domenica 31 dicembre 2023

Come pecore in mezzo ai lupi (2023) di Lyda Patitucci

Vera è una fixer, procura cose. Sta al soldo di una banda di serbi: Dragan, il capo indiscusso, fervente cattolico dalla morale e dalla lettura della Bibbia distorte; Goran, il tuttofare; Milorad, che una volta è stato sepolto vivo. E poi ci sono Gaetano e Bruno, che si sono conosciuti a San Vittore, due criminali di piccola taglia quasi più per necessità che per convinzione. I serbi girano per la città amministrando con il terrore i loro affari, gli italiani si affaccendano con piccole rapine. Poi un giorno Gaetano ha una dritta su un furgone portavalori con un carico da tre milioni euro, e va da Dragan a proporgli l'affare. Ma non tutto è come sembra, perché all'incontro tra i due gruppi Vera riconosce Bruno e Bruno riconosce Vera: sono fratello e sorella, e mentre lui è soltanto un criminale che cerca disperatamente di rimettersi in riga per sé e per la figlia Marta, Vera è una poliziotta infiltrata... Doppie identità, tormenti religiosi, rapine, ricatti: non manca nulla al mondo criminale del film, dove tutti sono prigionieri, lupi e pecore insieme. La aspettavamo, Lyda Patitucci. Già, perché questo Come pecore in mezzo ai lupi è un esordio importante per il cinema italiano. E lo è per tanti motivi. Primo: Patitucci si è fatta le ossa - e gli occhi - gestendo le seconde unità più complesse degli ultimi anni, da Veloce come il vento ai due seguiti di Smetto quando voglio a Il primo re, per poi arrivare alla regia televisiva/da piattaforma con Curon. Secondo: tutti questi lavori fanno parte del carnet di titoli di Groenlandia (tranne Curon, del duo Netflix/Indiana), la casa di produzione fondata da Matteo Rovere e Sydney Sibilia, vera e propria factory alla continua ricerca del nuovo nome da far crescere e lanciare. Terzo: la prima regia cinematografica di Patitucci è orgogliosamente dentro il genere, in questo caso il crime, in un modo così diretto da essere perfino sprezzante. Quindi, cos'è Come pecore in mezzo ai lupi? È, come la sua regista, tante cose. Un crime, dicevamo, come non ne vedevamo da tempo da queste parti, tirato, sottopelle, duro più nei sentimenti che nei corpi. Corpi, poi, sempre sul punto di esplodere, ma mai davvero ottusamente pompati, piuttosto induriti controvoglia, piagati non sull'epidermide ma più a fondo. Corpi, figure, che si muovono in una città, Roma, svuotata del suo senso millenaristico, panoramico, caciarone. Ecco, queste sono forse le direttrici principali di Come pecore in mezzo ai lupi - il senso, i sensi, il sentire. Il senso è quell'inseguire da parte di Patitucci un modo di fare cinema che ha sempre riconosciuto come suo, fino da quando presenta alla Ascent (ora dentro Groenlandia Group) il teaser per un film tratto dalla trilogia letteraria di Mila Zago scritta da Matteo Strukul. Da lì conosce Matteo Rovere, che la vorrà con sé a dirigere le corse in macchina, i combattimenti con la spada e gli assalti ai treni dei titoli di cui sopra. I sensi, invece, sono quelli di Isabella Ragonese e Andrea Arcangeli, Vera e Bruno, i due fratelli dall'altra parte della barricata ma con lo stesso dolore addosso. La Ragonese è tutta spigoli, Arcangeli quasi felpato, e se la prima ti respinge con i silenzi e i vuoti della sua vita, il secondo ti fa avvicinare con la sua voglia di cambiare e il suo progetto di fuga. Il sentire, infine. Sono pochi, i personaggi del film. Sono quelli che bastano. Altro non c'è, nessun appiglio nelle istituzioni comunitarie che dovrebbero in qualche modo salvarti - lo stato, la religione, la famiglia. Tutti hanno perso tutto, Vera, Bruno, la piccola Marta, perfino il terrifico Dragan. Non c'è casa per nessuno di loro. Patitucci cerca uno sguardo per narrare tutto questo e lo trova. Non calcando la mano sul lato più action della vicenda ma tirando su, con pazienza e precisione, un film più d'atmosfera che di movimento, creando la tensione non con lo scontro ma con la minaccia. Scritto da Filippo Gravino, un altro che da anni si sbatte per il de-aging del cinema italiano, Come pecore in mezzo ai lupi carica, accumula e scarica tutto sui suoi personaggi, per farli deflagrare dall'interno in un climax finale che lascia sul campo caduti e superstiti. Forse il payoff finale non è totalmente soddisfacente, e Patitucci arriva troppo con il freno a mano tirato mettendo in scena una conclusione che può sembrare un po' confusionaria e tirata via, ma va bene così, la cicatrice di Isabella Ragonese e la magrezza di Andrea Arcangeli ce le portiamo comunque con noi, come segno del loro essere i veri lupi che cercano non di sopravvivere ma di vivere in mezzo a tutte le altre pecore.

https://it.wikipedia.org/wiki/Come_pecore_in_mezzo_ai_lupi

Isabella Ragonese
Andrea Arcangeli
Carolina Michelangeli

Voto:
voto: 3,5/5

La figlia oscura (The Lost Daughter, 2021) di Maggie Gyllenhaal

Leda Caruso è una docente universitaria americana di letteratura italiana, in vacanza presso una località di mare vicino a Corinto. Sulla spiaggia dove si reca ogni giorno arriva come un uragano una numerosa e rumorosa famiglia di Queens che ha origini greche e probabilmente qualche legame con la malavita organizzata. Dopo la reazione di fastidio iniziale, Leda comincia ad osservare con interesse Nina, la giovane madre che fa parte del gruppo degli "invasori", e il rapporto fra Nina e la sua bambina riporta alla memoria della docente la propria relazione con le due figlie, ormai ventenni, quando erano ancora piccole. Una relazione complessa e per certi versi conflittuale che è venuta inevitabilmente a cozzare con il legittimo desiderio di Leda, brillante linguista, di avere una carriera nel mondo dell'accademia. "Sono una madre snaturata", dirà Leda, e questa confessione, pronunciata ad alta voce sul grande schermo, ha un effetto dirompente. L'attrice Maggie Gyllenhaal, alla sua prima prova come sceneggiatrice e regista di un lungometraggio per il cinema, così come Elena Ferrante nel romanzo "La figlia oscura" su cui è basato questo film, tocca un tema tabù, soprattutto in Italia, correndo il rischio del rifiuto a parte del pubblico già affrontato, ad esempio, da un libro e un film come Quando la notte. Il racconto dei sentimenti conflittuali di una madre verso la propria progenie, e in particolare verso le proprie figlie femmine, è raramente affrontato dalla letteratura e dal cinema proprio perché suscita una reazione di rifiuto e di condanna senza appello. Invece è fondamentale esplorare le contraddizioni della maternità, soprattutto quando c'è in gioco l'affermazione individuale di un'intellettuale e di un'artista, cui l'espressione di sé richiede quella concentrazione che un figlio piccolo inevitabilmente toglie, soprattutto alle madri. Ed è fondamentale esplorare l'attaccamento viscerale, e allo stesso tempo la conflittualità istintiva, di una madre verso una figlia femmina, che porta con sé un confronto sull'accettazione (o meno) della propria identità femminile. Gyllenhaal affronta entrambi gli argomenti attraverso una regia sensuale che resta incollata ai corpi e fa parlare la grana della pelle, esplora il contatto umano più diretto e materico, entra nell'intensità di sguardi che si vorrebbero mantenere nascosti e la concretezza di incubi che si vorrebbero rimuovere. Leda compie scelte non sempre condivisibili, almeno dal punto della morale (mediterranea e cattolica) immediatamente giudicante, ma Gyllenhaal sospende ogni giudizio, concordando solo sugli assunti di base che "i figli sono una responsabilità schiacciante" e che "l'attenzione verso il prossimo è la forma più pura di generosità". Hélène Louvart, direttrice della fotografia di Alice Rohrwacher (anche per i due episodi de L'amica geniale da lei diretti), porta il suo decisivo contributo professionale ed emotivo creando un'aderenza tattile alla storia, e Olivia Colman, con la sua carica umana immediatamente percepibile, nei panni di Leda impedisce il totale distacco critico. Il commento musicale, a volte un po' troppo presente, di Dickon Hinchliffe alterna i toni caldi del jazz ad atmosfere più rarefatte e distoniche, riflettendo il contrasto interiore che anima questa storia di amore totalizzante e desiderio di indipendenza faticosamente rivendicato.

https://it.wikipedia.org/wiki/La_figlia_oscura_(film)

Olivia Colman
Jessie Buckley
Dakota Johnson
Ed Harris
Peter Sarsgaard
Dagmara Dominczyk
Alba Rohrwacher

Voto:
voto: 3,5/5

Nuovo Olimpo (2023) di Ferzan Ozpetek

1 novembre 1978. Il 25enne Enea Monti è uno studente di cinema che sogna di diventare regista e lavora come volontario sui set della Capitale. Fra i curiosi intorno vede Pietro Gherardi, e fra i due c'è subito un'intesa silenziosa fatta di sguardi. Più tardi Enea ritrova Pietro al Nuovo Olimpo, un cinema d'essai che è anche un luogo di incontro per omosessuali. I due si appartano in bagno, ma Pietro non vuole un rapporto casuale consumato di fretta e di nascosto: ed Enea lo asseconda, fissando con lui un appuntamento in una casa temporaneamente vuota. Lì inizia la loro storia d'amore intensa e passionale, che però subirà una brusca e inaspettata battuta d'arresto. Da allora, attraverso quattro primi di novembre nel corso di quasi quarant'anni, il ricordo e il rimpianto di quei momenti iniziali di intimità e di tenerezza rimarranno permanentemente nel cuore di Pietro ed Enea, nonostante le loro vite siano in apparenza consolidate con compagni e carriere professionali diverse. Nuovo Olimpo unisce due passioni di Ferzan Ozpetek: quella per il cinema (inteso anche come luogo fisico) e quella per i sentimenti, dei quali i cinema, come si dice anche nel film, non ci si deve vergognare. Ma questa volta la sceneggiatura, coscritta con il sodale di sempre Gianni Romoli, comporta sospensioni di incredulità davvero difficili da accettare. La storia del cinema è costellata di film che hanno saputo trattare magistralmente il tema delle relazioni interrotte o ostacolate, e del desiderio sospeso che ne deriva: due esempi per tutti, per restare nel registro melò a cui si ascrive anche Nuovo Olimpo, sono Un amore splendido e I segreti di Brokeback Mountain. Per parafrasare il personaggio più saggio di questa storia, che afferma che "non è il quanto, è il come", mai come in questo ambito narrativo a contare non è il cosa - ovvero la tematica del "fuoco che hai acceso e che non spegni più", come canta da Mina sui titoli di coda - quanto il modo in cui questa tematica viene sviluppata. Desiderio e rimpianto sono materia incandescente e fortemente evocativa e vanno gestite con grande delicatezza narrativa, e ancor più grande capacità interpretativa. Nuovo Olimpo invece, dopo un promettente inizio fatto di pathos e sensualità - diretto con maestria registica da Ozpetek, montato in modo interessante da Pietro Morana, e reso convincente grazie alla sensualità dei corpi in scena - vede accadere eventi davvero poco credibili che non dettagliamo solo per non fare spoiler, ma che sembrano ignorare la conoscenza del pubblico non solo dei grandi film sopra citati, ma anche delle serie televisive e persino delle soap opera. Ed è proprio nei cliché di queste ultime che Nuovo Olimpo rischia di cadere, anche a causa dell'interpretazione legnosa di Andrea Di Luigi nei panni di Pietro, e di dialoghi che appaiono più letterari che sentiti. E il personaggio di Giovanni che comparirà più avanti, il giocatore di pallanuoto laureato in ingegneria meccanica "ridotto a governante" interpretato dall'ex rugbista Alvise Rigo, è quasi involontariamente camp. La narrazione si solleva quando entrano in campo interpreti come Luisa Ranieri, che ha il bel ruolo della cassiera del Nuovo Olimpo truccata come Mina, e Aurora Giovinazzo, che riesce a gestire bene le nuance del complesso personaggio di Alice: entrambe rappresentano quel femminile autonomo ma mai egoriferito tanto caro ad Ozpetek, ed è a loro che il film è dedicato. Ma anche Giancarlo Commare, che appare nel breve cammeo di Molotov, lascia il segno e conquista il suo spazio. Più interessante è la storia d'amore di Ozpetek per il cinema, soprattutto quello classico italiano - citati in Nuovo Olimpo sono Mamma Roma e Nella città l'inferno, dominati dalla personalità magnetica di Anna Magnani - e per quelle sale con gli orari fissi e l'intervallo, la possibilità di recuperare i primi minuti persi se si arrivava in ritardo e l'addetto allo strappo dei biglietti: una ritualità da tempio sacro, sempre uguale e infinitamente rassicurante. Non è un caso che il film stesso si chiami come il luogo della nascita di due passioni - quella fra Enea e Pietro, ma anche quella fra ognuno di loro e il cinema- e che porti in sé l'eco di Nuovo Cinema Paradiso, quando celebrava la sala come baluardo di una memoria collettiva a rischio obsolescenza. In un film pieno di Eros, in cui i sentimenti vengono dichiarati continuamente, si riesce nell’impresa, purtroppo, di non far emozionare lo spettatore.Probabilmente a causa anche di alcuni passaggi poco credibili che fanno staccare la presa emotiva dello spettatore. Film numero 14 di Ferzan Özpetek, tra i suoi più autobiografici, Nuovo Olimpo racconta la storia d'amore di due ragazzi, interrotta alla fine degli anni '70 per poi riprendere 30 anni dopo. Il suo solito melodramma con musica è stavolta, grazie a Netflix, più spinto sulla rappresentazione dell'amore omosessuale, ma anche più chiuso nel raccontare il contesto, solo evocato. Roma, dal 1978 (Moro, Kappler in fuga...) al centro storico gentrificato di oggi, riconquistato dai ricchi, come Pietro, chirurgo goloso, e Enea, cineasta di successo. Si sono amati alla follia da studenti e poi perduti per 40 anni (colpa del Settantasette?). Una nuova vita, senza film d'essai e amici col diavolo in corpo. La casa chic prestatagli allora sui Fori imperiali, spazio della più inebriante

https://it.wikipedia.org/wiki/Nuovo_Olimpo

Damiano Gavino
Andrea Di Luigi
Luisa Ranieri
Greta Scarano
Aurora Giovinazzo
Loredana Cannata

Voto:
voto: 2,5/5

The Killer (2023) di David Fincher

Un killer professionista si trova a Parigi, in attesa che il bersaglio si presenti nel luogo che da giorni sta sorvegliando. Abituato a una vita monotona, basata sulla programmazione, l'attesa, la noia, l'attenzione ai dettagli e la totale assenza d'empatia, l'uomo si trova improvvisamente a dover cambiare piani quando compie un inatteso passo falso. Come potrà sparire dal luogo del delitto imprevisto? E a chi dovrà risalire poco alla volta, sempre muovendosi con studiata precisione e implacabile assenza di emozioni, quando scoprirà qual è stata la risposta dei suoi committenti alla missione fallita? In cinque capitoli e altrettanti luoghi (Parigi, Santo Domingo, New Orleans, New York, Chicago), più un epilogo ancora nella Repubblica Dominicana, Fincher costruisce un revenge movie dalla precisione geometrica. E dietro la produzione Netflix si nasconde una riflessione sulla società contemporanea. Il protagonista di The Killer - un Michael Fassbender inevitabilmente e perfettamente monocorde - è uno Sciacallo dei nostri giorni: un uomo invisibile che invisibile non può essere, consapevole come tutti di essere ripreso, registrato, tracciato, decodificato dalla tecnologica di cui il mondo di oggi è disseminato. La risposta pragmatica di quest'uomo pragmatico a un problema per lui d'ordine puramente professionale consiste nel trasformarsi in una persona il più possibile anonima, «vestita come un turista tedesco», come dice la sua voce narrante, uno con cui nessuno vorrebbe avere a che fare... All'inizio del film, Fincher (che ha lavorato con lo sceneggiatore Andrew Kevin Walker a partire da un libro di Alexis Nolent) filma la quotidianità del suo protagonista con la medesima precisione dei suoi metodi, usando le inquadrature come pezzi di un puzzle che poco alla volta dovrebbe comporre l'immagine di un omicidio commissionato e da portare a termine. Ma come dice ancora la voce narrante, per rovinare un puzzle basta togliere un paio di pezzi e nel momento in cui qualcosa va storto, l'ordine del mondo si spezza: il killer è costretto a riprogrammare il suo lavoro, e di conseguenza anche il film cambia passo e genere passando dal racconto dell'esecuzione di un omicidio al revenge movie. Chi ha tradito? Chi ha fatto da intermediario? Chi ha eseguito? Chi ha dato l'ordine? Il killer risale la catena di responsabilità fino al suo punto d'inizio facendosi strada tra un ostacolo e l'altro, un omicidio e l'altro. The Killer è un thriller, ovviamente, facile da vedere e digerire per qualsiasi spettatore da piattaforma, con una tensione costante e almeno un momento in cui lo stile controllato si frantuma in una devastante lotta corpo a corpo; ma nell'andamento "a ritroso" della trama diventa poco alla volta una geniale messa in scena dei processi di produzione della società contemporanea, nel corpo vivo del capitalismo: Parigi, New Orleans, New York, Chicago... Implacabile e senza emozioni («I don't give a fuck», è il suo motto), il killer anonimo vendica l'estrema e asfissiante visibilità del mondo, la sua costante tracciabilità (come tutti anche lui usa Amazon, carte di credito e puntatori digitali), ripercorrendo il tragitto inviolabile della committenza e muovendosi con precisione tecnologica, intrappolato in un processo continuo di clienti ed esecutori a cui non è possibile mettere fine. Del resto, è proprio l'anonimità del killer, la sua grigia infallibilità, a fare del killer un perfetto mezzo del sistema: come gli dice una delle sue vittime (interpretata da Tilda Swinton, «simile a un cotton fioc»), la ragione per cui incontra i suoi bersagli prima di farli fuori è per essere rassicurato; per sapere che il mondo ha ancora un ordine e che l'ostacolo «tra il suo sguardo e il traguardo», cioè tra la pallottola e l'obiettivo, è stato definitivamente rimosso. In quello spazio tra l'occhio e l'obiettivo sono però nascosti gli infiniti eventi della vita, le molteplici variazioni del caso, che né il killer né il capitalismo possono contemplare. E forse per questo il lieto fine del film in realtà così lieto non è, dal momento che l'ordine ristabilito farà ripartire la catena del comando da un momento all'altro, riportando tutto a casa. Tutto alla semplice relazione tra committente ed esecutore...

https://it.wikipedia.org/wiki/The_Killer_(film_2023)

Michael Fassbender
Tilda Swinton
Charles Parnell
Arliss Howard
Kerry O'Malley
Sophie Charlotte

Voto:
voto: 3,5/5

C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Delia è "una brava donna di casa" nella Roma del dopoguerra: tiene il suo sottoscala pulito, prepara i pasti al marito Ivano e ai tre figli, accudisce il suocero scorbutico e guadagna qualche soldo rammendando biancheria, riparando ombrelli e facendo iniezioni a domicilio. Secondo il suocero però "ha il difetto che risponde", in un'epoca in cui alle donne toccava tenere la bocca ben chiusa. E Ivano ritiene sacrosanto riempirla di botte e umiliarla per ogni sua "mancanza". La figlia Marcella sta per fidanzarsi con il figlio del proprietario della pasticceria del quartiere, il che le darebbe la possibilità di migliorare il suo status e allontanarsi dalla condizione arretrata in cui vive la sua famiglia, nonché da quella madre sempre in grembiule e sempre soggetta alle angherie del marito. Per fortuna fuori casa Delia ha qualche alleato: un meccanico che le vuole bene, un'amica spiritosa che la incoraggia, un soldato afroamericano che vorrebbe darle una mano. E soprattutto, ha un sogno nel cassetto, sbocciato da una lettera ricevuta a sorpresa. C'è ancora domani è l'esordio alla regia di Paola Cortellesi, ed è una pura emanazione della sua persona. Il tono è divulgativo, pensato per raggiungere il più ampio pubblico possibile, ma questo non va a scapito della sua vocazione autoriale, che è manifesta in scelte molto precise di colore (il film è girato nel bianco e nero della cinematografia d'epoca con grande attenzione filologica del direttore della fotografia Davide Leone), di formato (che cambia lungo il corso della narrazione), di commento musicale (che in aggiunta alle composizioni originali di Lele Marchitelli alterna brani retrò di Fiorella Bini e Achille Togliani con titoli italiani molto più recenti - di Dalla, Nada, Silvestri, Concato -- e innesti internazionali di hip hop, elettronica e rock alternativo, in maniera non dissimile da quanto fa nel suo cinema Susanna Nicchiarelli). La sceneggiatura, della stessa Cortellesi insieme ai sodali Giulia Calenda e Furio Andreotti, è intenzionalmente didascalica nell'obiettivo esplicito di parlare al grande pubblico, soprattutto - ma non solo - femminile, e concentra nei personaggi di Ivano e Delia l'ingiustizia di un sistema patriarcale di cui anche Ivano è in qualche modo vittima (oltre che perpetuatore), e Valerio Mastandrea riesce a inserire nella sua caratterizzazione quel tanto di umano e di fragile da non farcelo liquidare completamente come un orco d'antan (ma non abbastanza da farcelo perdonare). Tuttavia la sceneggiatura è astuta nel distribuire anche a tutti gli altri personaggi una misura dello stesso veleno culturale, e dunque le donne di ogni condizione (tranne la venditrice al mercato interpretata da Emanuela Fanelli) vengono messe a tacere dai loro mariti, e anche gli uomini più gentili possono (devono?) cadere preda del loro imprinting socialmente approvato. Le botte di Ivano inferte a tempo di musica in una danza macabra e un paso doble del terrore (intuizione cinematografica straziante ed efficacissima) non hanno nulla a che vedere con quelle testosteroniche importate nel cinema da Martin Scorsese, e molto con quelle inferte da Zampanò a Gelsomina, così come la preparazione della famiglia nelle scene iniziali di C'è ancora domani deve tutto all'incipt di Una giornata particolare. L'aspetto più sorprendente del film è che, di fatto, è un horror, ma raccontato attraverso il filtro gentile della sensibilità di Paola Cortellesi, nel suo stile riconoscibilmente "leggero" che riassume ciò che abbiamo finora appreso di lei: la capacità di parlare di cose serissime rendendole appetibili, il rispetto della propria e altrui dignità. Da "cabarettista", da comedienne, da imitatrice, Cortellesi è abituata a gestire autonomamente il suo spazio, e dunque è perfettamente logico che sia arrivata a governare con mano sicura un set che parla la sua lingua, fa leva sulla sua immagine, adotta il suo senso dell'umorismo e aderisce ai suoi codici etici ed estetici, che è quello che fa un autore, anzi: un'autrice, impavida in quello che racconta, intelligentemente opportunista nel modo in cui lo veicola. C'è ancora domani contiene nel titolo una speranza, ma anche un monito importante: perché ci ricorda che le conquiste femminili sono avvenute appena ieri, e perché riporterà istantaneamente alla memoria di tutti, e soprattutto di tutte, almeno un episodio in cui la propria mamma, nonna, bisnonna sono state zittite, o è stato loro impedito di percorrere la propria strada in piena autonomia decisionale. Cortellesi ci rammenta che da questo veniamo, che fa parte del nostro passato recente, e che purtroppo succede ancora perché per chi stava dalla parte dominante del "si è sempre fatto così" reagisce al cambiamento e con la stessa violenza di allora. Non sorprende che la neoregista abbia dedicato il suo film a sua figlia.

Mah ... alla fine gli darei un voto di sufficienza come ho detto, soprattutto per l'ultima mezz'ora. Per me il problema è che il cinema italiano al di fuori dei (pochi) autori ha sempre quello stampo ecumenico furbetto alla ricerca del consenso facile e largo. Poco coraggio. Si cavalca l'onda di mode e ideologie di tendenza in modo edificante. Per me questo tipo di cinema è sostanzialmente inutile e non lascia tracce durature

Ma .... ed ecco la differenza in sostanza e sottigliezza tra un Capolavoro ed un film mainstream, tra un Maestro del cinema ed un artigiano(a) esordiente .... nel film di Scola la Storia (il regime fascista all'apice della sua "grandezza") non si vede MAI. Ne avvertiamo però la presenza asfissiante attraverso le parole alla radio, i suoni ambientali, gli sguardi e la psicologia dei personaggi. Non c'è bisogno di mostrare nulla di esplicito per trasmettere il senso di oppressione e di ottusità ideologica di quel periodo. Tutto ci arriva (in modo ancora più forte) attraverso i due personaggi principali e le loro storie da perdenti che patiscono in silenzio ma, dentro, ardono. Vogliamo adesso fare l'impietoso paragone? Nel film di PC la Storia è molto presente a livello di rappresentazione esplicita ... eppure non si avverte mai quel sento di pathos tragico che ti fa respirare davvero l'aria dei tempi. Tutto viene spiattellato nel modo più didascalico possibile. Per arrivare a tutti secondo il metodo più facile. Meno male che almeno hanno "rischiato" un bianco e nero da Neorealismo ed un breve formato 4:3 iniziale. 

https://it.wikipedia.org/wiki/C%27%C3%A8_ancora_domani

Paola Cortellesi
Valerio Mastandrea
Romana Maggiora Vergano
Emanuela Fanelli
Giorgio Colangeli
Vinicio Marchioni

Voto:
voto: 3/5

Napoleon (2023) di Ridley Scott

A partire dalla Rivoluzione francese del 1789, Napoleon segue la parabola dell'ascesa al potere supremo di Napoleone Bonaparte da sconosciuto militare, capitano d'artiglieria, a Imperatore. Oltre alle armi, alle battaglie e alle strategie politiche, il film racconta da vicino la burrascosa storia d'amore di Napoleone con Giuseppina. Come il vero Napoleone, due volte nella polvere e due volte sull'altare, la storia messa in scena da Ridley Scott si divide in due strade, tra straordinarie scene di guerra e una storia d'amore da romanzo d'appendice, che non s'incontrano mai. Napoleone secondo Ridley Scott. O della sfrontatezza, marchio di fabbrica delle ultime opere del regista britannico, penso a Tutti i soldi del mondo e a House of Gucci. Con sprezzo del pericolo, anche questa volta, alla prova del fuoco del personaggio mastodontico di Napoleone, cioè il mito che si confonde con la storia e non viceversa, Scott traduce e tradisce per i contemporanei l'ascesa al trono del mondo occidentale di Napoleone Bonaparte, politico e generale francese vissuto tra il 1769 e il 1821 cercando il film definitivo che contenga quelli precedenti, un po' anche quello sognato da Kubrick, con - tutt'insieme - il condottiero, il tiranno, il riformatore, l'imperatore, il traditore della Rivoluzione francese (d'altro canto il cartello iniziale recita che «le persone sono spinte dalla miseria alla rivoluzione» e viceversa) e l'Uomo. E per farlo non disdegna certo la scorciatoie di una narrazione lineare e precisa nei riferimenti, come una pagina di Wikipedia, che mette in fila (seppur a volte superficialmente come per le vicende delle due isole, Elba e Sant'Elena) tutti gli snodi fondamentali della sua storia, posizionando improvvisamente Napoleone nella scena del crimine sotto la ghigliottina della regina Maria Antonietta. Già da qui, già dalla prima scena inverosimile, è il mito di Napoleone che si confonde con la storia. Ma il mito va, ancora una volta, decostruito, riportato cioè dall'investitura mistica e divina a quella del cittadino che si autoincorona ritornando al futuro del Gladiatore di Ridley Scott d'inizio millennio con l'imperatore Commodo sempre interpretato da Joaquin Phoenix. Un uomo per di più proveniente dall'isola che fa dannare la Francia, un vero e proprio "delinquente corso" come viene apostrofato anche se il legame, fortissimo, di Napoleone con la sua terra non viene mai approfondito (peccato perché è proprio lì che il futuro sovrano aveva imparato a sparare sulla gente senza tentennamenti come vedremo nel film). Così ecco che la sceneggiatura di David Scarpa si preme di sottolineare la prosaicità del personaggio e, naturalmente, il suo essere pragmatico che lo porta a vincere la sua prima battaglia a Tolone contro gli inglesi e l'immediata promozione sul campo, con il sangue in faccia, da capitano a generale. Da qui inizia la caratterizzazione del Napoleone secondo Joaquin Phoenix che, potremmo dire con una citazione abusata ma esemplificativa, ha due espressioni, con la feluca e senza la feluca. Il suo non memorabile Bonaparte è un uomo meditabondo, a tal punto che si assopisce frequentemente facendo sorridere pure Arthur Wellesley, il duca di Wellington nella battaglia di Waterloo, interpretato da un perfetto Rupert Everett. L'ironia anglosassone sul francese Bonaparte si sente tutta, non sappiamo quanto influenzata dalla geopolitica degli autori (ci sono belle parole anche per noi quando Napoleon dice: «Ho già conquistato l'Italia che si è arresa senza combattere»). Certo le annotazioni più minime e minuziose disegnano un uomo mammone, l'unico che si tappa le orecchie quando parte la sua artiglieria con la quale, diceva in vita, "si vincono le grandi battaglie", uno che "ama le costolette" e che s'invaghisce di una Giuseppina, all'inizio rappresentata come una punk londinese, che lo invita a vedere la "sorpresa" che ha sotto la gonna e che in seguito lui prenderà sessualmente da dietro con il ritmo di un coniglio, e il particolare viene replicato nel film. La storia d'amore tra i due, senza grande alchimia tra Joaquin Phoenix e Vanessa Kirby memore della principessa Margaret di The Crown, prende la piega del feuilleton facendo capolino anche nelle battaglie più epocali perché Napoleone è in continuo dialogo epistolare e mentale con lei. Infatti, se l'etimologia greca della parola 'storia' ci porta all'idea dell'"ispezione visiva", Napoleon di Ridley Scott costruisce proprio su visioni aneddotiche la descrizione dell'anima di un uomo che pensava in grande e che si voleva eternare, ecco dunque la sequenza dell'imprinting con la mummia sotto le piramidi, quella caduca della mosca nel vino e la problematica del figlio che Giuseppina non gli dà. Poi certo il film è fatto anche di grandi battaglie che il regista 'colora' (l'autore della fotografia è il fido Dariusz Wolski) a seconda della location, dal bianco di Austerlitz al nero di Tolone con tanto di colonna sonora tra "Kyrie Eleison" e canti polifonici corsi. Ridley Scott qui cerca l'epica, l'epopea, con le masse in combattimento che rendono bene l'idea dello schifo che è la guerra con un inevitabile rimando all'oggi con i soldati, morti che camminano, spostati come pedine. Ma le due narrazioni, quella austera, giustamente severa delle battaglie, e quella intima, quasi surreale nel kitsch della rappresentazione che cerca il comico, non s'incontrano mai. Inoltre, è bene ricordarlo, dal sublime al ridicolo c'è solo un passo.

https://it.wikipedia.org/wiki/Napoleon_(film_2023)

Joaquin Phoenix
Vanessa Kirby
Tahar Rahim
Rupert Everett
Mark Bonnar
Paul Rhys
Ben Miles
Ludivine Sagnier

Voto:
voto: 3,5/5

Adagio (2023) di Stefano Sollima

Dopo la morte della mamma, il sedicenne Manuel vive conun padre anziano dal passato criminale, che lo vedeva celebre con il nome di Daytona, ma che ora sembra non starci più con la testa. A sua insaputa, il ragazzo viene ricattato da un gruppo di carabinieri corrotti per una storia di festini dalle ramificazioni politiche ben più grandi di lui. Nel tentativo di divincolarsi dal ricatto, Manuel si rivolge a un ex-compare del padre, Polniuman, che promette di fare da intermediario con il carabiniere Vasco, il quale però non può permettersi di perdere i soldi che gli erano stati promessi. Dopo essersi affermato anche all'estero come un tecnico dalle mani sicure, capace di dirigere buoni action muscolari, Stefano Sollima torna nella sua Roma. Ne aveva esplorato il sottobosco più oscuro in film come Acab e Suburra, oltre che nella serie che lo ha lanciato, Romanzo criminale. Ma in questa storia di bassa malavita, tra vecchi gangster malmessi e forze dell'ordine corrotte, sullo sfondo di una città in fiamme a un soffio dal post-apocalittico, Sollima trova una delle sue opere più compiute e mature. Merito sicuramente dell'esperienza affinata in Soldado e Senza rimorso, da cui riporta in patria un'impeccabile grammatica dell'action che al momento ha pochi eguali tra i nostri registi (numerose le sequenze degne di nota, piccole e grandi, tra cui un ottimo finale tra i binari della stazione Tiburtina). Ma l'azione senza il cuore e la testa conta poco, e rispetto anche a quanto fatto in passato Adagio beneficia enormemente di un rapporto diverso con il luogo che racconta: è forse la prima volta che si va oltre un certo sensazionalismo sulla Roma in rovina, che sembra sempre sottintendere un facile commento sociale solo perché di moda a livello nazionale. Non che ci sia molto di ambiguo nella capitale di Adagio, un luogo tentacolare e terminale, azzannato alle frange di ogni inquadratura da incendi tossici, blackout e da un clima asfittico, stretto nella morsa delle vecchie sopraelevate della tangenziale Est come un Kraken di cemento mobile che striscia sotto i palazzi. Eppure la disperazione è così palpabile da far assorbire questa caratterizzazione tra le fibre del dramma, una distopia già compiuta a cui tutti - specialmente il branco di malcapitati che si rincorre sull'asfalto rovente - sembrano essersi rassegnati, aldilà e al di qua dello schermo. E non solo a questo sono rassegnati i tre curiosi ritratti di vecchie leggende del crimine romano che si contrappongono allo spietato carabiniere di Adriano Giannini: in mano a interpreti d'eccezione come Valerio Mastandrea, Toni Servillo e Pierfrancesco Favino, diventano maschere memorabili di rimpianto e decadimento fisico, fantasmi che infestano i loro stessi appartamenti attendendo l'ennesimo trapasso. Il cinema di genere più riuscito deve in qualche modo sublimare se stesso, e Sollima non ha paura di "go big or go home"; soprattutto Favino è trasfigurato in una fisicità assieme viscida e ruvida, irriconoscibile sotto una calotta cranica calva che gli riscrive il rapporto tra testa e corpo. Affiancata dal lavoro sulla lingua più vero del vero, risulta in una prova eccellente perfino per la star più luminosa del nostro cinema, che peraltro è riuscito nel giro di un anno a completare una sua personale trilogia di straordinari film sulle città, visto che la Roma di Adagio va a inserirsi tra la Napoli di Nostalgia e la Milano di L'ultima notte di amore. Il resto è un mix di novità - il volto fresco del protagonista Gianmarco Franchini, all'esordio in mezzo a nomi pesanti senza farsi schiacciare, le belle musiche dei Subsonica - e di conferme di chi un certo genere crime dell'ultimo decennio ha contribuito a crearlo: la fotografia di Paolo Carnera, le scenografie sempre speciali di Paki Meduri, e la solida sceneggiatura di Stefano Bises, che scrive a quattro mani con Sollima. Insieme fanno del cinema sporco, sfacciato e consapevole, tutte cose di cui il genere a cui hanno scelto di dedicarsi ha - alle nostre latitudini - un disperato bisogno.

https://it.wikipedia.org/wiki/Adagio_(film)

Pierfrancesco Favino
Toni Servillo
Valerio Mastandrea
Adriano Giannini
Francesco Di Leva

Voto:
voto: 3,5/5

Maestro (2023) di Bradley Cooper

Dal momento in cui Leonard Bernstein piomba sul palcoscenico della Carnegie Hall, a soli 25 anni, a condurre per la prima volta la New York Philarmonic, cosa che farà per una leggendaria tenitura decennale, la sua ascesa è inarrestabile. Accanto a lui, durante la lunghissima carriera in cui alternerà l'attività di direttore d'orchestra a quella di compositore (anche per film drammatici come Fronte del porto e musical come West Side Story) a quella di insegnante e studioso della musica, c'è la moglie Felicia Cohn Montealegre, che condivide ogni sua passione ma mal tollererà le sue relazioni omosessuali. Come annunciato dai titoli di testa, "un'opera d'arte non risponde alle domande, le suscita", ed è la tensione fra risposte contraddittorie ad essere davvero degna di attenzione. Dunque anche la vita di un musicista gigantesco come Bernstein è il composito delle contraddizioni che hanno nutrito la sua espressione artistica. Maestro, scritto (con Josh Singer), diretto e interpretato da Bradley Cooper, è il racconto di una dualità profonda che coesiste in nome della libertà creativa e personale: performance coinvolgente e composizione solitaria, estroversione pirotecnica e tristezza interiore, etero e omosessualità. Dunque anche il film è diviso nettamente in due parti, la prima in bianco e nero e la seconda a colori, a rappresentare le due epoche del rapporto coniugale fra Leonard e Felicia. La prima metà è ben riuscita, ricca di espedienti narrativi e filmici che la rendono viva e movimentata: e si vorrebbe che diventasse un musical tout court, il che espliciterebbe in modo più efficace il rapporto fra finzione e realtà, vita e performance che ha caratterizzato il matrimonio dei Bernstein, suggerito anche dal formato cinematografico "autoriale". La seconda parte invece percorre terreni più convenzionali da biopic sentimentale, e trasforma il personaggio di Felicia, interpretato da Carey Mulligan, nell'opposto di come era stata rappresentata all'inizio: non più anima gemella di Leonard intellettualmente e artisticamente (Montealegre era stata un'attrice di successo) ma moglie rancorosa e ostile che ha scoperto di non potersi accontentare di ciò che il marito le può dare - nonché una prepotente che intima a Lenny di "non azzardarsi a dire la verità" sulle sue scappatelle (compresa una vera e propria relazione parallela). Fra l'altro nella realtà, oltre che uno spirito libero, Felicia era una nota attivista politica: aspetto del quale nel film non resta alcuna traccia. Maestro dà spazio quasi unicamente ai due protagonisti, a scapito di tutto il resto: sarebbe stato invece interessante capire il processo creativo e le scelte artistiche di Bernstein, e invece la sua musica rimane un (magnifico) sottofondo (per capire come raccontare un compositore spiegandone l'ispirazione e i ragionamenti basta ricordare Ennio); così come sarebbe stato utile approfondire i ritratti dei figli o della sorella del direttore d'orchestra (l'ottima Sarah Silverman) che rimangono invece figurine collaterali, e soprattutto il punto di vista degli amanti, trattati davvero come incidenti di percorso, al netto del primo piano sofferente di Matt Bomer. Maestro è nato sotto l'egida e la coproduzione di Steven Spielberg e Martin Scorsese che hanno affidato a Cooper la storia del "più grande direttore d'orchestra americano", e la loro fiducia non è mal riposta, perché il regista-sceneggiatore riesce a imbevere la storia di un dolore e un diniego segreti, una rassegnazione a "sopportare e sopravvivere" che effettivamente si leggevano nello sguardo del vulcanico musicista: nonché quell'"acuto senso della futilità" e quella "sindrome dell'impostore" che fanno pensare anche ad una possibile immedesimazione autobiografica di Cooper, la cui interpretazione nei panni di Bernstein è comunque eccezionale, fatta di voce e fisicità, conduzioni selvagge e composizioni tormentate, e di una fondamentale inaccessibilità mascherata da esuberanza, che fa pensare più ad un disturbo bipolare che alla depressione spesso citata nel film. Carey Mulligan invece soffre la dicotomia di un personaggio che fondamentalmente tradisce se stesso, e la personale tendenza a interpretare i ruoli in maniera stucchevole.

https://it.wikipedia.org/wiki/Maestro_(film_2023)

Carey Mulligan
Bradley Cooper
Matt Bomer
Vincenzo Amato

Voto:
voto: 2,5/5

L'esorcista - Il credente (The Exorcist: Believer, 2023) di David Gordon Green

Angela nasce sotto una cattiva stella. Vittima di un terremoto ad Haiti quando è ancora nel grembo materno, il suo stesso concepimento è legato a una dolorosa scelta paterna. Tredici anni dopo sembra una ragazza serena e perfettamente integrata, ma in segreto coltiva la speranza di comunicare con lo spirito della madre e, insieme all'amica Katherine, compie un rito magico proibito. Anziché con la madre di Angela, le due ragazze entreranno in contatto con un'entità maligna che si impossesserà del loro corpo. Per comprendere quel che sta accadendo alle figlie, i genitori delle ragazzine si rivolgono a Chris McNeil, madre di Regan, oggetto 50 anni prima di un celebre caso di possessione demoniaca. Ormai specializzato in sequel tardivi di brand storici del cinema horror, David Gordon Green arriva a riesumare L'esorcista, dopo aver fatto altrettanto con Halloween. La trilogia dedicata a Michael Myers si è conclusa in chiaroscuro, con alternanza di momenti più o meno riusciti fino a un epilogo fallimentare. L'esorcista: Il credente è il risultato di un'operazione analoga, che si ricollega al capostipite del 1973 di William Friedkin, dimenticando tutti i sequel e propaggini che si sono succeduti negli anni. Laddove quel riconosciuto capolavoro del genere rivive costantemente, sotto forma di restauro o celebrazione, senza perdere un'oncia del proprio potenziale di terrore, a Green tocca l'arduo compito di dimostrarsi all'altezza, introducendo personaggi nuovi e situazioni inedite. Cercare di accontentare i maniaci del franchise e attrarre nuovi spettatori si rivela da subito un compito improbo. La fase di costruzione che prepara al climax è particolarmente lunga e sceglie di ripercorrere l'andamento di Friedkin: un inizio "esotico" (là in Iraq, qui ad Haiti), le premesse della possessione e infine la consapevolezza di quanto avvenuto che conduce all'esorcismo finale. Green si avvale di un montaggio frenetico, congegnato per innervosire lo spettatore e trasmettergli inquietudine. Un approccio interessante, che lascia spazio a un minimo di approfondimento dei personaggi, prima di riportare in scena la novantenne Ellen Burstyn, deus ex machina laico, che sembra sfatare la tradizione dell'esorcismo come pratica riservata a un ecclesiastico dalla fede incrollabile. L'inevitabile redde rationem con il Maligno sviluppa ulteriormente l'intento di secolarizzazione horror, attraverso un rito collettivo "inclusivo", che affianca al prete cattolico una veggente africana esperta di pratiche rootwork. Qui le forzature di sceneggiatura scricchiolano pericolosamente, sotto i colpi di un pervasivo politically correct più attento a bilanciare e compensare che a costruire una narrazione realmente disturbante. Spesso si scade nel ridicolo, con il personaggio di Burstyn che parla pacatamente a solo un giorno di distanza da un trauma violento e indelebile, o con accenni maldestri a entità demoniache che vorrebbero costituire un'alternativa al suggestivo Pazuzu di L'esorcista, aprendo fili narrativi talmente poco credibili da essere immediatamente abbandonati e volutamente lasciati nel vago. Quando l'horror si preoccupa di scontentare qualche minoranza più che di terrorizzare facendo leva sulle nostre fragilità e sulla nostra incredulità di fronte al soprannaturale, l'esito è puntualmente disastroso. In conclusione, la lungamente attesa escalation orrorifica delude e si rivela ben più timida rispetto al film del '73: se quella era una visione capace di disturbare il sonno a distanza di mesi, qui la sospensione dell'incredulità non scatta mai. L'audacia di intraprendere un sequel simile avrebbe dovuto essere corredata da un'equivalente dose di coraggio e temerarietà.

https://it.wikipedia.org/wiki/L%27esorcista_-_Il_credente

Olivia O'Neill
Lidya Jewett
Leslie Odom Jr.
Ellen Burstyn
Lize Johnston (demone)

Voto:
voto: 1/5