Nell'America degli anni '50 il piccolo Sammy Fabelman vive nel New Jersey con la sua famiglia borghese: un padre mite costantemente assorbito dal suo lavoro di ingegnere elettronico, proteso verso la costruzione del progresso futuro, una madre passionale ed inquieta, che ha sacrificato una carriera da promettente pianista per crescere i figli, due sorelle e lo "zio" Bennie, migliore amico e collega di suo padre che trascorre tanto tempo con loro e che condivide attivamente tutti i momenti speciali dei Fabelmans. La visione al cinema de Il più grande spettacolo del mondo (The Greatest Show on Earth, 1952) di Cecil B. DeMille, cambierà per sempre la vita di Sammy, facendo nascere in lui una dirompente passione per i film e stimolando quella ruggente vena artistica insita nel suo animo ed ereditata da sua madre. Nonostante la reticenza del padre, che vorrebbe per lui un avvenire più affidabile e sicuro, Sammy, diventato adolescente, inizia a girare dei cortometraggi amatoriali, sceglie come compagna inseparabile una videocamera 8 millimetri e dimostra una sorprendente abilità nella creazione di immagini in movimento, appassionandosi sempre più a tutto il processo che attiene alla realizzazione di un film. I continui traslochi dovuti al lavoro paterno e la dolorosa scoperta che la sua famiglia non è così perfetta e granitica come le apparenze lascerebbero sembrare, provocheranno un profondo turbamento nel giovane Sammy. Uno strappo emotivo che culminerà con la fine dell'innocenza e la presa di coscienza che la vita reale sa essere ben più dura e meno confortante di quella raccontata nei suoi amati film. Tra patemi e ardori, paure e delusioni, il ragazzo troverà sfogo nella sua arte, avviandosi verso un radioso futuro da regista che non potrà essere ostacolato da niente e nessuno. Steven Spielberg ci ha sempre parlato un po' di sè, tra le pieghe nascoste dei suoi grandi film fantastici, spettacolari, carichi di sogni, di avventure e di buoni sentimenti. Il suo lato malinconico, dovuto ad un'infanzia carica di momenti meravigliosi e di sofferenze interiori è sempre stato presente sotto traccia, per coloro capaci di leggere sotto la superficie, lungo l'intero corso della sua straordinaria filmografia. Era quindi praticamente inevitabile che il grande regista americano arrivasse, fatalmente e naturalmente, a girare questo piccolo grande film autobiografico, intimo, nostalgico, fortemente sentito e delicatamente appassionato. Un film in cui racconta sè stesso, la sua famiglia, la sua giovinezza ed il modo in cui è diventato Steven Spielberg, il più grande narratore di "favole" moderne di Hollywood, in bilico tra avventura, azione, incanto e sentimento. L'erede naturale di quel Cecil DeMille che per primo lo lasciò a bocca aperta in un cinema di provincia, facendogli capire quanto grande fosse il potere immaginifico della settima arte. Tutto il cinema spielberghiano ruota, da sempre, anche nelle sue declinazioni più drammatiche e dolorose, intorno al senso di meraviglioso che i film possono suscitare negli spettatori, facendoli tornare bambini, facendoli soffrire e viaggiare con la fantasia, rattristandoli o entusiasmandoli, toccando le corde più intime di atavici sentimenti. E tutti i suoi temi, un tempo dispensati in "pillole" nascoste (persino nei suoi blockbuster più "insospettabili"), diventano, in questo suo ultimo lavoro, gli elementi essenziali e fondanti del racconto: l'incontro-scontro tra tecnologia e poesia, la formazione ebraica, l'enfatizzazione epica dei sentimenti, il mondo dei bambini opposto a quello dei grandi, il potere dei sogni, la ricerca del fantastico che diventa mito, il dolore dei figli per la separazione dei genitori, i nerd silenziosi e geniali bullizzati dagli spacconi muscolosi, il legame quasi indistinguibile tra cinema e vita, e, ancora una volta, la costante tensione spirituale verso il sublime, lo stupefacente, il bisogno del meraviglioso che alberga in ciascuno di noi e che la vita fa di tutto per cancellare, mortificare, calpestare e far passare in oblio. E' una fortuna che l'autore abbia deciso di realizzare questo suo personale "amarcord" in questa fase della sua carriera, illuminata dalla saggezza e mitigata dall'esperienza di un sognatore mai pentito ma, finalmente, sobrio, essenziale, adulto (nell'accezione più positiva del termine). Lo Spielberg di 20 anni fa lo avrebbe, probabilmente, rovinato e sprecato tra picchi di sentimentalismo ed eccessi languidi, finendo per andare fuori controllo in una materia fin troppo delicata e personale. Invece, lo Spielberg attuale, che da tempo ha scelto di allontanarsi dai kolossal faciloni sbanca botteghini, preferendo cullare una vena più intima ed autoriale, è riuscito a farne un'opera deliziosa e di classica misura, in bilico tra tenerezza ed incanto, che si prende tutto il suo tempo per raccontarci, in maniera squisita ed ispiratissima, alternando quadretti buffi a momenti drammatici, il lungo processo di formazione che ha fatto sì che un ragazzo ebreo di Cincinnati riuscisse a diventare il più famoso regista americano dell'età moderna. E' un film morigeratamente accorato che l'autore dedica alla sua famiglia (e a sua madre in particolare), a quei poli opposti rappresentati dai suoi genitori che hanno entrambi formato, con un imprinting profondo, aspetti diversi della sua personalità e della sua arte, sia nei momenti belli sia in quelli dolorosi. Ed è, soprattutto, un film dedicato al Cinema, alla sua capacità fatata di creare sogni, miti, iconografie che attraversano epoche e generazioni, diventando patrimonio emotivo dell'umanità. Proprio come lo sono diventati tutti i grandi capolavori spielberghiani, dagli anni '70 in poi. Tenendo volutamente fuori la Storia, ma rifugiandosi unicamente all'interno del proprio mondo, sia personale che familiare, Spielberg ci regala una lunga serie di sequenze magnifiche, poetiche, di dolcissima concezione e di rarefatta suggestione, stabilendo, forse definitivamente, un solido legame di comprensione emotiva con il suo pubblico, a cui mai si è raccontato prima con tanta sincerità e tenerezza. Impossibile non citare espressamente, nel lungo flusso del racconto autobiograficamente romanzato, la scena iniziale nel cinema, la danza nella luce dei fari della madre Mitzi o la struggente sequenza centrale del montaggio (climax della pellicola ed emblematica sovrapposizione tra arte e vita), in cui il giovane Sammy scopre una "terribile" verità, proprio grazie allo strumento più potente e paradigmatico del lavoro di un cineasta (capace di "modificare" il tempo e di trasfigurare la "realtà" sullo schermo). Nel cast, diretto in maniera eccellente, sono tutti bravi e "giusti": da Michelle Williams a Paul Dano, da Seth Rogen a Gabriel LaBelle, da Jeannie Berlin a Julia Butters, con una menzione speciale per la Williams, che incarna con la giusta dose di soavità e sregolatezza il personaggio più complesso e sfaccettato: la madre Mitzi. Immancabili le musiche, come al solito efficaci, del fidato ed eterno collaboratore di una vita, il grande John Williams, che ha espressamente dichiarato di volersi ritirare, dopo questo film, dalla sua lunga attività di compositore di colonne sonore, per dedicarsi unicamente a quella di concertista. Resta da vedere se ci riuscirà, perchè sicuramente il suo amico Spielberg non sarà affatto d'accordo. E da citare ancora l'impagabile cameo del regista di culto David Lynch, che fa (a modo suo) una breve ma indimenticabile apparizione nel ruolo del leggendario John Ford, il più importante creatore di miti del cinema americano, dal cui incontro il giovane Fabelman-Spielberg seppe trarre nuova linfa per alimentare il suo sogno ed incamminarsi verso grandi orizzonti di vita e di carriera. Orizzonti di cinema spielberghiano che hanno travalicato il tempo ed i grandi mutamenti sociali, e che sono diventati, in una ideale condivisione emozionale, parte integrante della nostra cultura popolare.
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