Rick
è uno sceneggiatore di Hollywood, donnaiolo incallito, con un padre anziano, un
fratello turbolento da tenere a freno e un vecchio dramma familiare alle
spalle. Egli trascorre le sue giornate nell’indolenza, tra feste mondane, ville
da sogno, eleganti piscine, donne bellissime e le strade di Los Angeles,
brulicanti di umanità. Ma dai suoi occhi traspare un intenso disagio
esistenziale, un tedio profondo che lo attanaglia, lo intorpidisce e lo fa vagare
come un sonnambulo inebetito, perso nella sua opulenta quotidianità, alla
disperata ricerca di un senso autentico. Obbedendo alla sua natura di
avventuriero romantico dalla sensibilità artistica, Rick vaga inquieto nel
mondo per trovare se stesso. “C'era una
volta un giovane principe che il padre, il re d'Oriente, inviò in Egitto a
cercare una perla. Ma, quando il principe arrivò, la gente gli porse una tazza.
Una volta bevuto, si dimenticò di essere il figlio del re, dimenticò anche la
perla e cadde in un sonno profondo”. Si apre con questa premessa fiabesca
l’opus n. 7 di Terrence Malick e suo penultimo film, dato che il successivo
documentario “Voyage of Time: Life's
Journey” è rimasto ancora inedito nel nostro paese. Una premessa carica di
risvolti allegorici che già contiene il senso intimo di quest’opera errante e
meditabonda, un viaggio interiore di possente fascino spirituale che insegue
quel barlume di mistico presente in ciascuno di noi. Il titolo è ispirato
all’omonima carta dei tarocchi, il cavaliere di coppe (da non confondere con il
fante!), che rappresenta la fantasia, l’amore e l’avventura, ma anche
l’insicurezza e la vulnerabilità se girata al contrario. E il film intero è a
sua volta suddiviso in otto capitoli
(più un prologo) recanti i nomi di carte dei tarocchi: la Luna, l'Appeso,
l'Eremita, il Giudizio, la Torre, la Papessa, la Morte, la Felicità. Ciascuno dei
segmenti è a suo modo unitario, una sorta di piccolo surrogato del film stesso:
in pratica ciascuna delle parti già contiene il tutto e la loro somma crea un
corpo unico, che le compenetra e ne replica la semantica, pur rispettandone
l'unità narrativa indipendente. Esiste un contrasto intimo e profondo alla base
del cinema di Terrence Malick: il contrasto tra la fulgida bellezza delle
immagini, la sontuosa impaginazione estetica che guarda al poetico, e quell’evidente
malessere di fondo, silente ma struggente, che traspare dai contenuti,
pacatamente narrati attraverso la dilatazione dei tempi, la ciclicità degli
eventi, le ellissi contemplative, i lunghi silenzi e la voce fuori campo, che
fa da metronomo al libero flusso di pensieri. Uno stream of consciousness che rompe gli schemi rigidi della
narrazione tradizionale, in favore di una maggiore densità concettuale e di
un’astrazione forse manieristica ma anche doverosa nel perseguimento ascetico
del sublime, del meraviglioso, del mistico che è, da sempre, l’obiettivo
principale del grande regista americano. Fedele (e quasi “prigioniero”) della
sua estetica “tirannica” e radicale, che nel tempo gli ha fatto ben meritare lo
status di autore di culto, Malick non si smentisce in questo suo nuovo lavoro,
che si muove sulla medesima scia dei due precedenti (The
Tree of Life e To
the wonder), pur mantenendo una propria salda autonomia artistica ed
una propria originale personalità. Come al solito il cast è stellare (Christian
Bale, Cate Blanchett, Natalie Portman, Antonio Banderas, Wes Bentley, Isabel
Lucas, Teresa Palmer, Freida Pinto, Armin Mueller-Stahl) e totalmente “in
balia” del geniale regista dell’Illinois, sempre più demiurgo di un’idea di
cinema alta, elitaria, coerente e profonda, lontana anni luce dalle regole di
quello showbiz hollywoodiano, che qui
viene amaramente deriso nella sua vana protervia edificata sul futile
materialismo e sull’ossessione dell’apparire. E, come sempre, la confezione
tecnica è di altissimo livello, incorniciata dalla sontuosa fotografia di Emmanuel
Lubezki e dalle affascinanti musiche di Hanan Townshend. E, ancora una volta,
se ci si abbandona e si è (ben) disposti a perdersi nel flusso di suggestioni
evocative e di allegorie ieratiche malickiane, il risultato sarà un’esperienza
indimenticabile. Una nuova odissea spirituale dell’uomo e nell’uomo, perché il
piacere del viaggio conta sempre più della meta.
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