Vita e carriera, grandi trionfi e amaro declino del leggendario "Re del Rock&Roll", Elvis Aaron Presley, cresciuto povero in un umile ghetto di afroamericani della Louisiana rurale, che fu però decisivo per il suo imprinting musicale: tra gospel e blues, country e jazz. Bianco di pelle ma dall'anima decisamente "black" per affinità elettive, il giovane Elvis apparve come un fulmine sulla scena musicale americana degli anni '50 e, con l'aiuto decisivo del suo mentore ed impresario tuttofare, il controverso colonnello Tom Parker (per molti un truffatore affabulatore, per altri un lungimirante genio degli affari, la verità probabilmente sta nel mezzo), esplose travolgendo tutto con la sua verve scatenata, il suo stile sensualmente audace, la sua innata vena provocatoria, la sua voce suadente e la sua musica decisamente nuova e trascinante nel suo ardito mix di diverse influenze. In breve il mito di Elvis si diffuse su scala mondiale: divo del rock, simbolo di ribellione, icona di stile che fece proseliti e vantò una enorme schiera di imitatori ad ogni latitudine. Adorato dalle donne e dalle folle di giovani che vedevano in lui un esempio tangibile di cambiamento sociale e culturale, il nostro vendette milioni di dischi, guadagnò una fortuna, creò un'iconografia che resiste ancora oggi, ma finì schiacciato dal peso del suo enorme successo e dalla difficoltà di far coesistere il suo mito con la sua personalità di ragazzo semplice e sentimentale del profondo Sud. Il film si sofferma principalmente sul lato umano di Elvis e sui rapporti emotivi che ne hanno segnato l'esistenza: con la madre, con il padre, con la moglie, con la figlia e, principalmente, con il suo manager (il colonnello Parker), che fa da voce narrante della vicenda e dalla cui prospettiva viene raccontata la storia. Ne vien fuori un biopic musicale sfaccettato e sfavillante, lungo e dinamico, un po' melodramma ed un po' parabola metaforica dal retrogusto amaro sull'ossessione tutta americana del self made man. Ad un certo livello, e per quasi tutta la sua prima metà, è un film stupefacente ed entusiasmante, un rutilante rush in pieno stile Luhrmann che sa essere, al tempo stesso e con sapiente efficacia, circo e favola, carosello e dramma, mirabilia e decadenza, tripudio e sconfitta, sogno e morte. Forse per la prima volta il talentuoso regista australiano riesce a conciliare, a tali livelli espressivi, la sua estetica del mirabolante con un'anima drammaturgica secca e perentoria, mai troppo seriosa o didascalica, a parte qualche leggero scivolone nella retorica sentimentale riscontrabile nella parte finale. Ma non c'è dubbio che questo sia il suo film migliore, una felice sovrapposizione tra la parabola umana di Elvis e quella storico-sociale americana, con la notevole intuizione di scegliere il punto di vista del "villain": l'ambiguo colonnello Parker. Ed è bello prendere atto che questo Elvis targato Luhrmann sappia essere molte cose insieme con agile disinvoltura, proprio alla maniera del personaggio protagonista: una clamorosa lezione di virtuosismo stilistico, tra dolly spericolati e split screen polisemantici; un esempio spudorato di montaggio audace in cui le immagini si sposano perfettamente con il livello emotivo; un melò familiare sulla potenza delle radici e sul dolore della perdita; un sottile apologo politico su quei tumultuosi anni di violente ribellioni e sofferti cambiamenti; un trattato sapiente sulla valenza erotica, trasgressiva e furiosa del Rock&Roll; una metafora sapida sul lato oscuro del Sogno Americano e sulla sua inevitabile caducità. Al netto di qualche passaggio lezioso e di qualche omissione di troppo sul dark side del "super eroe" Elvis, peccati veniali in un'opera compatta, abbacinante e di altissimo livello, questo film conquista, travolge e convince. Nel cast sontuoso che annovera Austin Butler, Tom Hanks, Olivia DeJonge, Helen Thomson, Richard Roxburgh, Kelvin Harrison Jr. e David Wenham, spiccano i due protagonisti Butler (sorprendente, intenso e trascinante) ed Hanks (indubbiamente bravo in un ruolo per lui atipico, ma un po' troppo appesantito dall'eccessivo trucco prostetico che ne limita la carica espressiva). Da incorniciare la scena emblematica della giostra che si ferma: è, sia di forma che di fatto, la quintessenza dell'estetica di Baz Luhrmann.
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