giovedì 16 aprile 2015

Vizio di forma (Inherent Vice, 2014) di Paul Thomas Anderson

Contea di Los Angeles, 1970: Larry “Doc” Sportello è un detective privato, un hippie indolente e trasandato, poco attento all’igiene personale e dedito all’abuso di droghe leggere, dal cui effetto è costantemente inebetito. Trascorre le sue giornate fumando erba, ciondolando sulla spiaggia di Gordita Beach, ricevendo clienti di ogni tipo in un improvvisato “ufficio” presso un ambulatorio medico e scontrandosi con il suo amico-nemico, lo sbirro Christian Bjornsen detto “Bigfoot”, con cui intrattiene uno stravagante rapporto di collaborazione conflittuale. Quando la bella Shasta, la sua ex ragazza mai dimenticata, gli affida un caso complesso, che lo porta a indagare sul magnate immobiliare Wolfmann, losco speculatore edilizio tanto popolare quanto ambiguo, “Doc” sarà coinvolto, suo malgrado, in una serie di situazioni paradossali e pericolose, tra trafficanti di droga orientali, membri della fratellanza ariana, una nave “leggendaria” che non approda mai in porto, dentisti criminali, informatori della polizia in pericolo e prostitute lesbiche. Straordinario viaggio grottesco di P.T. Anderson, che sarebbe da encomio solenne, e bacio accademico, già solo per come è riuscito ad adattare per il grande schermo l’omonimo e labirintico romanzo di Thomas Pynchon, da cui il film è tratto. Denso ed ipnotico, ironico e magnetico, questa spiazzante commedia nera dai tratti allucinati è tutta da godere, più che da spiegare, e ci immerge a capofitto nel suo mondo psichedelico fatto di personaggi fuori di testa, situazioni stravaganti, paradossali, surreali che ci offrono la piena soggettiva del protagonista, il punto di vista di “Doc”, con il suo sguardo costantemente ottenebrato dalle droghe. E attraverso questo sguardo, questa prospettiva sghemba che vira nell’assurdo, l’autore ci conduce dritti al cuore dell’opera, abilmente celato sotto la patina comica e svitata che ne costituisce solo lo strato più esterno e più evidente. Da sempre attento alle tematiche sociali, alle tendenze di costume, all’analisi antropologica delle contraddizioni e dei mutamenti del suo paese per capirne, criticamente, la storia, Anderson ci consegna il suo film più disincantato e “politico”, nonostante il suo aspetto apparente di “divertissement” sregolato. E se ne Il Petroliere ci ha mostrato le radici, malate, del capitalismo americano, e in The Master il lato oscuro del fanatismo d’oltreoceano, attraverso il subdolo potere persuasivo delle sette, in questo nuovo capolavoro l’autore affronta il suo personale viaggio lisergico nell’anima della nazione, per raffigurare il crollo di un’ideologia e di una (contro) cultura, quella utopistica degli anni ’60, inevitabilmente sconfitte da un paese che ha visto tristemente svanire il suo sogno all’alba di tragedie epocali, incarnate da una guerra (il Vietnam), un omicidio di stato (quello di Kennedy) ed un orrore indicibile (la famiglia Manson e i suoi aberranti delitti). Anderson rivive questo fallimento senza enfasi né nostalgia, ma con lucida disillusione, amaro disincanto, mitigato dall’irridente ironia stralunata del film, e riversando tutto il suo evidente affetto bonario nei confronti di quel mondo, evidentemente mitizzato dai ricordi, nel personaggio di “Doc”, che è una sorta di “McGuffin” ambulante, l’ultimo degli eroi romantici, a metà strada tra il Marlowe di Altman ed il “Dude” Lebowski dei fratelli Coen, un simpatico sognatore “strafatto” che incarna l’epilogo di una grande utopia e la fine del sogno americano, agli albori di quell’edonismo reaganiano che poi si diffonderà negli anni ’80 (si ricordi che nel 1970, anno di ambientazione del film, Reagan era il governatore della California). Il senso intimo dell’opera è già contenuto nel titolo emblematico, tradotto in modo improprio nell’equivalente italiano: il “vizio intrinseco”, ironicamente parafrasato in un surreale dialogo con la fuorviante analogia assicurativa, è la causa irreversibile del collasso di un sistema (in questo caso l’ideologia degli anni ’60) che, essendo già minato internamente, è condannato al fallimento a prescindere dalle cause esterne. Per raccontare questo sontuoso affresco corale sul tramonto di un’epoca, Anderson sceglie un genere nobile e classico come il noir, contaminandolo di ironia dissacrante e di comicità “slapstick”, e ne utilizza la forma più intimamente americana: quell’hard boiled chandleriano che, passando per Hawks, Altman, ma anche per derivazioni più “profane” e di nicchia come il Kiss Me Deadly di Aldrich, ha sempre riletto la realtà in modo ambiguo, sfuggente, cercando d’interpretarla, ma senza mai capirla. I tanti personaggi del film, tutti sopra le righe, sono le forme evanescenti di un mondo in estinzione, che ha esaurito la sua intensa e fugace linfa vitale tra trip lisergici e paradisi artificiali, barattando la sua eroica innocenza con il miraggio capitalistico. Complesso e sfuggente, carnale e magnetico, assurdo e dissonante, geniale e paradossale, quest’ultimo opus del regista californiano (incredibilmente snobbato agli Oscar 2015) è, ancora una volta, un’opera enorme e difficile, spiazzante ed emblematica, una di quelle che ti conducono lontano dagli schemi rassicuranti del cinema hollywoodiano e che sono “oltre” già per definizione. Nel grande cast spiccano i protagonisti, Joaquin Phoenix e Josh Brolin, e la sensuale Katherine Waterston nel ruolo, piccolo ma fondamentale, di Shasta Fay, che è il vero demiurgo dell’azione principale. E, tra i tanti meriti alti dell’opera, Anderson si concede persino il lusso di regalarci un’autentica lezione d’erotismo nell’intensa scena d’amore tra “Doc” e Shasta, sul confine sottile tra comico e tragico, una perla bollente in questo mondo grottesco di figure decadenti, angeli tristi e tormentati, definitivamente scacciati dall’Eden.

Voto:
voto: 4,5/5

Blackhat (Blackhat, 2015) di Michael Mann

Un misterioso hacker informatico utilizza un codice "maligno" per violare prima il sistema di sicurezza di una centrale nucleare cinese, provocando lo scoppio di uno dei reattori, e poi quello della borsa di Chicago, facendo schizzare alle stelle gli indici di vendita per ricavarne un illecito guadagno multimilionario. Viene messa in piedi una task force di esperti tra la Cina e gli Stati Uniti, ma questi si rendono conto ben presto che l’elemento decisivo per districare la matassa è il geniale ideatore di quel codice che, con le opportune modifiche, è stato alla base dell’attacco informatico: un giovane hacker di nome Nick Hathaway, condannato a 13 anni di prigione e recluso in un carcere federale americano. Per cause di forza maggiore Hathaway verrà scarcerato e si unirà alla squadra, iniziando una pericolosa caccia all’uomo in giro per il mondo, seguendo il flusso delle informazioni digitali. Thriller metropolitano di Michael Mann, adrenalinico, cupo, intenso, visivamente straordinario, che mescola abilmente alcuni elementi tipici dell’action movie d’oltreoceano, nelle formidabili scene d’azione, con le atmosfere ipnotiche ed ammalianti che da sempre costituiscono il marchio di fabbrica del grande regista di Chicago. Muovendosi sulla scia formalmente innovativa delle sue ultime opere (Miami Vice in particolare), l’autore prosegue il suo straordinario lavoro di sperimentazione sulle immagini, catturate attraverso la camera digitale, la cui alta resa espressiva e la brillantezza cromatica ci restituiscono un sontuoso caleidoscopio visuale dal quale si esce ammirati e frastornati. Come già visto nell’indimenticabile Los Angeles notturna di Collateral, anche qui assistiamo allo spettacolo delle grandi metropoli (stavolta asiatiche), fotografate, quasi sempre di notte, nell’esplosione abbacinante dei mille neon artificiali, in un affresco imponente creato dalla tecnica digitale di Mann. E se il plot è canonico, a tratti esile ed inverosimile, e l’attore protagonista (il "dio del tuono" Chris Hemsworth) è indubbiamente poco adatto al ruolo, i meriti tecnici sono così alti e le pennellate visive così preziose, da riscattare il tutto in un film solido e teso, sicuramente uno dei migliori in assoluto sul "cyber-crimine". Portandoci in giro per il mondo, attraverso location mozzafiato ed inquadrature vertiginose, il film procede come un’ideale mappa di ipertesti, mescolando reale e virtuale, passione e violenza, solitudine e rapacità, futurismo e tradizione, in uno scenario iper tecnologico dal sapore apocalittico. I personaggi di contorno svettano sui protagonisti e la caccia serrata, sui cui tempi il film è edificato, ha il sapore acre di un’ultima occasione che l’umanità non può permettersi il lusso di fallire. Mann si conferma autore di levatura straordinaria, un maestro assoluto nel piegare i contenuti al servizio dell’estetica, e ci consegna la sua opera più catastrofica, erigendo con essa un’ideale "cattedrale" consacrata al "culto" dell’immagine nella sua forma più pura, estrema e solenne. La critica americana non l’ha apprezzato e l’ha generalmente bollato come flop, evidenziandone solo i difetti ma ignorandone l’alta portata estetica e l’indubbio spessore concettuale, che si esplica nell’intima cupezza, spigolosa, poco ammiccante, e di alta densità tagliente.

Voto:
voto: 4/5

Prima ti sposo poi ti rovino (Intolerable Cruelty, 2003) di Ethan Coen, Joel Coen

Miles Massey è un abile avvocato divorzista, Marilyn Rexroth è una bella e ambiziosa arrampicatrice sociale, che sfrutta i matrimoni “convenienti” per arricchirsi a danno dei ricchi uomini che, regolarmente, perdono le testa per lei. Dall’incontro tra i due nasceranno scintille: infatti dapprima Miles la incastra in tribunale, ma poi non resiste al suo fascino e, innamoratosi perdutamente di lei, finirà per sposarla. Gustosa ed elegante rivisitazione, da parte dei fratelli Coen, della “screwball comedy”, che fece grande il cinema americano negli anni ’30 e ’40 con autori come Hawks, Cukor, McCarey, Wellman, Capra. I due brillanti autori tornano in una Los Angeles solare e sovraesposta, per raccontare i vizi di un’upper class parassitaria, indolente e conformista, dedita al lato più biecamente materialista del “sogno americano”, i cui idoli sono denaro, opulenza, bellezza esteriore e relativa ostentazione. Tra le pieghe della legge, i ristoranti di lusso, gli abiti sfarzosi, le ville con piscina e le relazioni clandestine consumate nei motel, si celebra il triste rituale quotidiano di un’umanità vuota e mondana, che persevera, insolente, nell’esibizione del suo apparente “splendore” conquistato con cinismo e furbizia. Nel gioco al massacro tra un sagace divorzista ed un’avida “matrimonialista” viene dissacrata, con la consueta ferocia grottesca dei due fratelli registi, l’istituzione matrimoniale ed il compromesso di falsità su cui si fonda, alternando sapientemente perfidia e romanticismo, spettacolo e armonia, divertimento esilarante ed umori caustici, senza mai prendersi troppo sul serio. Bravissimi tutti gli attori, dai protagonisti George Clooney e Catherine Zeta-Jones (la cui interpretazione è un divertito omaggio a icone come Katharine Hepburn e Cary Grant), ai personaggi di “spalla”, come quelli di Billy Bob Thornton e Geoffrey Rush, in un film prezioso, brillante e “cattivo”, che sceglie, volutamente, di mitigarsi nel lieto fine, che intende celebrare, con formale deferenza, il tripudio sentimentale tipico delle vecchie commedie hollywoodiane dei maestri prima citati. Relegato solitamente nella filmografia “minore” dei Coen, non è di certo il loro film migliore, ma è pur sempre un ennesimo e riuscito viaggio attraverso i generi per riattualizzarli, declinandone nuovamente la sintassi in base alla loro personale estetica, con uno stile raffinato, irresistibile, sofisticato e mordace.

Voto:
voto: 3,5/5