giovedì 7 agosto 2014

Roma (Roma, 1972) di Federico Fellini

Affresco spietato, onirico, a tratti caotico, di una città, amata e odiata, che per il giovane "provinciale" Fellini è stata donna, madre, moglie e concubina. Inevitabilmente ispirato dalla vena autobiografica dell'Autore, che ne determina, allo stesso tempo, forza e debolezza, Roma  procede per episodi disconnessi ed autonomi, utilizzando la stessa formula sperimentata nel precedente I Clowns, in bilico tra ricordi personali, "falsa" indagine documentaristica e finzione cinematografica, per offrire una nuova immagine antirealistica della capitale, trasfigurata dai sogni e dalla fantasia dell’autore e dal suo originalissimo modo di guardarla e di interpretarne i molteplici e contraddittori aspetti. E’ un film non facile, a volte ermetico, profondamente felliniano, un'opera che non somiglia a nessun'altra. Solo Fellini ebbe, in cotanta misura, la magica capacità di creare spettacoli così ammalianti partendo dall'elaborazione del proprio mondo interiore, trovandovi l’ispirazione e l’estro creativo che conferiscono alle immagini dei suoi film l’inconfondibile esuberanza visiva, autentico marchio di fabbrica del Maestro di Rimini. Partendo dalla Roma fascista degli anni '30, rielaborata dai ricordi giovanili, fino a quella degli anni '70, Fellini realizza un insolito melange di indagine storica, cronaca e fiction, illuminato da uno struggente sentimento lirico e dalle suggestioni ovattate della memoria. Malgrado qualche caduta di stile, alcune invenzioni visive sono straordinarie: il defilé di abiti ecclesiastici, le case chiuse, il grande ingorgo notturno sul Raccordo Anulare. Alcuni grandi attori come Anna Magnani (che così chiuse la sua luminosa carriera), Alberto Sordi e Marcello Mastroianni appaiono in un cameo nel ruolo di se stessi, sebbene alcune di queste scene siano state poi eliminate in certe versioni circolanti del film. Nella memorabile filmografia di Fellini questa non è di certo la sua opera migliore ma, di sicuro, la più ineluttabile.

Voto:
voto: 4/5

Le notti di Cabiria (Le notti di Cabiria, 1957) di Federico Fellini

Le notti di Cabiria è uno dei film più noti del regista, ma, anch’esso, all’uscita, creò sconcerto per i continui slittamenti dai toni realistici della descrizione ambientale a una sorta di lunare astrazione, con momenti di magica sospensione (l’incontro con il mago durante lo spettacolo di varietà) o di accensione visionaria (la processione del Divino Amore). E’ però un film fondamentale nella carriera del Maestro di Rimini perchè segna il passaggio dal primo Fellini (diviso tra tensione morale, dilemmi religiosi, sensibilità sociale, autobiografismo e digressioni poetiche) a quello della maturità, più scettico e critico, in fuga da una realtà carica di angosce e funesti presagi verso un universo fantastico, fatto di ricordi, illuminazioni, miti personali, trasfigurazioni oniriche, tentazioni esoteriche, mistificazioni consolatorie, illusionismo magico.La storia della piccola prostituta "Cabiria" (Giulietta Masina, bravissima e premiata a Cannes), umiliata ed offesa ma salvata dall’istintivo vitalismo, non ha più né gli accenti tragici né quelli allegorici di una parabola sulla "grazia", come i precedenti La strada e Il bidone. Fellini manifesta un sempre maggiore scetticismo sui valori religiosi, denunziandone il sottofondo di credulità e superstizione, ed evolve verso un laicismo scettico e problematico, che esorcizza i dubbi dell’anima attraverso il potere liberatorio della fantasia. Pasolini collaborò con Fellini per la scrittura dei dialoghi. Il film fu insignito dell'Oscar come miglior film straniero, seconda volta per Fellini dopo La strada. Analogo prestigioso riconoscimento verrà poi assegnato anche a e Amarcord.

Voto:
voto: 4/5

Ginger e Fred (Ginger e Fred, 1985) di Federico Fellini

Piccolo, e ultimo, capolavoro del grande Maestro riminese è un tenero viaggio di due fantasmi del passato nella volgarità del presente, nel quale la satira delle "mostruosità" della vita moderna (in questo caso gli orridi spettacoli delle televisioni commerciali) si sposa a una vena nostalgica e malinconica, dalla quale scaturisce un lamento per il tempo perduto, la cui memoria assume la valenza di un antidoto alla trivialità contemporanea. La critica di costume di Fellini è, ancora una volta, profetica e penetrante, e colpisce con spietata precisione i network privati, la loro invadenza nel privato delle persone (già ben prima dei micidiali "reality"), il loro sensazionalismo e le spudorate ostentazioni di falso sentimentalismo, la loro natura biecamente commerciale con lo straripare di spot pubblicitari, la famelica capacità di divorare le loro stesse creature e sfruttare l’esibizionismo di personaggi bizzarri o sprovveduti, il finto luccichio e l’artificiale allegria di spettacoli cinici e superficiali col loro corredo di ballerine e imbonitori. La controparte poetica del film (la coppia di anziani danzatori, compagni di gioventù, logorati dall’esistenza eppure capaci di ricreare l’antica sintonia e una sorta di magica sospensione temporale) rende più struggente il rimpianto del passato e più sferzante la denunzia dell’imbarbarimento attuale. Ironico, amaro e toccante è il lascito di un genio che celebra la composta bellezza del passato rispetto al grossolano chiasso del presente. Bravissimi Mastroianni e la Masina.

Voto:
voto: 4,5/5

Anche i boia muoiono (Hangmen also Die, 1943) di Fritz Lang

Ambientato in una Praga onirica ed irreale, si ispira all'allora appena avvenuta uccisione del Reichsprotektor Heydrich in un attentato, per condannare la barbarie nazista ed esaltare i movimenti di resistenza. Ma i toni sono tutt’altro che celebrativi. Senza ancora conoscere esattamente lo svolgimento degli avvenimenti, Lang, con la collaborazione alla sceneggiatura di un altro esule illustre, Bertold Brecht, mette in scena il cupo ritratto di una città oppressa dall’angoscia, nel quale il forte risalto espressivo delle immagini e il clima di terrore si potenziano a vicenda. Immerso in una atmosfera da incubo (che richiama quella del capolavoro "M", con un sovrappiù di echi kafkiani, consoni all’ambientazione praghese), il film configura un ambiguo affresco sulla ribellione all’ingiustizia, ma anche sulla delazione e sulla menzogna e sulla relatività dei valori (qui l’eroe è un assassino, anche se l’ucciso è un aguzzino, gli indagatori sono nazisti impegnati in spietate rappresaglie, che la resistenza cerca di limitare, offrendo come "colpevole" un collaborazionista contro il quale, con la partecipazione dell’intera città, vengono fabbricate false prove). Le contraddizioni morali della vicenda suscitarono molte perplessità nella censura, che impose modifiche volte a una più netta distinzione tra buoni e cattivi, indebolendo un po’ il finale, ma il film resta uno dei più potenti e riusciti del grande regista. Fu candidato agli Oscar per le musiche.

Voto:
voto: 4/5

Metropolis (Metropolis, 1926) di Fritz Lang

E', probabilmente, il film più famoso, anche se non il migliore, del grande Maestro austriaco, di sicuro il più influente sulla cinematografia successiva e sull'immaginario collettivo. Ambizioso ed enorme apologo, proiettato nel futuro, su temi sociali di grande attualità e complessità (la lotta di classe, la dialettica capitalismo/socialismo, il controllo delle conquiste scientifiche, l’automazione e la conseguente disumanizzazione del lavoro operaio), ha il suo "problema" più vistoso nell'evidente divario tra l’imponente apparato scenografico e la fantasia visiva da un lato, e la fragilità, dall’altro, di un intreccio narrativo che mescola elementi troppo eterogenei (l’ambientazione futuristica, il romanticismo di stampo ottocentesco nel ritratto dello scienziato e dell’automa da lui creato, il sentimentalismo della storia d’amore e la superficialità della soluzione finale della pace tra padroni e lavoratori). Colpa soprattutto della sceneggiatura della Von Harbou, mentre tutti i meriti dell'opera vanno alla straordinaria regia di Lang, che inventa immagini di vibrante forza plastica, e, insieme, la visione fantastica di un mondo futuro che colpì indelebilmente la fantasia del pubblico. Il film fu un grande successo mondiale e resta una delle opere fondamentali del cinema muto. Praticamente ogni visione del futuro venuta dopo deve qualcosa al genio visionario di Lang.

Voto:
voto: 4/5

Vera Cruz (Vera Cruz, 1954) di Robert Aldrich

Secondo western di inizio carriera di Aldrich, è nettamente superiore al precedente (L'ultimo Apache) e figura tra i capolavori del regista. Spettacolare e, a tratti, travolgente, il film impressionò Truffaut, allora giovane critico dei "Cahiers du Cinèma", che lo definì "una smagliante lezione di costruzione di un racconto". In effetti, Vera Cruz evidenzia una maestria registica sostenuta dal puro piacere della "forma", che si traduce in uno spettacolo affascinante, sia a livello estetico che nel modo disincantato ed anticonformista di proporre i personaggi: a parte il protagonista Cooper, tutti gli altri sono cinici, infidi e disposti al doppio gioco, a cominciare dal formidabile "cattivo" interpretato con istrionica spavalderia da Lancaster. Vera Cruz è un western fondamentale anche perché ha influenzato i due registi che decreteranno la morte del genere. Da un lato Peckinpah, che, a partire da Sierra Charriba (Major Dundee, 1964), riprenderà dal film di Aldrich l’ambientazione messicana, lo schema dei gruppi di personaggi in lotta tra loro e contro tutti, e la visione di un mondo dominato dalle rivalità, dalla violenza e dal tradimento. Dall’altro lato Leone, che viene influenzato da Aldrich non tanto per la collocazione dei suoi western in Messico (per il quale Leone elimina ogni riferimento storico, trasformandolo in un "altrove" di pura fantasia), quanto per l’umorismo sarcastico, il beffardo cinismo e soprattutto per la caratterizzazione del personaggio-tipo interpretato da Eastwood, che discende in linea diretta da quello di Lancaster in Vera Cruz, la "carogna" affascinante ma spietata, il pistolero-mercenario infallibile con le armi e pronto a tutto per il denaro (molto più che dal Yojimbo di Kurosawa, dal quale Leone "rubò" la vicenda del celebre Per un pugno di dollari).

Voto:
voto: 4,5/5

Che fine ha fatto Baby Jane? (What ever Happened to Baby Jane?, 1962) di Robert Aldrich

Geniale thriller macabro di Aldrich nel quale il grande regista ritrova l’antico cinismo intinto di crudeltà e la smarrita maestria stilistica. Il film ha momenti di agghiacciante tensione e costituisce con i precedenti I diabolici di Clouzot del ’54 e Psycho di Hitchcock del ’60, la trilogia fondante del moderno sottogenere "shocker". Due vecchie sorelle (Bette Davis e Joan Crawford), l'una ex bambina prodigio e l'altra ex diva del cinema muto, ora costretta su una sedia a rotelle, vivono insieme un sadico rapporto di violenza psicologica e fisica, alternandosi nei ruoli di vittima e carnefice. Ciò che colpisce maggiormente è la notevole complessità di costruzione della storia, che innesta nella vicenda narrata (e sovrappone al disegno in nero dei personaggi) la reale rivalità divistica intercorsa tra le due ormai anziane protagoniste e nel ritratto sarcastico di una Hollywood abitata solo da fantasmi del passato (che rinvia al mitico Viale del tramonto di Billy Wilder) si legge il consueto atteggiamento critico del regista, ambiguamente nutrito di rancore e connivenza nei confronti dell’ambiente dello spettacolo. Il risultato è un inquietante saggio di cinema della crudeltà, restato memorabile per intensità emotiva, morbosità psicologica e molteplicità di piani di lettura. La Davis e la Crawford offrono due interpretazioni eccellenti, impegnate in una prova di alto virtuosismo istrionico, al punto che è arduo preferire l'una all'altra. Il film ebbe un grande successo, rilanciando la carriera di Aldrich che viveva un periodo di stasi, al punto che questi, due anni dopo, cercò il bis con un altro thriller gerontofilo, Piano, piano, dolce Carlotta (Hush, Hush, Sweet Charlotte, 1964), sempre con la Davis protagonista. Invero questo film voleva essere un sequel del fortunato predecessore, ma, in seguito al forfait della Crawford, il regista optò per una vicenda simile, ma diversa, accentuando la componente macabra e rendendo più evidenti i debiti con I diabolici di Clouzot. Altrettanto teso e riuscito del precedente, il film fu anch’esso un successo, ancorché meno eclatante.

Voto:
voto: 4/5

L'ultimo spettacolo (The Last Picture Show, 1971) di Peter Bogdanovich

Texas, anni '50: in un anonimo paese di provincia, privo di orizzonti sociali e prospettive culturali, tra le sue strade polverose spazzate dal vento, si intersecano le vite di due giovani amici: Sonny (Timothy Bottoms), invischiato in una relazione con una donna quarantenne e oppressiva, e Duane (Jeff Bridges), innamorato della bionda Jacy, bella e "difficile". Le vicende quotidiane, le liti e gli amori sofferti, si mescolano alla storia di una vecchia sala cinematografica, l'unica della piccola cittadina, che il vecchio proprietario, in punto di morte, lascia in gestione a Sonny affinchè non vada perduta. L'ultimo film proiettato nel piccolo cinema (Il fiume rosso di Howard Hawks) segnerà anche la fine della giovinezza, e di un'idea di mondo, per i protagonisti. Capolavoro assoluto di Bogdanovich che, in un elegante bianco e nero, ritrae con toni elegiaci, intrisi di malinconica partecipazione, il tramonto di un'epoca "ingenua", di un'America ai margini, ma ancora innocente, la cui coscienza sarà ben presto definitivamente sporcata dalla guerra di Corea e dai tragici eventi dei ribelli anni '60. Il parallelo tra cinema e realtà, entrambi inesorabilmente lanciati verso un fine ciclo, è di elevato spessore, per commistione emotiva, leggerezza del tocco ed eleganza di rappresentazione. Il ritratto antropologico è lucido e ricercato e mai più la provincia americana sarà rappresentata con analoga efficacia nei volti, negli sguardi, nei piccoli gesti quotidiani. Nel cast di prim'ordine furono premiati, con Oscar, Ben Johnson e Cloris Leachman come non protagonisti, mentre la carica sensuale della splendida Cybill Shepherd, al suo esordio, prorompe dallo schermo e lascia ammirati. Tra i tanti capolavori che il cinema americano ci ha regalato negli anni '70 questo memorabile "last waltz" texano è uno dei più intensi, raffinati e struggenti. Lo stesso regista ne girò un mediocre sequel, Texasville, nel 1990 con gli stessi attori.

Voto:
voto: 5+/5

Arancia meccanica (A Clockwork Orange, 1971) di Stanley Kubrick

Capolavoro controverso, ma straordinario, di Stanley Kubrick che suscitò un autentico caso alla sua uscita per le scene di violenza, divise la critica, appassionò il pubblico e fu ritirato anzi tempo dalle sale inglesi, paese in cui resta, a tutt'oggi, bandito. Tratto dall'omonimo racconto breve di Anthony Burgess, che mai si sarebbe aspettato un simile clamore mediatico con conseguente improvvisa notorietà, è ambientato in una Londra futuribile, sospesa tra Orwell e la "pop art", e racconta, in soggettiva, le "avventure" di Alex, giovane spiantato che trascorre le sue giornate tra indolenza, sesso, ultra-violenza, Beethoven, stupri, furti e omicidi insieme alla sua gang di sordide canaglie, denominati i "drughi". Ma un giorno finisce in carcere e viene "rieducato" con una terapia scientifica rivoluzionaria, sponsorizzata da un politico emergente a caccia di potere e denominata "trattamento Ludovico". La cura inibisce gli istinti violenti dell'uomo, inducendo una sensazione di generale malessere fisico che ne impedisce l'insorgere in presenza di situazioni "a rischio". Ma questo rende Alex un vegetale, una tigre senza artigli, incapace di difendersi da un mondo altrettanto violento che subito si approfitterà della sua improvvisa debolezza, e, più di tutto, finisce per privarlo della libertà di scelta, che è alla base dell'essere umano. Opera spiazzante e geniale, è un incubo distopico, raccontato in tono onirico, che abbraccia vari generi (fantascienza, dramma, horror, grottesco, critica sociale) e li trascende tutti per ergersi a formidabile trattato universale sul libero arbitrio e sull'ipocrisia del potere, più che sulla violenza come invece i più hanno voluto intendere. Dall'esile materiale narrativo di partenza Kubrick riesce a creare un mondo, e un linguaggio, che ci offrono un'agghiacciante visione di un possibile futuro, in cui gli elementi kitsch accostati a quelli avveniristici donano ulteriore contrasto, e quindi spessore, alle tematiche affrontate che sono enormi, attuali e capaci di suscitare profonde vertigini morali, come il film stesso. Altresì memorabile l'interpretazione di Malcolm McDowell, nel ruolo (della sua vita) del "drugo" Alex, che ci regala un formidabile cattivo a tutto tondo, ambiguo, suadente, sensuale, ammiccante, che si rivolge allo spettatore per tutta la durata del film, rendendolo partecipe e "complice" delle sue malefatte e delle ingiustizie subite. Il tono confidenziale di Alex (l'intero film ci viene mostrato attraverso i suoi occhi e con la sua voce fuori campo che fa da narratore) fu uno dei principali motivi di "scandalo" della critica benpensante, ma serviva a porre l'accento sui reali bersagli della pellicola: ovvero la violenza del potere compiuta in nome della "ragion di stato". Come sempre in Kubrick è fenomenale l'utilizzo delle musiche (in questo caso Beethoven e Rossini) e l'impianto tecnico, che ci regala immagini indimenticabili: ad esempio l'uso distorcente del grandangolo per favorire l'immersione nel mondo da incubo della folle mente di Alex o il fast motion nella scena di sesso occasionale, voracemente consumato con le "devocke". Menzione speciale anche per la fotografia e le scenografie: i colori saturati, la luce fredda, gli oggetti bizzarri, le geometrie stranianti che vogliono evidenziare, con metafore di ingegnoso vigore espressivo, la dissociazione morale del protagonista (sul filo continuo tra realtà e sogno) e lo strappo indotto dal dilemma etico alla base dell'opera, ovvero: privare l'uomo della possibilità di scelta è una violenza tollerabile per impedire altre violenze ? Arancia meccanica, opera cruciale e snodo problematico degli anni '70, è un memorabile apologo sul libero arbitrio, sul potere e sulla violenza, raccontato in chiave onirico fantastica. Resta a tutt'oggi insuperato per lucidità di concezione, acutezza della critica, visionarietà dello sguardo. E' il più geniale ed acuto contro-manifesto sulla violenza.

La frase: "Eccomi là. Cioè Alex e i miei tre drughi. Cioè Pit, Georgie e Dim. Eravamo seduti nel Korova milkbar arrovellandoci il gulliver per sapere cosa fare della serata. Il Korova milkbar vende "latte+", cioè diciamo latte rinforzato con qualche droguccia mescalina, che è quello che stavamo bevendo. È roba che ti fa robusto e disposto all'esercizio dell'amata ultraviolenza."

Voto:
voto: 5+/5