giovedì 17 dicembre 2015

Star Wars - Il risveglio della Forza (Star Wars: The Force Awakens, 2015) di J.J. Abrams

Sono trascorsi 30 anni dalla battaglia di Endor e dalla fine dell’Impero galattico devoto al lato oscuro della Forza. Le forze del bene si sono unificate in una repubblica che ha nella “Resistenza” il suo gruppo più valoroso, invece quelle del male si sono radunate nel così detto “Primo Ordine”, in cui il giovane malvagio Kylo Ren è una delle figure emergenti. Tutti sono alla ricerca di Luke Skywalker, l’ultimo cavaliere Jedi che ha scelto di ritirarsi in un eremo segreto, la cui collocazione è nascosta in una mappa, affidata da un pilota in pericolo al piccolo droide BB-8. La ricerca affannosa del droide, della mappa e di Skywalker da parte del “Primo Ordine” dà il via alla nuova avventura in cui saranno coinvolti vecchi e nuovi protagonisti: il “pirata” Han Solo, la principessa Leia Organa (adesso divenuta generale della “Resistenza”), la giovane Rey, mercante di rottami di navi spaziali con un misterioso passato alle spalle, e lo Stormtrooper pentito Finn, rocambolescamente passato dalla parte dei buoni. Dopo il grande successo mondiale della vecchia trilogia originale, dopo la criticatissima trilogia prequel del nuovo millennio e dopo l’uscita di scena del “creatore” della saga, George Lucas, che ha lasciato la sua “creatura” prediletta nelle mani della Disney, il promettente J.J. Abrams ci riporta tutti nella “galassia lontana lontana”, con il film più atteso dell’anno: l’episodio VII di “Star Wars”. Ma la grande attesa non viene ripagata da quest’opera timida, derivativa, spettacolare, ma debole perché deficitaria di personalità e povera di idee. Contrariamente a quanto fatto con i due scattanti remake di “Star Trek”, energicamente rivitalizzati ed adattati alla sensibilità moderna, Abrams sceglie stavolta la via più facile e pavida, probabilmente intimorito di fronte al peso del mito di una saga così popolare e ricca di fans appassionati e “battaglieri”. E di sicuro anche la guida di una major ampiamente conservatrice come la casa di Topolino & co. ha giocato un ruolo decisivo nelle scelte di sceneggiatura, a cominciare dai due giovani protagonisti che sono all’insegna del più spudorato politicamente corretto dei nostri tempi: un ragazzo di colore ed un’intrepida eroina femminile. Il risultato finale è un film con scarso coraggio, un ricalco pedissequo e nostalgico, nella trama, nella struttura e nelle situazioni, del primo storico capitolo del 1977 (poi divenuto “episodio IV”), con l’aggiunta di echi da tragedia familiare ereditati dal successivo e più oscuro “L’impero colpisce ancora”. In tal senso chi ha parlato di malcelato “remake” più che di originale sequel non è lontano dalla verità. Ben vengano gli omaggi, le citazioni, i riferimenti ossequiosi, ma era lecito attendersi una maggiore esuberanza creativa e, soprattutto, la ricerca di nuove direzioni, pur nel rispetto dei cliché della saga. E se la cosa migliore di questo episodio VII è, senza dubbio, la dinamica e tormentata Rey di Daisy Ridley, le note più stonate arrivano dai presunti “punti forti” della vigilia: il nuovo cattivo Kylo Ren (deludente sia con sia senza maschera), che a tratti sembra una caricatura furiosa del celebre Darth Vader, ed il ritorno dei vecchi storici personaggi che appaiono stagionati, appesantiti, svogliati, un triste ricordo appassito degli eroi di una volta. Ed è forse questo il vero punto fermo che emerge amaramente dalle operazioni (commerciali) di questo tipo: i più terribili “mostri”, i più implacabili nemici, i veri “starkiller” sono gli anni che passano, impietosi e inesorabili. E non c’è Forza che tenga su questo punto, purtroppo.

Voto:
voto: 2,5/5

mercoledì 2 dicembre 2015

Il coltello nell'acqua (Nóz w wodzie, 1962) di Roman Polanski

Una coppia borghese, lui saccente e arrogante, lei vitale ma repressa dal marito ingombrante, raccoglie un giovane autostoppista mentre è in procinto di partire per una gita in barca sul lago. Colpito dall’aria sfrontata del ragazzo, l’uomo lo invita ad unirsi a loro per dimostrare di essergli superiore. La breve convivenza forzata nello spazio esiguo del natante darà origine ad una serie di eventi drammatici e imprevedibili. Una barca, un lago e tre protagonisti per lo straordinario esordio cinematografico di Roman Polanski, di certo uno dei debutti più lodevoli nella storia della “settima arte”. Il geniale regista polacco mette in scena un dramma teso e sottile, compensando l’apparente pochezza di mezzi con l’eccellente finezza psicologica che rende i personaggi figure emblematiche del crudele gioco della vita, svelando così il suo reale intento di lucido apologo sulla natura umana. Chi ci ha visto graffi polemici al regime socialista polacco, in particolare alla sua politica pavidamente “omertosa”, non ne ha inteso, a mio avviso, la sua più alta ambizione di parabola antropologica universale. Il rapporto che si instaura tra i tre personaggi, la tensione (anche sessuale) strisciante e palpabile, il gioco di sguardi, le frustrazioni taciute, la centralità della figura femminile (che è, al tempo stesso, testimone e strumento dell’azione), la contrapposizione tra il modello borghese e la ribellione giovanile, l’emersione inesorabile dei più primordiali istinti in condizioni di particolare promiscuità, sono solo alcuni dei tanti temi egregiamente affrontati da quest’opera complessa, possente, metaforica, sottilmente stratificata nei suoi numerosi piani di lettura. La sfida virile tra i due uomini va ben oltre lo scontro generazionale e la lotta di classe, e si erge a conflitto tra due mondi, tra due concezioni opposte della vita. Nel microcosmo rappresentato dalla barca, palcoscenico mobile del “duello”, assumono enorme valenza simbolica gli oggetti: l’acqua, elemento purificatore tipico del cinema di Polanski, il coltello e la stessa donna, visti come emblemi di possesso da difendere ad ogni costo o come, nel caso di lei, “premio” finale. L’epilogo torbido e ambiguo, fertile latore di ciniche vertigini morali, sposta il senso dell’opera su altri piani, ribaltando il senso iniziale della figura femminile ed esplorando i confini reconditi del complesso rapporto uomo-donna, di cui la declinazione matrimoniale è, probabilmente, quella più ipocrita. Quest’opera straordinaria, lucida e densa, sontuosamente impaginata nell’intenso bianco e nero, carico di contrasti, della fotografia curata da Jerzy Lipman, ha svelato al mondo il talento di Polanski ed è stata la prima pellicola polacca candidata all’Oscar di miglior film straniero, battuta solo dal capolavoro di Fellini, . Da segnalare anche la bella colonna sonora jazz di Krzysztof Komeda che fa da stridente contrappunto ai momenti di massima tensione psicologica del film.

Voto:
voto: 4,5/5

Mad Max: Fury Road (Mad Max: Fury Road, 2015) di George Miller

In un futuro distopico post apocalittico, la terra è un deserto inseminato in cui tribù di orribili feroci guerrieri combattono con violenza per il monopolio di quei liquidi che sono alla base della sopravvivenza: acqua, sangue e gasolio per gli automezzi “rinforzati”, vere macchine da combattimento su ruote, con cui scorrazzano per l’outback australiano. Il crudele capo della Cittadella, fortezza inespugnabile dei predoni, Immortan Joe, viene abbandonato dalla sua donna, “Furiosa”, che scappa via portando con sé un manipolo di schiave e concubine per tornare ai luoghi “magici” della sua infanzia, scatenando così l’ira del tiranno che sguinzaglia le sue schiere sulle loro tracce. Tra loro si frappone Max, guerriero solitario e taciturno, con un doloroso passato da dimenticare ed un futuro violento per cui combattere. L’australiano George Miller, salito alla ribalta negli anni ’80 per la saga fantascientifica di “Interceptor”, che fece di Mel Gibson un divo, si riprende, con sorprendente autorità, quello che è suo, regalandoci questo strepitoso reboot rivisitativo, adattandolo all’estetica moderna e realizzando, probabilmente, il miglior blockbuster del nuovo millennio. Rinunciando all’estetica da video game, tipica degli action moderni, e ricorrendo ad una sapiente fusione tra scenari reali, effetti speciali “artigianali” ed elementi generati in CGI, Miller mette in scena un universo stupefacente, abbacinante, visivamente superbo, frenetico e violento, una sorta di liturgia fantasy dedicata al Dio del Cinema d'azione, un mondo orripilante ed angosciante in cui la densità filosofica e l'astrazione pittorica, interne alle suggestive immagini, sono amalgamate in una miscela così furiosa e coerente da lasciare annichiliti. Il film è così intenso e dinamico, senza però mai smarrire ordine e coerenza espressiva, che si ricollega direttamente al Cinema nella sua essenza più pura e primigenia, quella in cui il movimento dell'immagine è tutto e lo sguardo dell'artista ne contempla, con estasi, il divenire. Con assoluta padronanza del mezzo e della tecnica, il regista supera, e di gran lunga, il livello stilistico, concettuale e tematico della sua vecchia trilogia, e ci catapulta in questo allucinato e magmatico mondo “on the road” fatto di azione violenta, a rotta di collo verso un continuo susseguirsi di scene memorabili, che danno forma pregnante alla fuga, all’inseguimento, sotto forma di un tour de force esplosivo, folle, rock, visionario nell’accezione più intima del termine. Senza rinnegare del tutto il look punk dei film precedenti, l’autore lo rinvigorisce con una forza visiva esplosiva, esuberante nella saturazione dei colori, nell’aspetto surreale, incredibilmente curato nei minimi dettagli, dei personaggi, sia nella bellezza che nella deformità, nel potente respiro epico degli scenari assolati e sterminati di un’Australia selvaggia e crudele, fieramente agli antipodi. Spettacolare e vertiginoso, ma anche denso di contenuti, Fury Road ridefinisce i confini stessi del genere action e del filone apocalittico, osando addirittura mettere in penombra l’antieroe Max, volutamente offuscato dall’energica “Furiosa” di Charlize Theron, autentica protagonista del film. Nel cast svettano i protagonisti principali, Charlize Theron, Tom Hardy e Hugh Keays-Byrne, tutti bravi e credibili. Nel suo genere è un capolavoro, un cult assoluto, un punto fermo e qualunque blockbuster a venire dovrà necessariamente confrontarsi con questo. Strabiliante e definitivo.

Voto:
voto: 4,5/5

Suburra (Suburra, 2015) di Stefano Sollima

Roma, 2011: nei sette giorni che vanno dal 5 al 12 novembre s’incrociano tragicamente i destini di personaggi deprecabili e reietti. Un politico corrotto, Malgradi, impelagato in loschi affari con la malavita e costretto a disfarsi del corpo ingombrante di una minorenne, che ha perso la vita durante un “festino” con l’onorevole a base di sesso e di droga. Il boss della mala romana, “Samurai”, unico sopravvissuto alla famigerata banda della Magliana, incaricato dalle cosche di condurre in porto un affare immobiliare milionario, per costruire una nuova Las Vegas sul litorale di Ostia, grazie a una serie di leggi compiacenti fatte approvare dal disonesto Malgradi. A questi si aggiungono una colorita banda di zingari dediti all’usura, un viscido organizzatore di feste mondane, una escort d’alto bordo, il turbolento capo della gang criminale di Ostia e la sua donna strafatta. E tutti saranno travolti da un perfido meccanismo criminoso che li condurrà, in modi diversi, verso la fine: quell’Apocalisse, civile, sociale, politica e morale, invocata fin dal prologo ambientato nelle austere stanze vaticane. Dal romanzo omonimo di De Cataldo e Bonini, Sollima ha tratto un cupo apologo sul malcostume dilagante dei nostri tempi, ispirandosi alla sordida realtà romana della mala politica, per evocarne figure verosimili ed emblematiche, evidentemente costruite sul fedele ricalco di quelle reali, che purtroppo affollano le tristi pagine di cronaca quotidiana. Con un taglio fieramente “di genere”, un’estetica prossima ai moderni prodotti televisivi sul mondo criminale, che hanno riscosso un enorme successo di pubblico, ed un ritmo incalzante che non dà tregua, scandito da una colonna sonora invasiva e pervasiva dall’anima rock, il regista laziale mette in scena un film nero, teso, ideologicamente furbo nel suo sensazionalismo populista, diretto con buon mestiere, intenso in alcune scene madri, efficace in quelle d’azione, ma debole in certe scelte cruciali di sceneggiatura, totalmente inverosimili. Nel cast corale spiccano il solito Favino, nel ruolo dell’infido Malgradi, e la Scarano, nei panni di Viola, sanguigna amante drogata di "Numero 8". Ma l’autentica protagonista è Roma, egregiamente ritratta con toni oscuri, tetri, sudici, in accordo alla materia trattata. Una Roma sporca ed austera, algida e distante, visivamente inquietante nella sua insolita veste piovosa, presente con così tanta pregnanza in tutte le scene del film da costituirne la cifra stilistica più intima. Una pioggia simbolica, un anatema naturale, un diluvio biblico, non un lavacro purificatore ma, piuttosto, una maledizione, una piaga, un cataclisma allegorico, che fa esplodere i tombini, ricoprendo tutto con il lercio fango che emerge dal sottosuolo di una nazione vittima dei suo stessi vizi e condannata dalla sua atavica debolezza etica. Aspettando l’Apocalisse, qui simboleggiata da due importanti eventi reali della cronaca recente, il lezzo immondo della corruzione deborda dagli infimi antri dell’antica Suburra romana (il luogo dove politici e criminali segretamente s’incontravano) per sommergere tutto e tutti, come un peccato originale troppo grave per essere perdonato. Più vicino alla (buona) televisione che al cinema d’autore, questo Suburra è figlio, legittimo, della nostra epoca, tra enfasi visiva, effettismo concettuale e scorciatoie ideologiche. Ma Sollima dimostra di saperci fare con la materia e ci regala più di una scena di notevole fattura, come quella, visivamente allucinata, in cui "Numero 8" guarda nel vuoto, di notte, e scrive sul vetro appannato, sognando le luci di Las Vegas e una tragica “grandezza” da impero del male. E intanto fuori piove, governo ladro!

Voto:
voto: 3,5/5

Spectre (Spectre, 2015) di Sam Mendes

Inviato in missione da un video messaggio della defunta M, 007 finisce tra le spire della SPECTRE, potente organizzazione terroristica su scala mondiale, il cui perfido capo, Blofeld, si rivela essere come causa di tutti i mali e le disavventure capitate al nostro eroe negli ultimi 3 film del nuovo corso. Con l’aiuto della bella figlia dell’ex nemico Mr. White, Bond combatterà, in giro per il mondo e senza esclusione di colpi, il letale nemico, emerso direttamente dalle nebbie di un doloroso passato. Girato in pompa magna e con ingenti mezzi tra Roma, Londra, Città del Messico, il Marocco e le nevi austriache, questo quarto capitolo dell’era Craig voleva essere il culmine del discorso iniziato, con ottimi risultati, nel 2006 con il folgorante Casino Royale. Dopo il grande successo mondiale del precedente Skyfall, Mendes ritorna al mondo patinato di 007 tra enormi aspettative generali e decide di tornare all’antico, abbandonando i punti di forza della nuova saga, in favore della spettacolarità esagerata, del Bond “super eroe” e dell’ironia delle pellicole con Roger Moore. In tal senso questo Spectre costituisce una grossa delusione, un maldestro ritorno al passato, un passo indietro e, quindi, il peggiore episodio tra quelli con Daniel Craig. E' evidente, fin dal titolo, la volontà di stupire, di enfatizzare ogni cosa, di creare un capitolo “bigger than life” ed è probabilmente già questo il "peccato originale" della pellicola perchè ne ha schiacciato la libertà espressiva già in fase di progettazione. Tutto è molto confuso, incerto, superficiale: la sceneggiatura esile, i personaggi poco convincenti, i dialoghi banali, con un'evidente senso di stanchezza generale ed un finale “fracassone” degno dei peggiori comic movies. Insomma ci troviamo di fronte ad un film “innocuo”, carente in personalità, scritto frettolosamente e diretto con il “pilota automatico” dal pur esperto Mendes. Il ritorno (dopo ben 44 anni) del villain più iconico della saga di 007, Ernst Stavro Blofeld, lascia altresì delusi per la scialba interpretazione di uno svogliato Christoph Waltz, che appare a disagio tra esplosioni, nevrosi “edipiche” e drammi familiari, francamente assai forzati e banali. Anche le Bond girl, dall’algida Seydoux alla nostra Bellucci, che appare per pochi minuti, si limitano al minimo sindacale. La sensazione che emerge è che sia già ora di cambiare nuovamente registro e che il nuovo, entusiasmante Bond di Craig sia già giunto al capolinea, e non nel migliore dei modi.

Voto:
voto: 2,5/5

Youth - La giovinezza (Youth, 2015) di Paolo Sorrentino

Fred Ballinger, direttore d’orchestra in pensione, e Mick Boyle, regista cinematografico ancora attivo, sono due anziani amici ottantenni, in vacanza riposo presso un prestigioso albergo, immerso nella quiete e nell’incanto naturale delle Alpi svizzere. Insieme a loro uno stuolo di giovani personaggi, tutti alla prese con problemi di svariata natura, fanno da cassa di risonanza alle riflessioni dei due amici, che vivono con nostalgica tenerezza il tempo che gli resta, tra rimpianti e disincanto, ciascuno con le proprie manie e le proprie convinzioni. Elegia surreale ed eterea con ambizioni di apologo esistenziale in cadenze lievi, malinconiche, attraversata da lampi grotteschi, momenti di visionarietà superiore, intimismo riflessivo. Con la consueta estetica finemente ricercata, che si traduce in un funambolico virtuosismo tecnico che dà origine a immagini straordinariamente potenti, Sorrentino dirige questo dramma dai toni leggeri, dedicato espressamente al grande e compianto Francesco Rosi. Come sempre con l’autore napoletano la confezione estetica è di prim’ordine, mentre il grande cast internazionale (Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano, Jane Fonda) riduce al minimo il rischio “camp”, che a volte si accompagna alle sue opere. Anche la sensazione di sfasamento tra un cinema stilisticamente “alto” e dei contenuti non sempre all’altezza, con conseguenti oscillazioni tra greve e sublime, viene qui ampiamente ridotta alle sole sequenze, troppe più che fuori luogo, in cui appare un obeso Maradona, uno dei principali ispiratori artistici del regista, parole sue. La nota lieta è che Sorrentino sembra, finalmente, sulla giusta via per limare i suoi eccessi guadagnandone in densità espressiva, coerenza tematica, rigore narrativo, con una qualità di scrittura non più così distante dall’enorme talento registico. Raffinato e provocatorio (fin dal titolo), amaramente serafico nella sua anticonvenzionalità espressiva, radicale nel suo elitario sentenziare, l’autore dà spazio agli interpreti (in particolare Caine e Keitel, bravissimi) per portare in scena emozioni, sentimenti, ricordi, attraverso una sottile riflessione sul senso ultimo della vita, sulla ricerca della bellezza (simboleggiata da una natura abbacinante ma anche dal corpo nudo ed “esplosivo”, di vitale sensualità, della splendida Madalina Diana Ghenea) in un’età “crudele”, schiacciata tra il peso del passato e la prossimità della morte. Tra ironia e tragedia il film levita verso un finale che rimanda lontani echi felliniani, che sembra dirci che l’unica via per “fermare” eternamente la giovinezza risiede nell’arte, nel gesto sublime che cristallizza l’attimo, sublimandolo al di là del tempo. Tutto il resto è malinconica routine. Sontuoso il lavoro attuato sulla cifra stilistica dell’opera: intensa, esuberante, capace di indurre, in certi momenti, una sensuale ebrezza nel perfetto mix di immagini e suoni, e con alcune sequenze memorabili come quella del sogno veneziano di Fred/Caine. Forse, a questo punto, Paolo Sorrentino è davvero prossimo a quella maturità artistica che lo porterà a realizzare il capolavoro che tutti aspettiamo, pur fedele alla sua naturale ispirazione: puntare molto in alto ma con i piedi piantati nella fanghiglia. E quindi, per dirla con Fred Ballinger, chiamatelo artista, non intellettuale.

Voto:
voto: 4/5

Il racconto dei racconti - Tale of Tales (Il racconto dei racconti, 2015) di Matteo Garrone

Tre storie ambientate in un barocco fantastico: una triste regina, ossessionata dall’idea della maternità, sarà costretta a mangiare il cuore di un drago marino per dare alla luce il proprio erede, ma il figlio tanto atteso non seguirà il percorso che la madre aveva immaginato per lui. Due sorelle, vecchie e laide, grazie ad un espediente riusciranno a catturare l’attenzione di un giovane re, erotomane lussurioso, che viene attratto dalla bella voce di una delle due. Un sovrano, che alleva in segreto una pulce gigante, organizza un torneo per trovare un degno marito alla sua bella figlia, ma il vincitore non sarà quello sperato. Ispirandosi alla più antica raccolta europea di fiabe, “Lo cunto de li cunti” (1636) di Giambattista Basile, in particolar modo a tre di esse, Garrone ha tratto un film potente, visionario, evocativo, una favola gotica, oscura e crudele, pervasa da forti pulsioni, che mescola abilmente l’orrido e il meraviglioso, il sublime e il grottesco, in un ardito caleidoscopio di pittorica fascinazione, assolutamente inedito per il cinema italiano moderno. Come sempre l’autore romano, pur esplorando territori inusuali come quello del “fantasy”, continua a parlarci dei temi cardine del suo cinema, ovvero vizi, passioni e debolezze umane, qui fortemente distorte sotto la lente fiabesca e, quindi, cosparse di un’aurea solenne, mitologica, emblematica. Pescando a piene mani dal materiale originale delle fiabe dialettali di Basile, Garrone lo ha coraggiosamente adattato, piegandolo, ai suoi stilemi ed alla sua libertà artistica, attuando un’ardita commistione estetica tra svariate influenze: dal cinema di genere italiano all’horror gotico, con spruzzi di commedia amara e di cinismo grottesco rielaborato in chiave fantastica, passando per quell’approccio “artigianale” che, fortunatamente, lo allontana dagli stereotipi del moderno fantasy hollywoodiano, e guarda dritto a quell’eroico cinema nostrano di geniali pionieri come Mario Bava. Dal punto di vista tecnico siamo di fronte ad un lavoro straordinario: la splendida fotografia “pittorica” di Peter Suschitzky e le musiche avvolgenti del premio Oscar Alexandre Desplat, intese ad esaltare la bellezza delle immagini, in cui spiccano i magnifici scenari naturali e storici del “belpaese”, da Castel del Monte al Castello di Roccascalegna, dalle gole dell'Alcantara ai “cavoni” della necropoli di Sovana. Nonostante la veste fantastica dal sapore mitologico, il film ci parla di temi sempre attuali, e quindi “moderni”, ergendosi a cupa riflessione sulla natura umana, di cui affronta gli aspetti più intensi ed abbietti, come la lussuria, la cupidigia, l’ego, con un risalto particolare per l’amore. L’amore del film di Garrone, presente in forme diverse nei tre episodi, che danno tutti risalto particolare alla figura femminile, è però un amore distorto, estremo, “malato”, un amore metaforicamente tossico che condurrà, inevitabilmente, a tragiche conseguenze. Nel cast internazionale spiccano Toby Jones e Vincent Cassel, mentre la messicana Salma Hayek non appare del tutto a suo agio nel ruolo fortemente ambiguo della dispotica regina, disposta a tutto per avere un figlio. E questo è, indubbiamente, uno dei punti deboli della pellicola, insieme ad alcuni effetti speciali relativi alle creature fantastiche non perfettamente riusciti. Garrone conferma il suo talento e la sua forte personalità artistica, rinnovando il nostro cinema contemporaneo e mantenendo i piedi ben saldi in quella gloriosa tradizione “di genere”, troppo rapidamente dimenticata.

Voto:
voto: 4/5

Il sospetto (Jagten, 2012) di Thomas Vinterberg

Lucas è un uomo mite e gentile che trascorre le giornate tra il suo lavoro in un asilo, le uscite con amici, il suo cane e le battute di caccia al cervo. Benvoluto da tutti, adorato dai bambini con cui lavora e con un matrimonio fallito alle spalle, cerca di trascorrere più tempo possibile con l’amato figlio adolescente, Marcus, scontrandosi però con l’ostilità caparbia della ex moglie. Ma un giorno la sua vita precipita improvvisamente nell’incubo quando una bimba dell’asilo in cui lavora, affascinata da Lucas e indispettita per il suo rifiuto di un “regalino” infantile, da lei amorevolmente preparato, inventa una terribile storia di molestie sessuali. Messo al bando dalla piccola comunità bigotta in cui vive, Lucas sarà costretto a lottare duramente per difendere la sua reputazione dal sospetto di tutti, compresi gli amici di una vita e le persone a lui più care. Dopo 15 anni e 6 film, Vinterberg ritorna ai temi portanti della sua opera più famosa e celebrata, Festen, ovvero la critica al perbenismo borghese attraverso una triste vicenda di abusi sessuali. Stavolta però il microcosmo ambientale viene allargato dalla famiglia ad una piccola cittadina danese, ma senza perdere il piglio della caustica denuncia antropologica, ed il punto di vista è totalmente ribaltato: infatti la storia viene raccontata dall’ottica della vittima, Lucas, innocente ingiustamente accusato da una bambina fantasiosa e condannato a priori da una società ipocrita e moralista, che non aspetta altro che poter puntare il dito su qualcuno, soprattutto se integerrimo nella reputazione, per sfogare la propria frustrazione repressa. Il tema della pedofilia, già affrontato altre volte dal cinema d’autore, diventa qui il motore dell’azione ma non ne costituisce il cuore principale. Vinterberg è, infatti, principalmente interessato a ritrarre il perverso meccanismo con cui la società cinicamente e sommariamente condanna, al verificarsi di determinati eventi, distruggendo la vita del proprio sventurato bersaglio in nome di facili dogmi (“i bambini dicono sempre la verità”) e di morboso cinismo, tramutando in un lampo il pettegolezzo in sicuro verdetto di colpevolezza. Lucas diventa quindi, rapidamente, il vicino scomodo, il nemico da abbattere, l’infame da allontanare, l’agnello sacrificale ricettacolo dei vizi e delle ombre di un’intera comunità, solo apparentemente impeccabile. Questo dramma teso e cupo, diretto con lucido rigore e sapientemente “asciugato” da ogni enfasi ridondante, è interamente poggiato sulle spalle (larghe) dell’ottimo Mads Mikkelsen, meritatamente premiato al Festival di Cannes come miglior attore, che qui ci regala un’interpretazione intensa e misurata di straordinario spessore. Il suo atteggiamento sempre controllato e pietoso nei confronti della piccola accusatrice ha qualcosa a metà strada tra l’adorabile e l’inquietante ed il finale del film, solo apparentemente conciliatorio, pone l’accento sulla scioccante capacità dei moralisti di passare dall’accanimento al senso di colpa, ponendo la medesima sbrigativa veemenza sia nella postuma consolazione che nell’infausta lapidazione. E l’immagine di chiusura sancisce inequivocabilmente come i cattivi sentimenti, quali diffidenza e propensione al losco, siano assai duri a morire, e come la “caccia” del titolo originale resti sempre aperta nei confronti delle vittime sacrificali. Con tutti i canoni ed i pregi del cinema nordico, questa vibrante denuncia sociale “a fari spenti” di Vinterberg meritava forse miglior sorte all’Oscar per il miglior film straniero del 2014, in cui venne battuto dal nostro La grande bellezza, sicuramente più sfarzoso dal punto di vista della tecnica cinematografica ma, probabilmente, meno compatto ed efficace.

Voto:
voto: 4/5

Passion (Passion, 2012) di Brian De Palma

Christine è una donna manager potente, ambiziosa e affascinante. Isabelle, fragile, volitiva e ricca di talento, è una sua dipendente. Tra le due donne si instaura un torbido gioco di manipolazione, seduzione, umiliazione e desiderio sessuale, che giunge al culmine quando Christine ruba una brillante idea lavorativa di Isabelle per fare un balzo in avanti nella propria carriera, provocando la reazione di quest’ultima che finisce a letto con uno dei suoi amanti. Quando la perfida Christine viene orribilmente assassinata, tutti i sospetti ricadono su Isabelle, che però ha un alibi di ferro. Thriller algido e patinato targato De Palma, che ritorna ai temi hitchcockiani a lui cari (come quello, evidentissimo, del doppio) ed alle proprie ossessioni personali, leggi marchi di fabbrica stilistici, ma con un risultato ben più fiacco e rigido rispetto alle sue opere migliori. Il geniale regista del New Jersey, capace negli anni ’80 di rivisitare Hitchcock, attualizzandolo con un rinnovato furore visionario e con suggestioni psicologiche di conturbante malia oscura, ritorna dopo dieci anni allo psico-thriller con questo film carico di manierismi ma povero di guizzi, stancamente derivativo rispetto ai ben più nobili predecessori. Dopo una prima parte piatta e prevedibile, la pellicola si risolleva, in parte, nella seconda, onirica e ambigua, grazie allo spostamento progressivo verso il punto di vista, obliquo e distorto, di Isabelle. Si passa quindi dal piano “reale” a quello soggettivo, introspettivo, psicologico, con l’immancabile volontà “voyeuristica” di giocare con lo spettatore, mettendo in discussione soggetto ed oggetto della visione e, quindi, il livello stesso di percezione. Ma siamo ben lontani dai vertici esaltanti del cinema di De Palma e la “passione” invocata dal titolo è solo un miraggio in un’opera “frigida”, del tutto priva di lampi sensuali. La sola scena degna di nota, in cui si rivede chiaramente il talento visivo del suo autore, è l’omicidio di Christine, sovrapposto in split screen all’opera teatrale a cui assiste Isabelle, per quanto queste tecniche siano tutt’altro che nuove per i fans del regista. Più che un film sbagliato è un film inutile, anemico, una copia sbiadita di cose già dette, assai meglio, in passato.

Voto:
voto: 3/5