venerdì 23 marzo 2018

Un sogno chiamato Florida (The Florida Project, 2017) di Sean Baker

Nell'estrema periferia di Orlando (Florida), a due passi da Disneyland, sorge un motel alveare a due piani chiamato Magic Castle, tanto sgargiante nella sua vivace colorazione lilla quanto modico nei prezzi e per questo meta prediletta di sbandati senza fissa dimora che tirano a campare. Qui vivono Moonee e i suoi inseparabili amici, Scooty e Jancey, tre bambini esuberanti e discoli, piccole pesti capaci di trasformare, con la forza gioiosa della fantasia infantile, una realtà di quotidiano squallore nel loro personale regno incantato. Halley, giovane madre di Moonee, è una "smandrappata" inquieta senza un lavoro fisso, tutta tatuaggi e cattive maniere, che sopravvive alla giornata in bilico sull'insidioso crinale dell'illegalità. In questo microcosmo miserabile di umano degrado, fatto di donne senza uomini prese a schiaffi dalla vita, che fanno quello che possono per garantire ai figli un'esistenza dignitosa, la figura di riferimento è Bobby, manager factotum del motel, operoso e autoritario ma non privo di senso della giustizia e compassionevole umanità. Il sesto lungometraggio di Sean Baker (che realizza con esso il suo film migliore) è un lucido ritratto del sottoproletariato statunitense, qui rappresentato dagli homeless "invisibili" che brulicano nascosti in dozzinali motel a basso costo, anime perse bandite dal sogno americano e mortificate dalla crisi economica esplosa nel 2008, inevitabilmente sospese tra resilienza e disperazione, speranza e dannazione, purgatorio e inferno. Il "paradiso" è proprio lì dietro l'angolo, rappresentato da quel grande parco Disney dei divertimenti che è il simbolo materiale di tutti i sogni promessi dalla grande madre America. Eppure è al tempo stesso lontanissimo, perchè la sua luce non illumina il grigiore quotidiano dei reietti protagonisti del film, fantasmi sgraditi e sgradevoli, scarti indecorosi del capitalismo di cui devono dividersi faticosamente le briciole, azzannandosi tra loro. Tra commedia e dramma, tenerezza e durezza, realismo e fiaba, euforia e tragedia, l'autore mette a segno uno dei più intensi e riusciti affreschi sul mondo dell'infanzia visti al cinema nell'ultimo decennio. Attraverso il punto di vista dei piccoli protagonisti veniamo immersi in questo universo colorato e grottesco, ricco di stridenti contrasti e di aspre contraddizioni, una favola adulta amara e toccante che scorre lenta e frammentaria, senza risparmiarci i momenti di noia proprio come nella vita, per poi sublimarsi nel meraviglioso finale che scalda il cuore e inumidisce gli occhi senza neanche un'oncia di ruffianeria o di pietismo. Straordinario il lavoro di direzione di un cast eccellente, in cui l'unico attore professionista è un emozionante Willem Dafoe nel ruolo di Bobby,  meritatamente candidato all'Oscar come miglior attore non protagonista. Brave e credibili anche la piccola Brooklynn Prince (Moonee) e l'esordiente Bria Vinaite, reclutata su Instagram per il ruolo cruciale di Halley, donna volgare e dissoluta ma anche madre amorevole e giocosa. Il magico potere dell'immaginazione infantile è il filo di Arianna per attraversare questo triste labirinto di miseria morale, solo aggrappandosi saldamente ad esso si può continuare a lottare e a sperare, nonostante tutto. Proprio come l'albero preferito di Moonee, che è la figura metaforica più riuscita del film: un albero caduto che però continua a crescere.

Voto:
voto: 4/5

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