giovedì 16 aprile 2015

Blackhat (Blackhat, 2015) di Michael Mann

Un misterioso hacker informatico utilizza un codice "maligno" per violare prima il sistema di sicurezza di una centrale nucleare cinese, provocando lo scoppio di uno dei reattori, e poi quello della borsa di Chicago, facendo schizzare alle stelle gli indici di vendita per ricavarne un illecito guadagno multimilionario. Viene messa in piedi una task force di esperti tra la Cina e gli Stati Uniti, ma questi si rendono conto ben presto che l’elemento decisivo per districare la matassa è il geniale ideatore di quel codice che, con le opportune modifiche, è stato alla base dell’attacco informatico: un giovane hacker di nome Nick Hathaway, condannato a 13 anni di prigione e recluso in un carcere federale americano. Per cause di forza maggiore Hathaway verrà scarcerato e si unirà alla squadra, iniziando una pericolosa caccia all’uomo in giro per il mondo, seguendo il flusso delle informazioni digitali. Thriller metropolitano di Michael Mann, adrenalinico, cupo, intenso, visivamente straordinario, che mescola abilmente alcuni elementi tipici dell’action movie d’oltreoceano, nelle formidabili scene d’azione, con le atmosfere ipnotiche ed ammalianti che da sempre costituiscono il marchio di fabbrica del grande regista di Chicago. Muovendosi sulla scia formalmente innovativa delle sue ultime opere (Miami Vice in particolare), l’autore prosegue il suo straordinario lavoro di sperimentazione sulle immagini, catturate attraverso la camera digitale, la cui alta resa espressiva e la brillantezza cromatica ci restituiscono un sontuoso caleidoscopio visuale dal quale si esce ammirati e frastornati. Come già visto nell’indimenticabile Los Angeles notturna di Collateral, anche qui assistiamo allo spettacolo delle grandi metropoli (stavolta asiatiche), fotografate, quasi sempre di notte, nell’esplosione abbacinante dei mille neon artificiali, in un affresco imponente creato dalla tecnica digitale di Mann. E se il plot è canonico, a tratti esile ed inverosimile, e l’attore protagonista (il "dio del tuono" Chris Hemsworth) è indubbiamente poco adatto al ruolo, i meriti tecnici sono così alti e le pennellate visive così preziose, da riscattare il tutto in un film solido e teso, sicuramente uno dei migliori in assoluto sul "cyber-crimine". Portandoci in giro per il mondo, attraverso location mozzafiato ed inquadrature vertiginose, il film procede come un’ideale mappa di ipertesti, mescolando reale e virtuale, passione e violenza, solitudine e rapacità, futurismo e tradizione, in uno scenario iper tecnologico dal sapore apocalittico. I personaggi di contorno svettano sui protagonisti e la caccia serrata, sui cui tempi il film è edificato, ha il sapore acre di un’ultima occasione che l’umanità non può permettersi il lusso di fallire. Mann si conferma autore di levatura straordinaria, un maestro assoluto nel piegare i contenuti al servizio dell’estetica, e ci consegna la sua opera più catastrofica, erigendo con essa un’ideale "cattedrale" consacrata al "culto" dell’immagine nella sua forma più pura, estrema e solenne. La critica americana non l’ha apprezzato e l’ha generalmente bollato come flop, evidenziandone solo i difetti ma ignorandone l’alta portata estetica e l’indubbio spessore concettuale, che si esplica nell’intima cupezza, spigolosa, poco ammiccante, e di alta densità tagliente.

Voto:
voto: 4/5

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