Contea di Los Angeles, 1970: Larry “Doc” Sportello
è un detective privato, un hippie indolente e trasandato, poco attento
all’igiene personale e dedito all’abuso di droghe leggere, dal cui effetto è
costantemente inebetito. Trascorre le sue giornate fumando erba, ciondolando
sulla spiaggia di Gordita Beach, ricevendo clienti di ogni tipo in un improvvisato
“ufficio” presso un ambulatorio medico e scontrandosi con il suo amico-nemico,
lo sbirro Christian Bjornsen detto “Bigfoot”,
con cui intrattiene uno stravagante rapporto di collaborazione conflittuale.
Quando la bella Shasta, la sua ex ragazza mai dimenticata, gli affida un caso
complesso, che lo porta a indagare sul magnate immobiliare Wolfmann, losco
speculatore edilizio tanto popolare quanto ambiguo, “Doc” sarà coinvolto, suo
malgrado, in una serie di situazioni paradossali e pericolose, tra trafficanti
di droga orientali, membri della fratellanza ariana, una nave “leggendaria” che
non approda mai in porto, dentisti criminali, informatori della polizia in
pericolo e prostitute lesbiche. Straordinario viaggio grottesco di P.T. Anderson,
che sarebbe da encomio solenne, e bacio accademico, già solo per come è
riuscito ad adattare per il grande schermo l’omonimo e labirintico romanzo di Thomas
Pynchon, da cui il film è tratto. Denso ed ipnotico, ironico e magnetico, questa
spiazzante commedia nera dai tratti allucinati è tutta da godere, più che da
spiegare, e ci immerge a capofitto nel suo mondo psichedelico fatto di
personaggi fuori di testa, situazioni stravaganti, paradossali, surreali che ci
offrono la piena soggettiva del protagonista, il punto di vista di “Doc”,
con il suo sguardo costantemente ottenebrato dalle droghe. E
attraverso questo sguardo, questa prospettiva sghemba che vira nell’assurdo,
l’autore ci conduce dritti al cuore dell’opera, abilmente celato sotto la
patina comica e svitata che ne costituisce solo lo strato più esterno e più
evidente. Da sempre attento alle tematiche sociali, alle tendenze di costume,
all’analisi antropologica delle contraddizioni e dei mutamenti del suo paese
per capirne, criticamente, la storia, Anderson ci consegna il suo film più
disincantato e “politico”, nonostante il suo aspetto apparente di “divertissement” sregolato. E se ne Il
Petroliere ci ha mostrato le radici, malate, del capitalismo americano,
e in The
Master il lato oscuro del fanatismo d’oltreoceano, attraverso il
subdolo potere persuasivo delle sette, in questo nuovo capolavoro l’autore affronta
il suo personale viaggio lisergico nell’anima della nazione, per raffigurare il
crollo di un’ideologia e di una (contro) cultura, quella utopistica degli anni
’60, inevitabilmente sconfitte da un paese che ha visto tristemente svanire il
suo sogno all’alba di tragedie epocali, incarnate da una guerra (il Vietnam),
un omicidio di stato (quello di Kennedy) ed un orrore indicibile (la famiglia Manson
e i suoi aberranti delitti). Anderson rivive questo fallimento senza enfasi né
nostalgia, ma con lucida disillusione, amaro disincanto, mitigato
dall’irridente ironia stralunata del film, e riversando tutto il suo evidente
affetto bonario nei confronti di quel mondo, evidentemente mitizzato dai
ricordi, nel personaggio di “Doc”, che è una sorta di “McGuffin” ambulante,
l’ultimo degli eroi romantici, a metà strada tra il Marlowe di Altman ed il “Dude” Lebowski dei fratelli Coen, un
simpatico sognatore “strafatto” che incarna l’epilogo di una grande utopia e la
fine del sogno americano, agli albori di quell’edonismo reaganiano che poi si
diffonderà negli anni ’80 (si ricordi che nel 1970, anno di ambientazione del
film, Reagan era il governatore della California). Il senso intimo dell’opera è
già contenuto nel titolo emblematico, tradotto in modo improprio
nell’equivalente italiano: il “vizio intrinseco”, ironicamente parafrasato in
un surreale dialogo con la fuorviante analogia assicurativa, è la causa
irreversibile del collasso di un sistema (in questo caso l’ideologia degli anni
’60) che, essendo già minato internamente, è condannato al fallimento a
prescindere dalle cause esterne. Per raccontare questo sontuoso affresco corale
sul tramonto di un’epoca, Anderson sceglie un genere nobile e classico come il
noir, contaminandolo di ironia dissacrante e di comicità “slapstick”,
e ne utilizza la forma più intimamente americana: quell’hard boiled chandleriano
che, passando per Hawks, Altman, ma anche per derivazioni più
“profane” e di nicchia come il Kiss Me Deadly
di Aldrich, ha sempre riletto la realtà in modo ambiguo, sfuggente, cercando
d’interpretarla, ma senza mai capirla. I tanti personaggi del film, tutti sopra
le righe, sono le forme evanescenti di un mondo in estinzione, che ha esaurito
la sua intensa e fugace linfa vitale tra trip lisergici e paradisi artificiali,
barattando la sua eroica innocenza con il miraggio capitalistico. Complesso e
sfuggente, carnale e magnetico, assurdo e dissonante, geniale e paradossale,
quest’ultimo opus del regista californiano (incredibilmente snobbato agli Oscar
2015) è, ancora una volta, un’opera enorme e difficile, spiazzante ed
emblematica, una di quelle che ti conducono lontano dagli schemi rassicuranti
del cinema hollywoodiano e che sono “oltre” già per definizione. Nel grande
cast spiccano i protagonisti, Joaquin Phoenix e Josh Brolin, e la sensuale Katherine
Waterston nel ruolo, piccolo ma fondamentale, di Shasta Fay, che è il vero demiurgo
dell’azione principale. E, tra i tanti meriti alti dell’opera, Anderson si
concede persino il lusso di regalarci un’autentica lezione d’erotismo nell’intensa
scena d’amore tra “Doc” e Shasta, sul confine sottile tra comico e tragico, una
perla bollente in questo mondo grottesco di figure decadenti, angeli tristi e
tormentati, definitivamente scacciati dall’Eden.
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