lunedì 31 luglio 2017

Un colpo all'italiana (The Italian Job, 1969) di Peter Collinson

Charlie Crocker, abilissimo ladro appena uscito da galera, sta organizzando il colpo della vita: rubare quattro milioni di dollari in lingotti d'oro in arrivo dalla Cina e destinati alla FIAT di Torino, che dovrebbero servire alla costruzione di uno stabilimento automobilistico a Pechino. Grazie al boss Bridger, che anche chiuso in cella riesce tranquillamente a gestire uomini e operazioni di alto profilo criminoso, Crocker decide di tentare l'impresa, nonostante la minacciosa opposizione di un mafioso italiano. Utilizzando un sofisticato congegno elettronico, la banda del nostro riesce a sabotare il sistema di controllo del traffico cittadino, mandando in tilt la circolazione stradale torinese nel giorno di arrivo dell'oro all'aeroporto di Caselle e Crocker, dopo aver rubato il prezioso carico, lo smista su tre Mini Cooper potenziate e velocissime. Sarà l'inizio di un rocambolesco inseguimento fino alla Svizzera e i colpi di scena non mancheranno. Diretto da Peter Collinson con adrenalinica tensione e buona perizia tecnica, questo caper movie d'azione, che sovente indulge nella commedia, è un gradevole prodotto d'intrattenimento leggero, tanto spettacolare quanto irrealistico, che si avvale di una bella squadra di attori (Michael Caine, Noël Coward, Benny Hill, Raf Vallone e Rossano Brazzi), di un ritmo travolgente nella parte finale e di una atmosfera briosa che non si prende mai troppo sul serio. Da citare le notevoli riprese dall'alto e l'incredibile fuga delle Mini Cooper sulla pista del Lingotto e poi nelle strade del capoluogo piemontese. Nel 2003 ne è stato realizzato un remake, inutile ma anch'esso divertente: The Italian Job di F. Gary Gray, interpretato da Mark Wahlberg, Charlize Theron e Edward Norton.

Voto:
voto: 3/5

Saranno famosi (Fame, 1980) di Alan Parker

Alla prestigiosa "High School of Performing Art" di New York si presentano centinaia di giovani aspiranti artisti per sostenere le audizioni ed essere valutati da personale competente che seleziona i più promettenti da ammettere all'ambito corso della durata di quattro anni. Durante questo lungo periodo i ragazzi studiano per tirar fuori il loro talento artistico, ciascuno nell'ambito prescelto: danza, canto o recitazione. Affrontando gli ostacoli della competizione, le difficoltà fisiche e psicologiche, le inevitabili delusioni e le relazioni interpersonali che danno vita ad amori, amicizie o incomprensioni, gli studenti effettuano un fondamentale percorso di crescita, innanzi tutto interiore, imparando sia le tecniche dell'arte sia le leggi della vita. A fine corso tutti prendono parte ad un grande show gioioso e celebrativo, per poi affacciarsi alla dura realtà del mondo esterno profondamente cambiati e con un titolo importante. Ma quanti di loro saranno realmente famosi ? Celebre film musicale di culto di Alan Parker, un po' commedia e un po' dramma, forte dell'esuberanza isterica dei giovani protagonisti e di uno stile documentaristico che fa pensare all'ambizioso saggio antropologico in un microcosmo ristretto e privilegiato. Sebbene sia datato 1980 è un'opera che appartiene, esteticamente, emotivamente e filosoficamente agli anni '70. Diviso idealmente in tre parti (l'audizione, il corso e lo spettacolo finale di congedo) è un crescendo corale che mescola arte e vita, passione e sentimenti, sconforto e speranze, talento e furbizia, sudore e lacrime, tutto in nome della Fama: chimera luccicante, sirena capricciosa, miraggio abbagliante, crudele maliarda che bacia pochi e tradisce molti. Critica al rampantismo USA ? Metafora del Sogno Americano ? Niente di tutto questo. Saranno famosi non è un film politico o con intenti di critica sociale, ma una spigliata elegia delle illusioni (e quindi, inevitabilmente, diario delle delusioni), che intende gettare uno sguardo veracemente sincero nel mondo giovanile. Più canonico e banale nel finale alla ricerca programmatica di una sfarzosa spettacolarità, ha messo tutti d'accordo per la forza travolgente delle musiche premiate con due Oscar: alla colonna sonora di Michael Gore ed alla miglior canzone (la celebre "Fame") di Michael Gore e Dean Pitchford. Tra i personaggi quelli che hanno colpito maggiormente l'immaginario giovanile sono Coco Hernandez (Irene Cara), Leroy Johnson (Gene Anthony Ray), Bruno Martelli (Lee Curreri) e Montgomery MacNeil (Paul McCrane). Dal film sono stati tratti un musical teatrale e una serie televisiva andata in onda per ben sei anni, il cui successo ha superato di gran lunga quello dell'originale ispiratore. Non è difficile trovare grandi appassionati del serial tv omonimo che non conoscono o non hanno mai visto il film di Parker (che è indubbiamente meno immediato e meno ammiccante). Nel 2009 ne è stato realizzato un insipido remake: Fame - Saranno famosi di Kevin Tancharoen.

Voto:
voto: 3,5/5

Le colline hanno gli occhi (The Hills Have Eyes, 1977) di Wes Craven

La famiglia Carter, composta dai genitori Bob ed Ethel, tre figli, il marito della figlia maggiore e la loro piccola neonata di 6 mesi, viaggiano in camper attraverso le aree desertiche dell'ovest americano diretti verso la California. Il capofamiglia Bob, arrogante poliziotto in pensione, decide di fare un fuori percorso per visitare una miniera d'argento abbandonata e si inoltra in un remoto territorio collinare, nonostante il benzinaio a cui ha chiesto informazioni glielo abbia apertamente sconsigliato. Infatti la zona è infestata da una tribù di uomini selvaggi e deformi dall'aspetto orribile, che catturano gli sprovveduti visitatori occasionali per ucciderli e poi cibarsene. Il camper finisce fuori strada e non è in grado di ripartire, Bob cerca di raggiungere a piedi la stazione di servizio per chiedere aiuto, mentre suo genero si reca in esplorazione nella direzione opposta. Intanto scende la notte e, dalle colline circostanti, i "mostri" osservano famelici il camper con il suo carico umano. Il secondo horror di Wes Craven è uno slasher all'aperto, travestito da survival movie, sanguinoso e claustrofobico. Una spietata caccia all'uomo ai confini della civiltà, un truce ritorno a una barbara preistoria, una carneficina in nome dell'ancestrale "mors tua vita mea" in cui il vero protagonista è il deserto. Ancora acerbo e grezzo nella messa in scena "sporca", il regista riconferma la mano pesante e la macabra violenza da bieca exploitation del suo famigerato esordio ma, stavolta, qualcosa da salvare c'è. In particolare nella prima parte di attesa, prima che il vero e proprio massacro abbia inizio, in cui la costruzione della suspense e il senso di inquietudine per una sinistra minaccia incombente vengono gestiti con un robusto crescendo di tensione, salvo poi affogare in un mare di sangue. Le sequenze notturne in cui i cannibali spiano le ignare vittime sacrificali dalle colline sono notevoli e dimostrano la buona attitudine del regista con la materia. Adorato da molti fans, è uno degli horror più noti degli anni '70, che ebbe un buon successo nell'ambito dei patiti del genere, dando vita ad un sequel ufficiale nel 1985 (sempre diretto da Craven) e ad un remake (assai più efferato) nel 2006 diretto da Alexandre Aja, che poi ha avuto a sua volta un seguito l'anno successivo. Del cast viene soprattutto ricordato il caratterista Michael Berryman, celebre per la sua testa glabra e allungata a causa di una displasia genetica, nel ruolo del feroce Pluto. Indubbiamente debitore, per l'idea di base, del più solido e viscerale The Texas Chainsaw Massacre di Tobe Hooper, Le colline hanno gli occhi è un film asprigno e brutale che solitamente piace ai nostalgici dello splatter vintage, ma la paura, il patos e le sottili suggestioni che ti turbano nel profondo sono ben altra cosa.

Voto:
voto: 2/5

L'ultima casa a sinistra (The Last House on the Left, 1972) di Wes Craven

La famiglia Collingwood abita in una casa isolata in una tranquilla zona boschiva dell'estrema periferia di New York. Per festeggiare il suo diciassettesimo compleanno la figlia Mari ottiene il permesso di andare in città insieme alla sua amica Phyllis per assistere a un concerto rock. Giunte nella metropoli le ragazze, mentre cercano di comprare dell'erba da fumare, vengono rapite dal truce Krug, un evaso fuori di testa molto pericoloso, e dalla sua banda di teppisti. Trascinate a forza in un bosco remoto, le due amiche vengono selvaggiamente stuprate, seviziate, picchiate, umiliate e infine barbaramente uccise. Dopo essersi smarriti i criminali, spacciandosi per venditori a domicilio, chiedono aiuto a una coppia di coniugi che vivono nell'unica abitazione che incontrano sul loro cammino. Ospitati dai gentili padroni di casa, i bruti non possono immaginare di essere capitati nella residenza dei Collingwood. Quando il capofamiglia capisce cosa è avvenuto, la sua vendetta sarà pari al torto subito. Famigerato esordio cinematografico di Wes Craven con un'opera controversa, discussa e discutibile per la sua sadica ferocia e per il morboso accostamento di sesso, perversione, violenza e morte che non risparmia nulla allo spettatore in termini di particolari macabri. E' uno dei più tristemente noti film "maledetti" degli anni '70, la cui messa in scena cruda, sporca e brutale colpisce lo spettatore come un pugno allo stomaco. Capostipite del famigerato sotto filone horror "Rape & Revenge", sulla cui scia poi si inseriranno svariati epigoni sempre più orripilanti, è un B-movie crudele e sanguinario di sconcertante voyeurismo depravato, che cerca invano di ammorbidire la sua becera efferatezza con dei ridicoli siparietti comico grotteschi (i dialoghi tra i due maldestri sbirri di provincia) inseriti in modo posticcio tra le sequenze violente, conferendo al tutto un'atmosfera di sordida bizzarria straniante. Ma il colpo di grazia, che davvero oltrepassa ogni limite di decenza, è la presunzione, più volte sbandierata dall'autore dopo il mare di polemiche e le persecuzioni censorie che inevitabilmente accompagnarono il film dopo l'uscita in sala, di aver tratto ispirazione da La fontana della vergine di Ingmar Bergman, e quindi dalla leggenda medioevale da cui la pellicola svedese è tratta. Ogni ulteriore commento sarebbe superfluo. Nel cast da segnalare la presenza di David Hess, attore di culto degli horror di bassa lega, un vero specialista nei ruoli da spietato psicopatico (manco a dirlo qui interpreta Krug). Repellente, grossolano, misogino e reazionario nella sua dozzinale apologia dell'occhio per occhio (con tanto di spudorata pretesa di pistolotto moralistico finale), è il "peccato originale" della carriera di Craven, da cui poi si è saputo ampiamente riscattare facendo la storia dell'horror con le sue successive pellicole. Lo scandalo suscitato dal film e i suoi infiniti problemi con la censura (tra tagli, divieti di ogni tipo e la negazione del permesso di distribuzione nel Regno Unito), ne decretarono, come sempre accade in questi casi, la fortuna commerciale, solleticando la curiosità morbosa del pubblico. Ha persino avuto un remake (meno perverso) nel 2009 diretto da Dennis Iliadis e prodotto da Craven. Per amplificare la fama oscena e il fascino sinistro dell'opera, cercando di attirare ancora più spettatori in sala, i distributori pensarono di scrivere sulla locandina la minacciosa frase "Se non volete svenire continuate a ripetervi: è solo un film, è solo un film". Ma mi faccia il piacere!

Voto:
voto: 1/5

Sfida a White Buffalo (The White Buffalo, 1977) di J. Lee Thompson

Nel 1874 un gigantesco bisonte bianco terrorizza la regione delle Montagna Nere nel Dakota, diventando il tormento di cacciatori, pionieri e indiani. Il celebre pistolero solitario Wild Bill Hickok, ossessionato dalla mostruosa creatura che gli appare ogni notte nel sonno sotto forma di angoscioso incubo, decide di dargli la caccia insieme ad un anziano e fedele amico. Nel viaggio verso i territori impervi e pericolosi delle Montagna Nere, ai due uomini si unisce il fiero Sioux Crazy Horse, che intende vendicare la sua piccola figlia uccisa dal feroce animale. L'avventurosa sfida tra il gigante bianco e i tre cacciatori sarà all'ultimo sangue. Dal romanzo "The White Buffalo" di Richard Sale, autore anche della sceneggiatura, il roccioso J. Lee Thompson ha tratto una stravagante commistione tra western, avventura, romanzo fantastico e horror, che si inserisce nell'abusato filone degli animali assassini (molto in voga negli anni '70 dopo lo straordinario successo de Lo squalo) cercando invano di cavalcarne l'onda. Stavolta il mostro da abbattere è un bisonte bianco formato extra large, dotato di incredibile forza e con un diabolico accanimento nel fare a pezzi gli umani. La creatura, realizzata dal nostro grande specialista Carlo Rambaldi, riesce a provocare la giusta inquietudine quando non si vede esplicitamente a figura intera (vedi le sequenze oniriche tratte dai cupi sogni di Hickok), ma, nello scontro finale, sfiora ripetutamente il ridicolo per le le movenze che ne sanciscono impietosamente l'essenza fasulla. Anche l'intera parte di avvicinamento al luogo fatale della disfida è lenta, prolissa, prevedibile e totalmente priva del giusto respiro da grande avventura epica. Del tutto sprecato il cast (che annovera Charles Bronson, Will Sampson, Jack Warden, Kim Novak e John Carradine) per un film scialbo, innocuo e francamente irritante come ennesimo "clone" mascherato della pellicola di Spielberg (e ovviamente del "Moby Dick" di Melville). Da salvare la suggestiva colonna sonora del leggendario John Barry.

Voto:
voto: 2/5

domenica 30 luglio 2017

Per grazia ricevuta (Per grazia ricevuta, 1971) di Nino Manfredi

La vita di Benedetto Parisi è segnata da un episodio cruciale dell'infanzia quando, da ragazzino vivace di un piccolo centro agricolo della Ciociaria, cresciuto con un'educazione religiosa fortemente repressiva, il nostro, nel giorno della sua prima comunione, turbato dall'omissione in confessionale di un "grave" peccato (aver spiato la zia nuda), scappa via dalla cerimonia e cade in un burrone, rimanendo illeso. L'evento fa gridare al miracolo e tutti i bigotti compaesani, ignoranti e mentalmente arretrati, considerano il ragazzo un prescelto da Dio per intercessione del patrono locale Sant'Eusebio. Benedetto trascorre così la giovinezza in convento, aspettando la "chiamata" spirituale che lo spinga a farsi monaco. Ma l'attesa resta vana e lui cresce sano, forte, irrequieto e fatalmente attratto dal mondo esterno e dal richiamo sessuale. L'incontro con Oreste, un maturo farmacista ateo, colto e progressista, che per lui diventa un riferimento morale, lo spinge ad abbandonare i suoi tabù religiosi e a dedicarsi ai piaceri della vita. Attratto da Giovanna, figlia di Oreste, Benedetto inizia una relazione amorosa con lei che culmina nella convivenza (in accordo agli ideali aperti della loro famiglia). Ma quando il suo adorato mentore, sul letto di morte, fa chiamare un prete per ricevere il sacramento dell'estrema unzione, Benedetto cade in una nuova profonda crisi mistica, rimettendo di nuovo in discussione tutte le sue idee. E un nuovo "miracolo" lo attende. Il primo lungometraggio di Nino Manfredi, che lo ha ideato, scritto (insieme a Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi e Luigi Magni), diretto e interpretato, è un originale e stravagante commistione tra la commedia di costume e il romanzo popolare, che alterna toni ora drammatici ora comici, in accordo al carattere scanzonato dell'autore. Il film affronta con tocco lieve e intelligente misura, bandendo ogni forma di serioso didascalismo, un argomento scottante come quello dell'educazione cattolica (notoriamente rigida nel condannare le naturali pulsioni umane come "peccaminose"), della sua costante influenza sulla nostra vita e del sottile rapporto tra religione e superstizione, che in ambienti particolarmente retrivi come i paesi della provincia italiana si fondono in un'unica identità castrante, spesso utilizzata come strumento intimidatorio per interesse personale o moralismo ipocrita. Sotto questo aspetto Manfredi regista è particolarmente abile (e forse anche pavido) nel cercare di evitare il vespaio di accuse anticlericali, per mezzo di un atteggiamento neutrale e della scrematura dei dialoghi più "insidiosi". Questo è, a parer mio, un punto debole del film ed una carenza di personalità registica che può essere solo parzialmente giustificata dalla scarsa esperienza e dalla paura di un flop commerciale a causa delle inevitabili polemiche degli esponenti cattolici. La pellicola ebbe uno straordinario successo di pubblico, risultando addirittura il primo incasso al botteghino italiano della stagione cinematografica 1970-71 ma gli atteggiamenti di ostracismo da parte della Chiesa ci furono ugualmente, in un'Italia ancora fortemente bigotta, in bilico tra l'inseguimento della libertà sessuale (frutto del terremoto ideologico del '68) e i divieti atavici del conformismo reazionario. Straordinario il personaggio del salace agnostico Oreste Micheli, interpretato con sanguigna maestria da Lionel Stander, senza dubbio la figura più interessante dell'opera, che fa da contrappeso al farisaismo timoroso di Benedetto (impersonato da Manfredi con la consueta verace spontaneità). Le parti più riuscite della pellicola sono la parte iniziale dell'infanzia del protagonista (sospesa in una realistica atmosfera di meschina idolatria campagnola) e i dialoghi esistenziali e religiosi con il vecchio Oreste, all'insegna di un pungente scetticismo. Completano il cast Delia Boccardo, Paola Borboni, Mario Scaccia, Fausto Tozzi e Mariangela Melato. Il film fu premiato al Festival di Cannes come miglior opera prima (in realtà Manfredi aveva già diretto il segmento "L'avventura di un soldato" del film a episodi L'amore difficile (1962) che quindi, tecnicamente, non può considerarsi un lungometraggio) ed ha lasciato diverse tracce nel costume del tempo, a cominciare dalla orecchiabile canzoncina "Viva Sant’Eusebio", scritta dallo stesso Manfredi insieme ai fratelli De Angelis (più conosciuti come gli "Oliver Onions").

Voto:
voto: 3,5/5

sabato 29 luglio 2017

L'abominevole Dr. Phibes (The Abominable Dr. Phibes, 1971) di Robert Fuest

Anton Phibes, famoso organista dato per morto in un incidente stradale, è in realtà sopravvissuto, orribilmente sfigurato e consumato dal dolore e dal desiderio di vendetta per la perdita dell'adorata moglie, a parer suo uccisa dall'incompetenza dei nove medici che la stavano operando, dopo che la donna era scampata alla sciagura, in cui aveva riportato gravi ferite, morendo poi sotto i ferri in ospedale. Totalmente impazzito nel suo delirio di collera e di egocentrismo, Phibes vive nascosto in un rifugio segreto, utilizza una maschera in lattice per celare il suo viso deturpato, parla attraverso un congegno da lui costruito che collega via cavo la sua trachea ad un grammofono, conserva in un sarcofago il corpo imbalsamato della sua amata e si avvale dell'aiuto di Vulnavia, fedele assistente tanto affascinante quanto silenziosa. Dopo aver preparato con maniacale scrupolo il suo elaborato piano di vendetta, Phibes decide di passare all'azione, uccidendo atrocemente uno per uno i nove "colpevoli" attraverso fantasiosi e crudeli delitti ispirati alle dieci piaghe bibliche con cui Dio colpì l'Egitto, per punirlo della sua arroganza e mancanza di fede. All'ultimo medico rimasto, il capo dell'èquipe, il nostro riserva il castigo più atroce ma l'imprevedibilità del destino è sempre in agguato. Affascinante horror di culto britannico, totalmente irrealistico nella trama ma denso di oscura malia per la barocca decadenza delle ambientazioni, per il solenne stile teatrale, per le cervellotiche ideazioni dei delitti, per il tono rarefatto di austera tragedia mitologica, per il perfido umorismo nero sottilmente autoironico, per la ricca esuberanza visiva e per la grande interpretazione (tutta da gustare in lingua originale) del leggendario fuoriclasse del genere horror Vincent Price, all'apice del suo istrionismo melodrammatico. Macabro e gustosamente eccentrico nel suo incedere in bilico tra il fanta-horror estremo e la velenosa black comedy, è un piccolo gioiellino "di genere" tutto da godere, che ebbe un buon successo di pubblico ed un certo impatto sulla cultura popolare del tempo. Chi ci ha voluto vedere un lontano precursore di Seven o di Saw non ha detto affatto un'eresia. Completano il cast Joseph Cotten, Terry-Thomas, Caroline Munro e Virginia North. Visto il riscontro positivo ne fu girato anche un sequel, Frustrazione (Dr. Phibes Rises Again, 1972), con il medesimo regista e attore protagonista ma assai più strampalato, e anche il successivo Oscar insanguinato (Theatre of Blood, 1973) di Douglas Hickox, sempre con Price irresistibile mattatore, cerca di bissarne i buoni risultati ricalcandone l'ingegnosa, ironica e orripilante sequenza di omicidi (in questo caso ispirati alle tragedie di William Shakespeare). Tra le tante rocambolesche uccisioni messe in atto dal sadico Phibes, quella delle locuste è da autentica antologia dell'horror.

Voto:
voto: 3,5/5

Whiplash (Whiplash, 2014) di Damien Chazelle

Il diciannovenne Andrew, in apparenza schivo ma fortemente determinato, entra in una prestigiosa scuola di musica jazz a New York per coronare il suo sogno di diventare un grande batterista. Il dispotico insegnante e famoso direttore d'orchestra Fletcher ne apprezza le abilità e lo prende nella sua band come vice batterista ma lo sottopone ad un brutale training che ne mette duramente alla prova sia il fisico che la psiche. Nonostante il rapporto conflittuale tra i due, Andrew migliora di giorno in giorno, riuscendo a diventare primo batterista. Ma quando il crudele Fletcher lo espelle dalla band per un banale ritardo rispetto all'orario di inizio delle prove, la rabbia del ragazzo esplode furiosa e lo scontro con il suo mentore si sposta ad un livello personale. Intenso dramma musicale scritto e diretto da Damien Chazelle (che lo aveva già proposto come cortometraggio di 18 minuti nel 2013), avvincente nel ritmo, minuzioso nella descrizione ambientale, competente nella rappresentazione della tecnica jazzistica, esteticamente sontuoso ed emotivamente possente. Andando ben oltre le dinamiche di una pellicola musicale, l'opera è leggibile come infernale percorso di formazione, guerra psicologica tra allievo e maestro, lucida riflessione sul rapporto tra talento e disciplina (ma anche tra arrivismo e responsabilità) e parabola nevrotica sulla inevitabile solitudine di un leader (o di un genio). Un'altra questione morale sollevata dal film è quanto sia giusto spingersi al limite per una causa in cui si crede profondamente, e questo vale, specularmente e paradossalmente, sia per il personaggio del tutore che per quello dell'apprendista, che, in questa sottile chiave interpretativa, sembrano essere i lati opposti di una stessa medaglia: quella della ricerca maniacale della perfezione. Fletcher (che fa di tutto per farsi odiare da Andrew e quindi dal pubblico) non è un massiccio sergente istruttore urlante ma un rettile viscido, glaciale e machiavellico, che agisce cinicamente in nome del raggiungimento del gesto perfetto, un esteta fanatico, un fedele valletto dell'arte pura a cui si è prostrato e per la quale opera, cercando nel prossimo il lampo divino dell'eccellenza, quello che distingue il genio dalla normalità. Allo stesso modo Andrew non è affatto un personaggio simpatico di immediata empatia, ha un qualcosa di sinistro nella sua ossessiva determinazione e non esita a sacrificare tutto, affetti compresi, per servire stoicamente la medesima "divinità" (e con non minore fanatismo) a cui il suo odiato mentore ha venduto l'anima. Ambiguo, grintoso, emozionante e forsennato nell'esplicazione della sua tesi, il film procede inesorabile come un treno verso il poderoso finale catartico, che non è un rammollimento hollywoodiano e neanche la cattolica promessa del Paradiso dopo la via crucis ma, piuttosto, la pagana "Iustitiae Dei", in questo caso gli Dei della musica che ci ripagano di tanto patire con un meraviglioso tripudio di note jazz che affascineranno anche i non cultori del genere. La pellicola è un assoluto piacere per gli occhi e per le orecchie e si avvale della memorabile interpretazione bigger than life di J. K. Simmons (premiato in maniera sacrosanta con l'Oscar come miglior attore non protagonista) nel ruolo del perfido e carismatico Fletcher, un personaggio impossibile da dimenticare, ispirato al famigerato e realmente esistito direttore di jazz band Buddy Rich. Molto bravo anche Miles Teller nei panni di Andrew, la cui alchimia con Simmons funziona egregiamente e ci regala scene di straordinaria intensità nei tesissimi duetti. Adorato dalla critica internazionale, il film ha vinto numerosi premi prestigiosi tra cui tre Oscar (montaggio, sonoro e Simmons) e il Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival. Splendide le musiche di Justin Hurwitz e le interpretazioni di grandi classici del jazz, tra cui il brano di Hank Levy che dà il titolo al film (in inglese "Whiplash" significa "frustata"). Eccellente alfiere di quel cinema indipendente americano, da cui ormai arriva sempre il meglio della produzione d'oltre oceano, è un film appassionante che mette d'accordo tutti (potrà variare di poco il voto finale assegnatogli ma si tratta di sfumature) e che piace sia ai cinefili esigenti sia ai mainstreamers di minori pretese.

Voto:
voto: 4,5/5

L'amico americano (Der amerikanische Freund, 1977) di Wim Wenders

Jonathan Zimmermann, restauratore tedesco di Amburgo, è gravemente malato di leucemia e gli restano pochi mesi di vita. Il losco americano Tom Ripley lo segnala al gangster francese Duplat come possibile killer per un omicidio su commissione. Zimmermann accetta in cambio di un lauto compenso con il quale spera di migliorare l'esistenza futura della sua famiglia dopo la sua morte. Ma il delitto mette in moto un meccanismo di violenza e di ritorsioni da cui il restauratore non riesce a tirarsi fuori, correndo un grave pericolo. Ripley, che gli è diventato amico, cerca di aiutarlo a trovare una via d'uscita, ma non sarà facile. Dal romanzo "Ripley's Game" (1974) di Patricia Highsmith, Wenders ha tratto un cupo thriller esistenzialista che guarda alla scuola dei grandi polizieschi americani ma con una sensibilità tutta europea nel disegno tormentato dei personaggi, nella malinconia di fondo e nel sottile umorismo nero sul non senso della vita. Più che l'azione contano i demoni interiori, i rapporti umani, l'analisi intimista, l'ambiguità tematica, le scelte morali e le ripercussioni psicologiche di tali scelte. Immerso in un'atmosfera allucinata, il film è anche una pacata riflessione (non priva di lucida astrazione) sul destino dell'uomo, sull'amicizia virile e su come il male possa entrare, inaspettatamente, nelle nostre vite. La Highsmith dichiarò di non aver gradito la pellicola, specialmente per la caratterizzazione del suo villain Tom Ripley che Wenders ha dipinto come un alcolizzato capace anche di gesti pietosi e quindi meno diabolico rispetto all'originale. In ogni caso il film resta il miglior adattamento cinematografico di un suo romanzo. Liliana Cavani ne ha tratto una sua personale e deludente versione nel 2002, Il gioco di Ripley con John Malkovich protagonista. Nel cast segnaliamo i due ottimi attori principali, Bruno Ganz e Dennis Hopper, e il cameo di alcuni registi associabili al genere gangster come Samuel Fuller, Nicholas Ray e Jean Eustache.

Voto:
voto: 4/5