giovedì 31 luglio 2014

A proposito di Davis (Inside Llewyn Davis, 2013) di Ethan Coen, Joel Coen

New York, Greenwich Village, inizio degli anni '60: Llewyn Davis è un musicista spiantato, di buon talento ma di inetta pigrizia, che cerca di sfondare, nella musica e nella vita, passando da un locale all'altro, da un pubblico all'altro e da un altrui divano (dove dorme, non avendo fissa dimora) all'altro. Ritratto autunnale e malinconico delle radici della musica folk, prima che il geniale Dylan la cambiasse per sempre portandola verso vette ineguagliate di eccellenza artistica. I Coen attingono a piene mani da quel cinema colto, lucido e grottesco che amano fare e ci regalano un altro gioiello "piccolo", intimo, ma sontuosamente impaginato, attraverso il ruvido ritratto di un ennesimo, memorabile perdente. Tra personaggi "folkloristici", situazioni surreali ed i consueti tocchi di sapiente citazionismo, l'emozione della musica arriva forte e diretta ed esprime perfettamente il tormento interiore di una famelica generazione di sognatori a caccia del loro posto nell'American Dream. Ed il contraltare, il gelido produttore discografico che oppone la logica del profitto alle vibrazioni dell'arte, è un momento di impagabile cinismo in puro "Coen style", che marchia in modo definitivo la carriera di Davis ed il film stesso. Da segnalare, nel cast, oltre al bravo protagonista, Oscar Isaac, l'elegante Carey Mulligan ed un simpatico cameo del "fido" John Goodman. Premiato a Cannes con il Gran Premio speciale della giuria, verrà classificato come opera "minore" dei due fratelli del Minnesota, ma è, come al solito, da non perdere.


Voto:
voto: 4/5

Il capitale umano (Il capitale umano, 2014) di Paolo Virzì

Il livornese Virzì abbandona la commedia e ci regala il suo film migliore con quest'opera nera, ambientata in quella "Padania" brianzola che rappresenta il cuore economico pulsante del "belpaese" ma che ne incarna, altresì, la crisi, i vizi ed il senso di smarrimento. Liberamente tratto da un romanzo di Stephen Amidon, con l'azione spostata dagli Stati Uniti al nord Italia, questo undicesimo opus di Virzì è un amaro apologo sul degrado morale dei nostri tempi, sulla cupidigia di certi faccendieri che hanno rovinato il nostro paese e sulla crisi economica che per alcuni è un tragico nemico, per altri una cinica opportunità e per altri ancora uno scudo dietro cui nascondersi. Diviso in un prologo, 3 capitoli ed un epilogo ha la sua forza nella struttura "ellittica" (memore del Kubrick di Rapina a mano armata) che racconta ogni volta la medesima storia da un punto di vista differente, a seconda del personaggio protagonista della singola tranche. L'epilogo svela il "giallo" al centro della vicenda e chiarisce, beffardamente, il senso tragico del titolo. Fedele alla grande tradizione del nostro cinema d'impegno civile Virzì traccia un affresco desolante e spietato di certi aspetti della nostra società e lo fa con le "armi" tipiche della grande Commedia all'Italiana: corrosiva critica di costume, spietata analisi degli aspetti sociali più deteriori e feroce connotazione dei personaggi usati come simboli dei vizi nazionali: cinismo, egoismo, opportunismo, machiavellismo spinto fino all’attitudine criminale. Nel buon cast spiccano Bentivoglio, che porta in scena abilmente un "idiota" dei nostri tempi, tanto viscido quanto inquietante, e Gifuni, maschera monolitica di quel mondo finanziario che prospera sulle altrui sciagure. La comunità brianzola non ha gradito ma è chiaro che il film vuole offrire un quadro solo parziale, e per nulla esaustivo, della Brianza, del Nord e dell'Italia.

Voto:
voto: 4/5

venerdì 25 luglio 2014

The Departed - Il bene e il male (The Departed, 2006) di Martin Scorsese

Remake "ingigantito" di un misconosciuto noir "made in Hong Kong" (Infernal Affairs, 2002) egregiamente sceneggiato da William Monahan e diretto con mano sicura dall'esperto Scorsese che, pur limitandosi al lavoro "di routine", ha sempre piglio e talento necessari ad una storia "da strada" di questo tipo. New York cede il posto a Boston, la mala italiana a quella irlandese, gli spaghetti alla birra scura, ma la morale è sempre la stessa: un gruppo di "bravi ragazzi" che si "danno da fare" per ritagliarsi, con ogni mezzo, un posto di primo piano nel sogno americano. Il cast è sontuoso (Nicholson, DiCaprio, Damon, Wahlberg, Sheen sr., Alec Baldwin), il plot è un notevole intreccio, a più livelli, di vite clandestine, destini incrociati, doppi e tripli giochi, con un falso poliziotto ed un falso criminale che si contendono la piazza, la donna e la vita in una lotta (a distanza) senza quartiere. Il deus ex machina è un boss mafioso istrionico guascone (Nicholson) che cerca di gestire le vite di tutti ma ha anche lui i suoi segreti da custodire. Nel groviglio di sottotrame e personaggi a volte qualcosa non convince e Scorsese ha già detto tutto (e meglio) sull'argomento, ma il finale nero ha il sapore acre del sangue e cancella ogni dubbio con la sua trascinante forza nichilista, degno di una tragedia classica. Tra gli attori Wahlberg spicca su tutti i "mostri sacri", le musiche sono (come sempre) eccellenti e l'azione è ben alternata allo scandaglio psicologico dei personaggi, dando forse eccessivo spazio ad un DiCaprio troppo palestrato e troppo tormentato per risultare credibile. E' stato gratificato con quattro Oscar "pesanti" tra cui il dovuto, e tardivo, premio al grande Martin, omaggiato, nella sua meritata notte di gloria, dagli amici e colleghi di una vita: Francis Ford Coppola, Steven Spielberg e George Lucas. E' paradossale che, dopo tanti capolavori, Scorsese sia stato premiato dall'Accademy con un film "normale", ma la storia degli Oscar è anche questo. Nella filmografia, non sempre straordinaria, del grande Maestro italo-americano nel nuovo millennio è uno dei suoi risultati più convincenti. D'altra parte, vista la trama, il buon Martin giocava "in casa".

Voto:
voto: 3,5/5

martedì 22 luglio 2014

Contratto Per Uccidere (The Killers, 1964) di Don Siegel

Remake di uno dei grandi classici del cinema noir degli anni '40, "I gangsters" (The Killers, 1946) di Robert Siodmak, a sua volta tratto da una breve novella di Ernest Hemingway, inserita nella famosa raccolta "I 49 racconti". Sceneggiato dal poco noto Gene L. Coon, "Contratto per uccidere" è un film fondamentale per gli sviluppi del cinema noir: questo genere, nato negli anni '40 e contrassegnato da toni cupi e disperati, da ombre inquietanti, da paesaggi urbani notturni e da personaggi equivoci, sembrava legato agli stilemi del bianco e nero ed inesorabilmente avviato al tramonto alla fine degli anni '50, con il prevalere dei film a colori. Infatti il periodo classico (e aureo) del genere viene fatto convenzionalmente iniziare nel 1941 con "Il mistero del falco" di Huston e terminare con "L'Infernale Quinlan" di Welles nel 1958. Questo film di Siegel ebbe il merito, probabilmente involontario (ma i grandi registi riescono ad essere creativi anche nelle condizioni più improbe e nelle circostanze più imprevedibili) di inventare un nuovo modello di noir a colori, affrancando il genere dalle convenzioni che l'avevano caratterizzato e che ora rischiavano di imbalsamarlo. Stilisticamente il film è meno ricercato di quelli classici, ma dimostra la possibilità di utilizzare ambienti luminosi e colori vivaci per una storia di delitti e violenza, accentuandone anzi, per contrasto, l'impatto emotivo. Interessante, in tal senso, il confronto tra le scene di apertura dei due film: quello di Siodmak ha tutte le caratteristiche del noir classico, ambientazione notturna, giochi di ombre e luci, forte risalto espressionistico della fotografia in bianco e nero, movimenti della macchina da presa e angolazioni delle riprese tese da aumentare un clima di angoscia soffocante. Nel remake tutto avviene alla luce del giorno, i colori sono netti e precisi, solo gli improvvisi scoppi di violenza dei killers (e di ciò è debitore Tarantino) e qualche ripresa appena sbilenca comunicano la minaccia incombente. Rispetto al film di Siodmak, poi, quello di Siegel elimina i personaggi positivi dell'investigatore assicurativo e del poliziotto, eleggendo i killers del titolo originale a protagonisti assoluti di una vicenda dominata dalla violenza e dall'avidità. Raro caso di remake all'altezza dell'originale, il film si segnala anche come modello di "rifacimento", nel rispettare lo spirito della pellicola d'origine, operando però cambiamenti tali da essere opera autonoma e perfino innovativa (e, in un'epoca di remakes forsennati e dissennati come l'attuale, forse a Hollywood farebbero bene a riguardarsela). Spietato e pragmatico, come i due assassini nerovestiti e con gli occhiali scuri (il look delle "iene" di Tarantino non viene solo dai "blues brothers" ma soprattutto da questo film), "Contratto per uccidere" ha sequenze di violenza che hanno fatto scuola ed è un modello di concisione e di ritmo (notevole anche il commento musicale). Tra i protagonisti, formidabile Marvin (che, come Siegel, fu in qualche modo "lanciato" da questo film), ma da ricordare anche Cassavetes (regista importante ed elitario, che faceva l'attore per finanziare i propri film) e soprattutto Ronald Reagan, alla sua ultima interpretazione nella parte di infido e subdolo capogangster (quando poi diventò presidente USA molti ricordavano tale ruolo, divertendosi con abbinamenti satirici).

Voto:
voto: 4/5

L'inquilino del terzo piano (Le Locataire, 1976) di Roman Polanski

Trelkovski (Polanski) è un timido e modesto impiegato di origini polacche, che vive in Francia ed è alla ricerca di una casa a Parigi. Finisce per affittare un appartamento in uno stabile cupo ed inquietante, abitato da loschi e sinistri inquilini e dove ha precedentemente vissuto una donna, Simone Choule, che ha appena tentato di togliersi la vita buttandosi dalla finestra del palazzo. Trelkovski cerca di saperne di più sull'appartamento e si reca in ospedale a trovare la donna, ma sarà per lui l'inizio di un incubo ad occhi aperti, sempre più oscuro ed angosciante. Roman Polanski adatta il romanzo "Le locataire chimerique" di Roland Topor, per questo splendido incubo gotico, denso di suggestioni kafkiane e di elementi surreali, che fonde insieme thriller, horror, commedia nera e registro del grottesco. Questo film contiene tutte le ossessioni del grande regista franco-polacco e va a completare, insieme ai precedenti "Repulsion" (1965) e "Rosemary's Baby" (1968), un'ideale trilogia sul tema degli appartamenti inquietanti, ovvero dell'orrore indicibile che, a volte, si nasconde dietro la banalità del quotidiano (i vicini di casa o le persone che ci circondano). Grazie anche al superbo lavoro di fotografia di Sven Nykvist (tipico collaboratore di Bergman) il film ci regala atmosfere da incubo, splendide suggestioni orrorifiche in chiaro scuro e momenti di assoluta tensione difficili da dimenticare. Dal punto di vista tecnico la pellicola è di portata sontuosa: impossibile non citare, ad esempio, il grande lavoro fatto nelle inquadrature aeree ed i frequenti cambi di prospettiva con l'uso della Louma (una macchina da presa montata su un braccio meccanico telescopico), metodo che sarà poi imitato anche dal nostro Dario Argento in "Opera" (1987). In bilico perenne tra horror e black comedy, il film è un perfetto esempio di estrosa capacità nella fusione dei generi e di costruzione della tensione psicologica. Come un sogno, o meglio un delirio, sempre più tetro e stravagante, ci immerge nella mente di Trelkovski attraverso un viaggio denso di simboli e di metafore, dove tutto è suggerito e quasi nulla viene spiegato. Il labile confine sogno-realtà, follia-razionalità su cui si muove questo horror psicologico, conducono lo spettatore in un percorso straniante molto simile ad un labirinto fatto di specchi. I temi cardine, qui espressi con fertile ambiguità, sono la paura del "diverso", la moderna incapacità di comunicare e la solitudine che spesso ci accompagna pur vivendo tutti in promiscuità. Un altro tema, tipicamente polanskiano, è quello di come le apparenze, vedi il modo di vestire o di parlare, finiscano, spesso, per caratterizzare una persona o meglio il modo con cui "gli altri" ci vedono: come se finissimo per diventare "quello che sembriamo" piuttosto che "quello che siamo". I tanti simbolismi di natura psicoanalitica supportano degnamente le tematiche predette: il palazzo alveare che disgrega la psiche, i geroglifici sulle mura del bagno, il macabro orrore nascosto nelle pareti, le figure immobili dietro ai vetri, la metamorfosi finale, fino alla personalità multipla. Da segnalare pure una sensualissima Isabelle Adjani e l'eccellente lavoro fatto anche dal Polanski attore protagonista, che si doppia da sè anche nella versione italiana del film. Consigliato agli amanti degli horror psicologici non convenzionali.


Voto:
voto: 4/5

Il buono, il brutto, il cattivo (1966) di Sergio Leone

Capolavoro assoluto del genere "spaghetti western", conclude, nel 1966, la così detta "trilogia del dollaro" di Sergio Leone, e consacra definitivamente il grande regista romano sulla ribalta internazionale. E' uno dei cinque migliori western di tutti i tempi ed una delle vette indiscusse del cinema italiano. Amplifica al massimo quanto di ottimo già visto nei due precedenti film (Per un pugno di dollari e Per qualche dollaro in più), superandoli nettamente per concezione d'insieme, enfasi estetica, ampiezza di respiro, suggestioni visive, trovate geniali, dialoghi leggendari, personaggi iconici ed innalzamento definitivo dei toni verso un livello così grandiosamente epico da sfociare nell'iper-realismo mitologico agognato dal regista. Leone alza decisamente il tiro e fa tutto in grande: i protagonisti sono addirittura tre, c'è sempre Eastwood nei panni del pistolero senza nome (qui chiamato il "biondo") ma viene decisamente surclassato dagli altri due: il grande Eli Wallach, nell'indimenticabile ruolo di Tuco, bandito "sozzo" e ciarliero, autentica anima del film, ed un sinistro Lee Van Cleef, nei panni dello spietato mercenario detto "Sentenza". L'introduzione dello scenario storico, costituito dalla Guerra di Secessione tra Nord e Sud, dona al film un guizzo decisivo, ed impreziosisce l'intera vicenda con sapienti tocchi drammatici, caustica ironia nera e graffi politici di matrice iconoclasta nei confronti del mito americano. Il cinismo tipico dell'autore e la sua naturale sfiducia nel genere umano trovano qui la totale apoteosi con la rappresentazione di un mondo brutale e spietato, evidentemente popolato da figure archetipe, che sfocia nel manierismo più solenne, la cui dimensione barocca è seconda solo all'innegabile estro visivo che qui si sublima nel genio assoluto. Non è esagerato dire che questo film è, in tutto il suo corpo d'insieme, un unico momento cult di 180 minuti, nel quale è difficile scegliere una sequenza piuttosto che un'altra da consegnare alla storia. La perfetta adesione tra le musiche (ispiratissime come sempre) del fido Morricone e le immagini, in continua alternanza tra primi piani strettissimi e campi lunghi "infiniti", raggiunge qui vette di autentica perfezione, che possono essere degnamente rappresentate dalla leggendaria sequenza del "triello" finale che costituisce, probabilmente, l'apice del cinema di Leone ed una nuova frontiera dell'iconografia western. E se Peckinpah è stato, senza dubbio, il vate del nuovo western d'avanguardia anti-fordiano, allora Leone ne fu il partigiano più bellicoso.

La frase: "Vedi, il mondo si divide in due categorie: chi ha la pistola carica e chi scava. Tu scavi."

Voto:
voto: 5/5

Fuga di Mezzanotte (Midnight Express, 1978) di Alan Parker

Ispirato alla vera storia di Billy Hayes (personaggio reale tuttora vivente) e liberamente tratto dalla sua biografia, Fuga di mezzanotte è uno scioccante dramma carcerario che per forza espressiva, vigore drammaturgico ed intensità tematica si pone senza alcun dubbio tra le vette del genere. Sceneggiato da Oliver Stone (premiato con l'Oscar), diretto da Alan Parker, forte di un cast in stato di grazia e dell'indimenticabile colonna sonora del nostro Giorgio Moroder (anche lui premiato con l'Oscar), il film si impose all’attenzione internazionale per la drammaticità e la violenza dei fatti narrati, oltre che per il suo stile cupo ed angosciante, che fa letteralmente precipitare lo spettatore nel medesimo incubo del protagonista, rendendo il tutto un'esperienza impossibile da dimenticare. Impossibile non citare l'interpretazione "bigger than life" del protagonista Brad Davis, giovane brillante attore americano prematuramente scomparso nel 1991, nei panni di Billy Hayes. Ma anche i caratteristi come Paul Smith nel ruolo dello spietato aguzzino Hamidou, capo delle guardie carcerarie, o il nostro Paolo Bonacelli, che interpreta il viscido Rifki, offrono una performance difficile da dimenticare. Interamente costruito come opera "a tesi" filo occidentale contro le istituzioni ed il sistema carcerario turco, che ovviamente non gradì e protestò duramente all'uscita del film, la pellicola ha però i suoi indubbi meriti cinematografici che si evidenziano in un montaggio straordinario che trova la sua apoteosi nel memorabile incipit: l’intera sequenza dell’aeroporto è da antologia del cinema, con le perquisizioni, le guardie che parlano in lingua madre senza sottotitoli, il volto sudato di Billy nascosto dietro gli occhiali da sole e l’incessante battito del suo cuore che fa da metronomo allo svolgersi degli eventi, fino al momento della sua cattura proprio ad un passo dalla scaletta dell’aereo che lo avrebbe riportato in America. Un perfetto meccanismo di tensione allo stato puro, che ti inchioda alla poltrona fin dalle prime battute. La caduta nell’incubo avviene in modo graduale ma quasi inevitabile, con il processo farsa , l’untuoso avvocato d'ufficio e la ferocia della Corte che, per possesso di hashish, prima condanna Billy a 4 anni e 2 mesi e poi addirittura a 30 anni, in nome di una legge primitiva e disumana. Ugualmente memorabili i titoli di coda, con le fotografie che svelano la fine dell'incubo sulle incisive note di Moroder. Tra violenza, indignazione e commozione è una  fortissima esperienza di grande cinema dalla quale si esce stremati. Alan Parker riesce a coniugare le esigenze di impegno civile e riflessione sociale con un solido senso del dramma e dello spettacolo, malgrado qualche eccesso "spettacolare" fin troppo manicheo. Il film ebbe 6 nomination agli Oscar 1979 (tra cui miglior film) e ma dovette cedere i premi più prestigiosi al  formidabile Il cacciatore di Michael Cimino.

Voto:
voto: 4,5/5

I diabolici (Les diaboliques, 1955) di Henri-Georges Clouzot

Capolavoro di Henri-Georges Clouzot, uno dei padri del thriller moderno, che fu un enorme successo popolare e che portò definitivamente il genere verso uno stile più cupo e scioccante, sia nelle immagini che nei contenuti. E', senza ombra di dubbio, il miglior psico-thriller mai girato, insieme all'insuperabile masterpiece Psycho (1960) di Alfred Hitchcock. Clouzot, all'epoca giustamente definito, l'Hitchcock francese, è passato alla storia per il suo cinema "perfido" e "crudele", pur non raggiungendo mai la grande popolarità dell'illustre collega britannico. I diabolici è la sua opera più famosa ed uno dei suoi capolavori, e con esso ha influenzato enormemente tutta la cinematografia thriller successiva, dando vita ad un indiscusso modello poi da tanti imitato. Tratto dal racconto "Celle qui n'était plus" di Pierre Boileau e Thomas Narcejac, del 1952, il film ne esaspera magistralmente i contenuti morbosi, creando un'escalation di tensione, con alcune suggestioni che sfociano nel macabro e nell'horror, che ha pochi uguali nella storia del cinema. Parafrasando l'avvertimento inserito alla fine del film stesso, bisogna dire che questa è una di quelle pellicole di cui meno si parla della trama e meglio è: infatti uno dei suoi punti di forza risiede nel finale a sorpresa e nei colpi di scena che costellano l'avvincente narrazione. Ad un certo livello, il film è un "diabolico" apologo sui lati più oscuri dell'animo umano, che Clouzot è bravissimo a tratteggiare con il solito tagliente cinismo e la sua proverbiale misantropia. E' infatti quasi naturale leggere il film, non solo come un superbo thriller "a tinte forti", ma anche come un'amara riflessione sulla doppiezza della natura umana e sul male che spesso si cela sotto una facciata borghese e perbenista. Tutta la prima parte è descrivibile in tal senso, con una minuziosa presentazione dei tre personaggi principali, coinvolti nello scandaloso gioco a tre, che ne scandaglia perfettamente la psicologia, pur dando, a tratti, la sensazione di qualcosa di ineffabile che striscia sotto le apparenze. Anche i momenti di humour nero sono perfettamente integrati nel dipanarsi della vicenda e consentono di tirare un po' il fiato, in vista dell'allucinante crescendo finale, denso di sequenze shock memorabili, rimaste indelebili nella storia del cinema horror. Tra i personaggi protagonisti, tutti mirabilmente interpretati, resta indelebile l'immensa Simone Signoret (Nicole, l'amante) che dà vita ad una dark lady indimenticabile, ambigua ed erotica, che contrasta abilmente con la tenera ed indifesa Vera Clouzot (Christina, la moglie), succube delle angherie del perverso marito. Il regista è bravissimo nel riprendere le due donne con un gioco di sovrapposizione di immagini, come a rappresentare le opposte facce della stessa medaglia. In certi momenti sembra addirittura trasparire una labile tensione sessuale tra le due complici, ed anche questo elemento farà scuola nel cinema a venire, specialmente nei truculenti "spaghetti thriller" nostrani. Elemento cardine della pellicola è l'acqua, un tipico elemento di vita che qui diventa portatore di morte. Clouzot, in un ricercato gioco di dettagli e di allusioni, ce la presenta a più riprese: la pozzanghera che appare in apertura, la brina, la condensa, la goccia che cade, fino alla piscina ed alla vasca da bagno che resterà nell'immaginario collettivo.

Voto:
voto: 5/5

Pandora (Pandora and the Flying Dutchman, 1951) di Albert Lewin

La bellissima Pandora Reynolds, inquieta e sensuale, si prende gioco dei suoi numerosi spasimanti, finchè incontra un misterioso navigatore, di cui si innamora perdutamente. L'uomo però ha un tragico segreto e un destino fatale: egli è l'Olandese volante, condannato da Dio (per avere ucciso la moglie e peccato di blasfemia) a vagare sui mari, finchè non troverà l'amore di una donna disposta a morire per lui. Pandora è un melodramma appassionato e "fiammeggiante" (esteticamente esaltato dal technicolor d’epoca), che riesce a unire al rispetto dei canoni del genere, una notevole quantità di ulteriori motivi di interesse. Anzitutto la componente fantastica, con la leggenda dell'Olandese volante, e le conseguenti accensioni visionarie (che si potenziano con quelle propriamente passionali della vicenda). Poi il richiamo alla mitologia greca, fin dal nome della protagonista che è lo stesso della donna che, secondo la leggenda, scatenò sulla terra tutte le sciagure, contravvenendo agli ordini ed aprendo il vaso proibito in cui erano contenute. Ed anche le conseguenti implicazioni psicanalitiche, di natura subdolamente misogina, sul potere del fascino femminile, sull'attrazione della trasgressività e sulla natura "scandalosa" ed "eccessiva" della passione. Quindi il tema surrealista della forza dell'amore, capace di superare i confini della vita per acquisire risonanze ultraterrene (e da ciò derivano ulteriori suggestioni visionarie), che trova i suoi precedenti cinematografici in Sogno di prigioniero (1935) di Hathaway e Ritratto di Jennie (1949) di Dieterle. Altri elementi notevoli dell'opere sono i riferimenti pittorici alla tradizione fiamminga seicentesca e l'esuberanza barocca delle scenografie, lo straordinario uso del technicolor per "incendiare" lo schermo, in accordo con la trascinante forza delle immagini e il potenziamento della "retorica" del melò. E non va taciuta la consonanza tra il ritratto del personaggio femminile del film e la personalità della protagonista Ava Gardner, all'epoca donna bellissima, sensuale e spregiudicata, i cui amori tempestosi (da Sinatra a Walter Chiari) riempivano le cronache mondane dei rotocalchi anni '50. Insomma ce n'è d'avanzo per considerare questo film suggestivo, complesso, eccessivo e ammaliante, quindi un "unicum" cinematografico, un'opera insolita e perturbante, carica di richiami segreti e doppi fondi da esplorare, nella quale molti potrebbero vedere rispecchiati sogni, desideri e pulsioni nascoste (la componente onirica non è secondaria nella sottile capacità di seduzione del film). E' una delle massime espressioni del melodramma cinematografico.

Voto:
voto: 4,5/5