venerdì 30 aprile 2021

Cold Fish (Tsumetai nettaigyo, 2010) di Sion Sono

Shamoto ha un piccolo negozio di pesci tropicali e una figlia, Mitsuko, che non tollera la sua seconda moglie, causando spesso problemi in famiglia. Quando la ragazza viene fermata per taccheggio in un supermercato, Shamoto fa la conoscenza di Murata, un uomo dai modi amichevoli e dall'eloquio facile, che li aiuta spontaneamente, convincendo l'esercente a non sporgere denuncia. Da quel momento le due famiglie diventeranno amiche e inizieranno a frequentarsi, anche perchè Murata fa lo stesso mestiere di Shamoto, ma con un volume ben superiore di affari e di introiti. Il benefattore assume persino la giovane Mitsuko nel suo grosso centro vendita di pesci d'acquario, in modo da tenerla lontana dalla strada e dai guai. Ma, a mano a mano che il rapporto s'intensifica, Shamoto si rende conto che il fascinoso Murata cela un terribile segreto. E, dopo averlo scoperto, non potrà più tornare indietro. Inquietante horror sociale di Sion Sono, probabilmente il suo film più nero, duro e cruento dal punto di vista visivo. Fin dall'inizio si capisce che qualcosa non quadra ma, addentrandosi sempre più nel vortice oscuro della famiglia di Murata, si viene travolti da un escalation disturbante di sangue, violenza e sesso "malato", con scene esplicite e dirette che risparmiano ben poco allo spettatore. Ma il tutto viene in parte mitigato dalla consueta stilizzazione sopraffina tipica dell'autore e da uno strano umorismo grottesco che, se da un lato attenua, dall'altro stranisce. Incredibilmente questa sordida vicenda intrisa di odio e malvagità è ispirata da un fatto di cronaca realmente avvenuto in Giappone negli anni '80, come a dire che, molto spesso, la realtà sia ben peggiore della fantasia. A riscattare il tutto dalle possibili accuse di sadica exploitation o di pura "macelleria", c'è l'evidentissima valenza metaforica di cui il film è carico. Pur nella sua irrefrenabile progressione geometrica di brutalità e di morte, in cui ogni aspetto è idealmente "insanguinato", l'autore accorda il metronomo della violenza sulla situazione sociale del suo paese, mettendo nel mirino della sua critica il fallimento del modello di famiglia patriarcale e la voracità insaziabile del capitalismo che ha corrotto l'antica anima nobile del Giappone, provocando, da un lato, un senso di smarrimento e, dall'altro, una feroce competizione che, unita alla complessiva perdita di valori morali, diventa una sorta di "educazione al crimine", ovvero ad uno stile di vita aberrante e disumano. Sono altresì presenti, ma in maniera più limata, allusioni alle responsabilità negative dell'approccio repressivo della religione, che, con il suo miope negazionismo dei reali bisogni dell'uomo, diventa un fattore traumatico durante l'età giovanile. Le allegorie sono ben chiare e, piaccia o meno, conformi alla poetica "eretica" dell'autore, a cominciare dal titolo emblematico, che ha una doppia valenza: il pesce freddo è il pasto che si dà all'alligatore, ovvero il più grande mangia il più piccolo (la logica del capitalismo). Ma è anche la caratteristica di essere "a sangue freddo", ovvero impassibili di fronte al dolore altrui, all'ingiustizia, ai crimini più tremendi, alla morte. Ed è esattamente questo l'atteggiamento stilistico tenuto da Sono nel corso della finale progressione violenta della pellicola: freddezza, distacco, impassibilità. Il vertiginoso contrasto tra la ferocia visiva, l'aggressività ideologica e la perfezione formale, sono il punto di forza indiscutibile di quest'opera di raggelante durezza.
 
Voto:
voto: 4/5

Guilty of Romance (Koi no tsumi, 2011) di Sion Sono

Nel quartiere a luci rosse di Tokyo viene ritrovato un corpo di donna orribilmente mutilato e privo di testa, del quale è difficile l'identificazione. La poliziotta Kazuko Yoshida indaga sui casi di ragazze scomparse e sofferma la sua attenzione su due di queste: Izumi e Mitsuko. La prima, Izumi, è moglie devota di uno scrittore egocentrico e anaffettivo, che le concede solo un rapporto platonico. Repressa e frustrata, la donna si fa irretire dalla misteriosa Mitsuko, che ha una doppia vita: di giorno è una impeccabile professoressa universitaria e di notte si prostituisce nei quartieri malfamati. Mitsuko conduce Izumi in un mondo oscuro e perverso, prima come "attrice" di film porno amatoriali e poi come escort di alto bordo. Izumi si sente finalmente appagata sessualmente e la sua vita cambia prospettiva. Ma ogni cosa ha il suo prezzo e se ne accorgerà ben presto. Torbido thriller ad alto tasso di erotismo e violenza di Sion Sono, un viaggio disturbante (ma esteticamente seducente) nei meandri più oscuri dell'animo umano, tra vizio, trasgressione, depravazione, solitudine e tormento. E' un film nichilista e disperato, del tutto privo di sensualità perchè l'atto erotico viene sempre visto come una necessità compulsiva, un'urgenza feroce, una prestazione cinica, associabile al senso di fallimento interiore, all'incapacità di accettare la vita, di provare empatia verso il prossimo e, quindi, alla ricerca inconscia della morte. Il contrasto tra la crudezza estrema dei contenuti e la splendida impaginazione formale (con immagini ricercate ed un raffinatissimo uso dei colori) è straniante e induce un senso di voluttuoso smarrimento, di attrazione e repulsione, alludendo al voyeurismo intimamente connesso alla magia del cinema. Il corpo è uno dei principali elementi su cui l'estetica "feticista" di Sion Sono pone la sua attenzione. Ma stavolta, più che di idolatria stilistica, si tratta di uno sguardo estremo, tragico, angosciato, che intende esprimere il profondo disagio collettivo della società giapponese, un intimo senso di alienazione, di isolamento, di inadeguatezza, dal quale non esiste possibilità di purificazione. La caduta negli inferi più profondi della natura umana viene rappresentata con toni da incubo, ambienti lugubri, aggressioni emotive, traumi nascosti, situazioni kafkiane, desiderio di auto-disfacimento per perdersi nel lato oscuro, fino a diventarne parte integrante. C'è una scena, potente, emblematica e a suo modo straziante, in cui Izumi è nuda davanti allo specchio e ripete ossessivamente una frase, scioccamente allusiva, come un mantra sinistro. E' in quel momento che avviene la "metamorfosi", il passaggio al di là dello specchio e l'incontro irreversibile con il proprio dark side. Non a caso una delle fonti di ispirazione del regista è stato "Il castello" di Kafka, la cui forma inconfondibile (e inaccessibile) ricorre in vari momenti del film, alludendo quindi chiaramente a frustrazione, estraniazione ed impossibilità di catarsi. Esistono due versioni del film: quella integrale di 141 minuti e quella uscita in Europa (ma non in Italia), che ha pesanti tagli di circa 30 minuti complessivi. I "coraggiosi" che volessero cimentarsi nella visione, farebbero bene a ricercare la versione completa, perchè chiarisce meglio la sua struttura di intimo dramma sulla vita di tre donne (Izumi, Mitsuko e Kazuko). Invece nella versione "europea" gran parte dei dettagli sul personaggio della detective vengono perduti, rendendola una figura quasi marginale e alterando, quindi, il senso originale dell'opera.

Voto:
voto: 4,5/5

Love Exposure (Ai no mukidashi, 2008) di Sion Sono

Yu è uno strano ragazzo, figlio di un ex prete cattolico, orfano di madre, ossessionato dalla Vergine Maria e dall'intimo femminile che si compiace di fotografare per strada, travestendosi da ninja, sbirciando con l'obiettivo sotto le gonne delle passanti. Dopo aver acquisito una bella "sorellastra" di nome Yoko (figlia della nuova focosissima amante di suo padre), s'innamora perdutamente di lei, ma la ragazza pare alquanto incerta sul suo orientamento sessuale. Ma una delirante setta religiosa, chiamata "Chiesa Zero", inizia a interessarsi a loro, per motivi poco rassicuranti. Alla guida della congrega c'è Koike, una dark lady (ma vestita sempre di bianco!) senza scrupoli, abilissima a manipolare con l'arma della seduzione. Love Exposure è il film più ambizioso e indecifrabile di Sion Sono, probabilmente il compendio di tutta la sua arte, delle sue ossessioni e della sua estetica visionaria. Tutto questo è evidente già solo per la durata da "kolossal" (fu realizzato inizialmente come un'opera di 6 ore, poi ridotte a 4 per le pressioni della produzione), anche se il regista (che è pure un gran burlone) si è sempre divertito a definirlo un "b-movie". E del "b-movie" possiede la follia anarchica, la libertà impudente, la leggerezza espressiva, ma, diciamolo chiaramente, questo 16-esimo lungometraggio del grande autore giapponese è un capolavoro di post-modernismo, un'opera sgargiante e complessa, esagerata e stratificata, che brilla di luce propria per coraggio, anticonformismo, estro creativo, sperimentazione, citazionismo, sarcasmo, fiera autonomia. E' un film transgender, pervaso da sregolato e orgoglioso trasformismo, quasi indefinibile, sicuramente non riducibile ad una singola stringente classificazione. Cambia ritmo e tono in continuazione e attraversa con disinvoltura molti generi e tendenze, passando dal melodramma romantico alla commedia demenziale, dallo splatter al cinema d'azione, dalla critica sociale all'ironia grottesca, dall'erotico alle riflessioni esistenziali, in un caleidoscopio che, indubbiamente, un po' stordisce, a volte sconcerta, altre volte diverte di gusto, ma riesce incredibilmente a mantenersi in equilibrio, senza smarrire il filo della coerenza. Tra colpi di scena, trovate geniali e momenti kitsch, questo magma pulsante si mantiene fluido e distribuisce acidi fendenti alla religione, all'educazione repressiva, al patriarcato familiare, alla società moderna, alla faciloneria credulona, al moralismo bigotto. In questo film-manifesto l'autore realizza concretamente la sua teoria meta-cinematografica della disarticolazione dei generi, in nome di una espressività non recintata da schemi e classificazioni, ma audacemente libera. Anche la colonna sonora è sintonizzata sulla follia impudente del film, e spazia senza freni dal "Bolero" di Ravel al rock psichedelico, senza dimenticare il moderno pop giapponese, con un effetto suggestivo e straniante, a volte ben riuscito, altre volte meno. Meriterebbe il voto massimo per il coraggio, lo stile visivo e l'impagabile "indecenza", ma in 4 ore di durata qualche colpo a vuoto è quasi inevitabile. In Italia non è mai stato distribuito in sala, nè mi risulta che sia mai stato doppiato nella nostra lingua. Il pubblico non amante delle pellicole orientali o del cinema d'avanguardia farebbe meglio a starne alla larga. Per i cinefili filo-asiatici è un must.

Voto:
voto: 4,5/5

Suicide Club (Jisatsu sâkuru, 2001) di Sion Sono

In una stazione della metropolitana di Tokyo un gruppo di 54 studentesse si gettano sotto il treno in arrivo, sorridendo e tenendosi per mano. Da quel momento la città viene sconvolta da una serie di suicidi inspiegabili. Un detective che indaga sul caso è convinto che dietro a questo orrore ci sia un misterioso sito internet che sembra prevedere gli eventi prima che accadano. Capolavoro horror visionario di Sion Sono, sotto forma di metafora sarcastica, crudele e agghiacciante, sul disagio alienante della società moderna (giapponese, ma non solo). Il capitalismo ha imposto la sottocultura di massa, la "religione" dell'apparire e del benessere materiale, un diabolico e incessante lavaggio di cervello collettivo che ha annullato il concetto di individuo, cancellato ideali e speranze, annichilito la spiritualità, barattandole con preconfezionati modelli usa e getta di mode, tendenze, brand, slogan, terminologie incomprensibili, beni di consumo, acquisti veloci e compulsivi, esperienze virtuali, tv spazzatura, ricerca ossessiva (e impellente) di piacere, potere, ricchezza, bellezza, pseudo-felicità. E tutto questo all'insegna di un insano senso di competizione, di arrivismo, di prevaricazione e di indifferenza sociale. La massa e la morte sono alla base di questo straniante film di denuncia, che utilizza il linguaggio dell'horror per centrare il cuore del problema e per far arrivare a tutti il suo messaggio, utilizzando, con subdola perfidia grottesca, un meccanismo molto simile all'oggetto della sua critica. Liberamente ispirato ad un fumetto di Usamaru Furuya (da cui Sono ha tratto anche un libro), sa essere straniante, disturbante, geniale e ferocemente ironico nell'esposizione della sua tesi. I tempi e i modi sono quelli tipici del cinema asiatico (estremi, liberi, dissacranti) ed è quasi impossibile che una pellicola del genere possa essere prodotta in occidente o che venga apprezzata dalla maggior parte del pubblico, a meno che questo non sia culturalmente "connesso" (o naturalmente affine) con questo tipo di cinema. Il suicidio è fortemente intrinseco al retaggio culturale giapponese, a causa dell'antico rito del seppuku, reso celebre in tutto il mondo da maestri come Kurosawa o Kobayashi, che sono stati facilmente "esportati" all'estero. E' per questo che Sono sceglie il suicidio come atto supremo della sua accusa sociale, ma lo spoglia di ogni significato "sacro", rituale, individuale, disperato, catartico, espiativo, per renderlo invece di massa, improvvisato, aggressivo, piacevole, politico. Da segnalare la gustosa citazione della busta di plastica "volante" di American Beauty (simbolo della bellezza del mondo ormai per tutti "invisibile") e il delirante personaggio di "Genesis", perfetta icona glam-rock (vagamente ispirata al dottor Frank-N-Furter di The Rocky Horror Picture Show) che incarna il kitsch, l'indifferenza e lo spietato cinismo del mondo contemporaneo.
 
Voto:
voto: 4,5/5

Il regno d'inverno (Kis Uykusu, 2014) di Nuri Bilge Ceylan

C'è un luogo remoto dell'Anatolia centrale in cui le antiche case sono ricavate nella roccia, con cui formano un tutt'uno. Aydin è un attore in pensione che gestisce un hotel in quella zona, insieme alla giovane moglie Nihal e alla sorella divorziata. Durante il periodo invernale la neve copre ogni cosa e la regione resta isolata. Costretti nel confortevole albergo-rifugio i due coniugi vedono affiorare conflitti e risentimenti della loro relazione. Maestoso dramma psicologico introspettivo di Nuri Bilge Ceylan, al suo settimo lungometraggio, sospeso tra atmosfere rarefatte, panorami mozzafiato, dilemmi etici, ambienti opprimenti, tensioni emotive, dialoghi profondi, sfumature psicanalitiche, "processi" a porte chiuse. E' un film lento, remoto, importante e denso, dagli echi bergmaniani, sospeso nel sonno invernale del titolo anglosassone, che affronta dall'interno la tematica degli equilibri di potere nei rapporti di coppia, di classe e di lavoro, senza dimenticare aspetti politici come il ruolo femminile all'interno della civiltà islamica, dominata da un paternalismo maschilista millenario. Aydin è un uomo apparentemente buono e saggio (egli ne è profondamente convinto), ma è semplicemente il frutto naturale dell'ambiente in cui è cresciuto e del retaggio culturale-religioso che lo ha influenzato. Aydin è un uomo ricco ed ha un forte senso del possesso (economico, materiale, spirituale), per questo ritiene naturale che la bella moglie sia una sua esclusiva proprietà, come le case, l'albergo o i suoi componimenti e premi teatrali. Aydin è un vecchio patriarca che si è costruito il suo personale regno appartato, dove gestire e controllare ciò che ritiene essere suo di diritto. E' da questo ambito che parte la storia raccontata nel film e prende le mosse il dramma, troppo a lungo sopito da tensioni represse e rancori nascosti. Il regno d'inverno è cinema d'autore di alta quota, sicuramente ostico per i mainstreamers, che richiede impegno, pazienza e riflessione, ma che ripaga totalmente le aspettative di chi nel cinema cerca la profondità del pensiero, lo stimolo intellettuale e la suggestione raffinata. E' anche cinema colto nella sua miriade di rimandi e citazioni "nobili" (Shakespeare, Cechov, Voltaire, Dostoevskij), cinema-teatro che contrappone la solenne angoscia degli interni all'abbagliante bellezza degli esterni naturali. L'albergo di Aydin, incastonato nella roccia degli altopiani anatolici, collocato fuori dal tempo e dal mondo, è un luogo interiore, una gelida allegoria, una torre d'avorio. E' la gabbia dorata in cui ataviche ideologie retrograde hanno recluso la libertà di pensiero, lo spirito indipendente, lo slancio vitale, l'idea anticonformista, l'autonomia personale, il diritto di dissenso, la dignità dell'uomo. O, forse, sarebbe meglio dire della donna. Ha vinto due premi "pesanti" al Festival di Cannes: la Palma d'oro e il Premio FIPRESCI.
 
Voto:
voto: 4,5/5

giovedì 29 aprile 2021

Poetry (Shi, 2010) di Chang-dong Lee

Yang Mi-ja è un'anziana badante coreana con un principio di Alzheimer e la passione per la poesia. Trascorre le sue giornate lavorando, occupandosi del nipote, osservando la natura e provando a scrivere versi poetici che annota minuziosamente su un taccuino. Ma un giorno la sua vita viene sconvolta da una notizia scioccante che cambia la sua visione delle cose. Il grande Chang-dong Lee continua la sua indagine sulla natura più intima dell'animo umano con un nuovo capolavoro, un film poetico che s'interroga sull'essenza della poesia (relazionandola strettamente alla vita) e sulla ricerca del bello. Il film stesso è pura poesia visiva, ora luminosa ora in penombra, accordato sui tempi lenti di una noiosa vita provinciale e sui percorsi tortuosi della mente della protagonista, soggetta a sbalzi di memoria e black-out improvvisi. Con una messa in scena semplice e possente, l'autore si sintonizza con lo stato emotivo di Mi-ja, con il suo sforzo di percepire la realtà in maniera diversa attraverso l'illuminazione dell'arte ed arriva lucidamente alle sue conclusioni: il tormento interiore, la difficoltà di fare la scelta giusta, il recupero di un'empatia collettiva anche ad un prezzo doloroso, sono le uniche strade possibili per arrivare al poetico, al sublime, allo stato di grazia dell'ispirazione. L'interpretazione statuaria e commovente di Yoon Jeong-hee (la più grande attrice coreana, tornata a recitare dopo alcuni anni di assenza appositamente per il regista) dona spessore, purezza, senso etico e profonda umanità al film. E la poesia diventa la bussola per orientarsi nelle tenebre che calano improvvisamente sulla sua vita, uno strumento "mistico" che non dona solo emozione e consolazione, ma consente la comprensione della reale natura delle cose, permette di accettare l'inaccettabile e dà la forza di scendere a patti con la propria coscienza. La forza di guardare negli occhi l'orrore e riuscire a reggerne lo sguardo. Il film ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura (a Chang-dong Lee) al 63-esimo Festival di Cannes.

Voto:
voto: 4,5/5

Oasis (Oasiseu, 2002) di Chang-dong Lee

Hong Jong-du è un giovane disadattato e con problemi psichici, dal fisico possente e il cervello di un bambino. Bistrattato dalla società, entra ed esce di prigione per atti violenti e stranezze di ogni tipo. Si assume la colpa di un incidente stradale in cui muore una persona e sconta due anni e mezzo di carcere. Alla sua uscita cerca, con grande difficoltà, di inserirsi nella società e va a porgere le sue scuse alla famiglia della vittima dell'incidente. Qui conosce Han Gong-ju, figlia dell'uomo ucciso, ragazza resa disabile da un ictus cerebrale e costretta su una sedia a rotelle. Tra i due nasce una strana e intensa relazione che viene però osteggiata da tutti per la loro condizione. Quando la famiglia di lei li sorprende in intimità, denuncia il ragazzo per violenza sessuale su disabile e Hong Jong-du ritorna di nuovo in carcere. Potente dramma sulla "diversità" di Chang-dong Lee, film "scandalo" annunciato al 59-esimo Festival di Venezia, dove ha vinto, tra scroscianti applausi, due premi: Premio speciale per la regia a Chang-dong Lee e Premio Marcello Mastroianni per l'attrice protagonista, Moon So-ri. Un film discusso ma non discutibile, un capolavoro di realismo, crudele e poetico, un atto di accusa e un grido di dolore, privo di conciliazioni e appoggi sentimentali, che colpisce duro lo spettatore al cuore e allo stomaco, ma che sa anche toccare emozioni profonde, grazie alla sensibilità del regista. Il suo linguaggio è semplice e diretto, è il linguaggio silenzioso del dolore, così disperatamente tenero da risultare disarmante. In molti hanno evocato il neorealismo italiano e lo stesso autore ha dichiarato espressamente di averlo utilizzato come fonte d'ispirazione per questo suo terzo lungometraggio. E' un film lungo, audace e anche faticoso, che suscita reazioni forti ed estreme (dal comico al tragico, dall'indignazione alla commozione), evitando sempre saggiamente le trappole della retorica e del pietismo, e non disdegnando sequenze brutali, quando necessario. Alcuni hanno criticato la scelta stilistica di mostrare le scene di sesso tra i due disabili protagonisti, ritenendole troppo "disturbanti". Ma, molto ingenuamente o in totale malafede ideologica, non hanno inteso che lo scopo del regista era proprio quello di provocare lo sdegno nello spettatore, per farlo poi sentire esattamente come i moralisti negativi del film, che agiscono (e giudicano) nello stesso modo. Assolutamente memorabili gli inserti surreali di geniale visionarietà (le luci-farfalle, la trasformazione di Han Gong-ju) e la scena della supplica all'amata fuori dalla finestra. L'oasi a cui allude il titolo è quella disegnata su una stoffa indiana appesa nella stanza della ragazza. Un luogo ideale in cui fuggire con la mente, per non sentirsi più diversi, ma solo innamorati.
 
Voto:
voto: 4,5/5

Ritorno a casa (Je rentre à la maison, 2001) di Manoel de Oliveira

Gilbert Valence è un grande attore teatrale impegnato nell'interpretazione de "Il re muore" di Eugène Ionesco. A fine serata gli viene data una notizia terribile, la sua famiglia (moglie, figlia, genero) è stata sterminata in un tragico incidente stradale. Gli resta solo il nipotino di 8 anni, di cui deciderà di occuparsi. Tempo dopo Valence riceve la proposta di interpretare per il cinema l'Ulisse di Joyce (in lingua inglese). L'uomo inizialmente accetta, ma poi è colto da dubbi, ansie, vuoti di memoria, e prende la sua decisione finale. Il 22-esimo lungometraggio di Manoel de Oliveira (girato all'età di 93 anni) è un magistrale esempio di cinema-teatro in foggia di dramma da camera, capace di fondere alla perfezione le due forme d'arte, rendendole complementari e non in competizione. Lucidamente amaro e stilisticamente soffice, con qualche lampo di ironico grottesco, alterna invenzioni registiche a lunghi piani sequenza, oscilla tra la vita e la recita, tra oggetti in primo piano e sentimenti celati, tra il proscenio e l'occhio della macchina da presa, tra il rimosso e il cosciente, tra l'interprete e il personaggio, tra il grigio della vecchiaia e la luce della giovinezza. Tanti temi, tanta vita, tanta arte, con il dolore (ma anche con la capacità stoica di sopportarlo) fedele e terribile compagno di viaggio, come un'ombra silenziosa. La metaforica sequenza delle riprese sul set dell'Ulisse è pura magia cinematografica, con il grande regista ultra-noventenne che dimostra di avere la verve creativa di un giovanotto e la saggia compostezza di un maestro che ha già dato tanto (ma ancora non tutto) alla settima arte. Straordinario il cast, con Michel Piccoli, Catherine Deneuve e John Malkovich, tutti bravissimi, ma Piccoli è da standing ovation e qualche premio l'avrebbe meritato. E, come in tutte le opere di de Oliveira, anche in questo grande film-recita non manca il tema della rinuncia, perchè il fine di ogni Odissea-vita non può che essere quello di un ritorno a Itaca-casa, il luogo in cui sentirsi protetti, chiudendo fuori il mondo e, forse, il dolore.

Voto:
voto: 4,5/5

La lettera (La lettre, 1999) di Manoel de Oliveira

Su consiglio della madre la giovane Mademoiselle de Chartres sposa un famoso medico, ma ben presto scopre di non provare nulla per lui. Sente invece una forte attrazione per Abrunhosa, un cantante rock molto conosciuto. Ma quando lui l'avvicina lei lo respinge, per non tradire il marito, e decide di confidarsi con la madre. Rimasta vedova continua a negarsi al corteggiamento di Abrunhosa, in nome della reputazione e di un forte senso di colpa. Il grande maestro portoghese Manoel de Oliveira ha adattato per il cinema un capolavoro della letteratura francese, "La principessa di Clèves" di Madame de La Fayette, spostandone l'azione dal '600 ai giorni nostri, ma senza perderne il senso intimo, le sottigliezze psicologiche e il tormento morale di fondo. La sua "rilettura" per il cinema è sontuosa, uno psico-dramma sentimentale sul rimorso e sull'incapacità umana di essere realmente felici nell'amore. Era quasi inevitabile che il regista di Oporto si confrontasse, prima o poi, con questo testo letterario, perfettamente nelle sue corde e nei suoi interessi, visto che il tema degli amori incompiuti è ricorrente nella sua filmografia. In questo film l'attenzione è rivolta ad un amore borghese, con una protagonista fragile, insoddisfatta e indecisa, che vive i sentimenti in modo oppressivo e che viene costantemente bloccata dalla paura di fallire. L'autore si mantiene, come da sua abitudine, freddo e distaccato nei confronti dei personaggi, non li giudica e non li assolve, ma lascia decidere allo spettatore se l'inconcludenza di Mademoiselle de Chartres sia un atto di "eroismo" o di mediocrità, o in quale misura dell'uno e in quale dell'altro. L'algida bellezza formale, la reticenza espressiva, la distanza emotiva, lo stile solenne, ne fanno un film difficile, per cinefili preparati o per appassionati del regista. Ma è impossibile non lodarne il rigore concettuale e la purezza analitica, a meno di non essere miopi. Il paradosso che dimostra la sua grandezza sta nel fatto che, pur essendo un'opera che ci parla di desiderio, questo non viene mai esplicitato in maniera canonica, pur avendo nel cast una protagonista brava e sensuale come Chiara Mastroianni. L'erotismo, indubbiamente palpabile a livello psicologico, resta sempre sotto traccia, accordando lo spettatore con l'animo del personaggio e rendendo "La lettera" (alludo al film, ma anche all'epistola dell'epilogo) una potente riflessione sul valore della rinuncia. Il film è stato premiato al Festival di Cannes con il Premio della giuria.

Voto:
voto: 4,5/5