Avitabile, Fiorello, Lina Sastri, Mìsia, Raiz e gli Almamegretta. Nella riuscita commistione tra documento e fiction, organizzazione e improvvisazione, sacro e profano, tradizione e folclore, l’autore di Brooklyn ci racconta Napoli attraverso la musica cogliendone la vitalità, la malinconia, il colore, il calore, l’estro, la magia e la maledizione. Tra i tanti momenti riusciti dell’opera, il più suggestivo è il “Canto delle lavandaie del Vomero”, un sublime intermezzo onirico dal fascino antico, ambientato nella meravigliosa cornice della “Piscina mirabilis”, a Bacoli.

Voto:
voto: 4/5

venerdì 30 settembre 2016

Julieta (Julieta, 2016) di Pedro Almodóvar

Julieta è una donna di mezza età, insegnante di lettere classiche, in procinto di lasciare la Spagna per il Portogallo insieme al suo compagno, Lorenzo. Ma l’incontro casuale con una giovane ragazza riporta a galla un doloroso passato e riapre in lei antiche ferite mai del tutto rimarginate, che la spingono a cambiare i suoi progetti. Un lungo flashback ci racconta il passato della donna, con una serie di drammi familiari impossibili da cancellare. L’opus numero 20 del talentuoso autore manchego è un melodramma familiare asciutto e teso che lavora per sottrazione emotiva, pur abbondando nella molteplicità degli eventi. Elegante e spartano nella messa in scena, è una dolente parabola sul senso di colpa e sull’ineluttabilità del destino, che rifiuta l’enfasi o il coup de théâtre in favore di uno stile sommesso, incline all’amaro disincanto che registra senza fronzoli la crudezza della vita e la difficoltà di gestire i rapporti sentimentali. Almodóvar ritorna ad un cast tutto al femminile (in cui spiccano Emma Suárez e Adriana Ugarte che interpretano la protagonista in due diverse età della sua esistenza), ma rinuncia del tutto ai tocchi piccanti, alle trasgressioni colorite, ai graffi impudenti, all’irriverenza erotica e persino a quella toccante umanità che hanno reso grande il suo cinema. Con il distacco di uno scienziato che enumera eventi, imperfezioni, pulsioni e danni collaterali provocati dalle scelte di vita di Julieta, egli si affida al pilota automatico per condurre in porto questo dramma raffreddato, concedendosi però due lampi di genio: la scena dello shampoo (che è puro Almodóvar) e il finale aperto, a sottolineare che la vita è un flusso casuale indeterministico in continuo divenire e che la sola cosa che conta davvero è viverla. E affrontarla. Nonostante tutto.

Voto:
voto: 3,5/5