martedì 30 gennaio 2018

L'incredibile vita di Norman (Norman: The Moderate Rise and Tragic Fall of a New York Fixer, 2016) di Joseph Cedar

Chi è Norman Oppenheimer ? Un signore umile e gentile dal volto sofferto ma dall'incredibile tenacia, che si aggira per le fredde strade di una New York invernale con un triste cappotto cammello e gli auricolari del cellulare sempre all'orecchio. Un faccendiere garbatamente pedante che incontra persone, risolve problemi, millanta conoscenze, propone affari, organizza meeting, si intrufola nelle cene di gala e si mette al servizio di uomini potenti. Un cortigiano solitario, viscido e servile, che dietro un'appiccicosa piaggeria nasconde la tranquilla furbizia di un ebreo dalla mente fine e dall'eloquio accattivante. Un uomo malato di solitudine alla ricerca di un riscatto personale che cerca il colpo della vita offrendosi come galoppino del potere e che trascorre il tempo libero tra la sinagoga del suo quartiere e la compagnia del giovane nipote, avvocato rampante. Norman Oppenheimer è tutto questo e forse molto altro ancora, come lasciano trasparire i suoi occhi vispi, la cui luce non è stata ancora offuscata dalle tante porte chiuse in faccia e dai troppi bocconi amari buttati giù. Quando Norman riesce a entrare nelle grazie di un ambizioso politico israeliano, Micha Eshel, che nel giro di poco tempo diventerà primo ministro del suo paese, l'occasione attesa da una vita sembra essere finalmente arrivata. Ma l'ingresso, seppure dalla porta di servizio, nei grandi saloni della politica che conta, condurrà ben presto il nostro in un perverso meccanismo più grande di lui. Solido dramma di introspezione psicologica, scritto e diretto dall'israeliano Joseph Cedar e cucito addosso al suo splendido protagonista di cui ricalca il punto di vista, discreto e "dietro le quinte", e lo stile sospeso tra una tenerezza un po' naif e la subdola adulazione. Proprio come il personaggio di Norman, interpretato con commovente intensità da un Richard Gere sorprendente, il film avanza sornione e reticente, tra le pieghe di una fertile ambiguità che però non rinuncia mai al lato umano, egregiamente illustrato con illuminata lievezza in quell'altalena di cinismo, compromessi e fragilità che è il grande gioco della vita. Peccato che la seconda parte dell'opera, concepita in tragico crescendo verso un retorico finale moralizzatore, tenda poi a disperdere parte di quel sottile lavoro di cesello messo a punto nella prima. In ogni caso i personaggi sono disegnati ottimamente, anche per merito del grande cast che, oltre al mattatore Gere, annovera Lior Ashkenazi, Michael Sheen, Charlotte Gainsbourg e Steve Buscemi. I richiami alla tradizione culturale ebraica e alla letteratura alta, attraverso l'affascinante e sfuggente figura del "valletto" abile e ossequioso, donano al film un sostrato colto che ne nobilita la matrice e rende più autorevole la sua sobria critica sociale al sistema politico delle lobby di potere.

Voto:
voto: 3,5/5

lunedì 29 gennaio 2018

Suburbicon (Suburbicon, 2017) di George Clooney

Stati Uniti, 1959: Suburbicon è una ridente cittadina residenziale che ambisce ad essere un'area urbana modello per ospitare la borghesia caucasica americana, tra prati verdi, abitazioni eleganti, sventolio di bandiere a stelle e strisce e famiglie dalla facciata impeccabile. Ma la vita apparentemente idilliaca del privilegiato distretto viene turbata da due eventi che causano un forte shock generale: l'arrivo di una famiglia afroamericana, che viene fin da subito osteggiata dalla popolazione xenofoba, e un terribile fatto di sangue che colpisce i Lodge, dopo l'irruzione notturna di due delinquenti nella loro proprietà che provoca la morte della padrona di casa, la signora Rose, già costretta sulla sedia a rotelle dopo un incidente stradale. Il signor Gardner Lodge cerca di ricominciare a vivere insieme a suo figlio, il piccolo Nicky, con l'aiuto dell'amorevole cognata Margaret, gemella della moglie defunta. Ma il fratello maggiore di Rose e uno zelante investigatore assicurativo nutrono alcuni sospetti sulla triste vicenda. Il divo George Clooney, ormai totalmente orientato verso un cinema di denuncia sociale e di dichiarato impegno politico, dirige con pungente agilità questo suo sesto lungometraggio da regista, portando in sala un vecchio script dei fratelli Coen, risalente agli anni '80, da lui stesso rimaneggiato insieme a Grant Heslov. Il risultato è un feroce dramma satirico, in bilico tra la commedia nera e il thriller, la cui misura di stampo classico è attraversata da lampi di tetro umorismo e da momenti di cupa violenza, conferendo al tutto un senso straniante e grottesco. Lo stile Coen, chiaramente percepibile nella dimensione paradossale, nei personaggi maldestri e nelle improvvise sequenze di efferata durezza, viene infarcito da una solida direttrice morale, tipica delle opere di Clooney autore, che intende indurre una graffiante riflessione critica sull'attuale deriva della società americana, più che mai percorsa da fremiti di intolleranza razzista e da un fazioso senso nazionalistico. L'immagine ipocrita e impeccabile che il microcosmo Suburbicon offre di sè, effige vanagloriosa del Sogno Americano, viene efficacemente rappresentata da una fotografia ultra patinata, la cui falsità artificiosa si scontra con il lato oscuro della comunità, fatto da miseria morale, avidità rapace, spietatezza brutale, cinico egoismo e discriminazione sociale. Funzionale il cast con Matt Damon, Julianne Moore (in un doppio ruolo), Oscar Isaac, Glenn Fleshler ed il piccolo Noah Jupe. Raffinate ed ammalianti le musiche di Alexandre Desplat. Al netto di qualche effettismo lezioso e di alcuni compiacimenti autoreferenziali, l'intento del regista è di impietosa limpidezza: fornire una caustica ed amarissima risposta artistica alla politica "dei muri" di Trump. Una risposta, semplicistica quanto efficace, secondo la quale i maggiori pericoli per l'America provengono principalmente dal suo cuore nero, più che da minacce esterne dalla pelle di diverso colore.

Voto:
voto: 3,5/5

lunedì 22 gennaio 2018

La forma dell'acqua - The Shape of Water (The Shape of Water, 2017) di Guillermo del Toro

Baltimora, 1962, in piena "guerra fredda": Elisa, giovane donna muta, lavora come addetta alle pulizie in un laboratorio scientifico governativo ed è legata da profonda amicizia alla collega Zelda, afroamericana gentile e ciarliera, ed al suo vicino di casa Giles, vecchio pittore in disarmo discriminato per la sua omosessualità. La scoperta di una creatura acquatica, orripilante nell'aspetto ma intelligente e sensibile, che viene tenuta segregata nel laboratorio dove è oggetto di esperimenti e vessazioni fisiche, cambia per sempre la vita di Elisa, che riesce a stabilire una sincera connessione con il "mostro", di cui ben presto si innamora, ricambiata. Per salvare il suo amato dalle grinfie dello spietato aguzzino Strickland, saccente capo della sicurezza, crudele e razzista, la tenace donna organizza uno spericolato e pericoloso piano per far evadere l'essere dalla sua prigione. Straordinaria favola dark scritta e diretta da Guillermo del Toro (che realizza con essa il suo film migliore), capace di mescolare e dosare con sorprendente abilità e senso della misura generi e toni, spaziando agilmente dal fantastico all'horror, dal sentimentale all'avventuroso, senza dimenticare il thriller spionistico e la visionaria ricostruzione d'epoca. In miracoloso equilibrio tra il registro leggero e quello drammatico, seguendo sempre il filo sottile di un delicato romanticismo, il film si svolge a due livelli (fedele ad una struttura narrativa cara al regista): da un lato abbiamo la vicenda storica, con graffi di critica sociopolitica all'America della "guerra fredda" e alla sua mentalità intollerante e aggressiva, dall'altro c'è il racconto onirico fantastico che guarda dritto agli archetipi mitici della fiaba ("La bella e la bestia"), senza dimenticare la miriade di citazioni cinefile che un innamorato di cinema come del Toro si compiace di dispensare a iosa (dai vecchi musical hollywoodiani ai peplum in costume, fino a quella, evidentissima, del cult horror Il mostro della laguna nera (1954) da cui viene ripreso pari pari l'aspetto della creatura anfibia). Da questo magma pulsante di suggestioni, riferimenti e ispirazioni, l'autore riesce a trarre un'opera stupefacente capace di emozionare, appassionare, indignare e rapire lo spettatore, trasportandolo, tra passione e sentimento, nel magico mondo del cinema dei vecchi miti, quello che sapeva catturare lo sguardo ancora puro del pubblico di una volta, parlando dritto al cuore del fanciullo che era in ciascuno di noi. Ma, tra la magia e l'incanto di molte sequenze, e con uno stile registico incline ad un evocativo barocchismo, del Toro non rinuncia mai alla carnalità, al sesso, alla violenza, fedele alla sua idea di cinema "bifronte". Così il brutale cattivo interpretato abilmente da un granitico Michael Shannon, diventa il simbolo enfatico dell'americano medio, con tutto il suo carico di pregiudizi discriminatori, di feroce rapacità, di fanatismo settario e di tronfia arroganza. Di contro, in accordo alla dimensione manichea propria delle favole, tutta la sensibilità e la grazia risultano di esclusivo appannaggio dei "diversi" e dei reietti, in questa palpitante epopea aristocratica degli alienati: la muta Elisa, il mostro acquatico, il pittore gay, la sguattera di colore, il clandestino russo. E, come in ogni fiaba che si rispetti, il messaggio finale annesso è potente, etico e attualissimo, evitando con abilità i rischi della retorica e della melassa edificante. Un messaggio di tolleranza, di rispetto e di amore, oltre che una lucida requisitoria in difesa dei diritti civili di tutte le minoranze. Tra cronaca e mitologia, tra romanticismo e sogno, l'autore omaggia i suoi miti e i suoi "mostri" personali attraverso un'opera fortemente morale (ma non moralista), che si lega a filo doppio ad una miriade di simbolismi astratti che riflettono sempre il contrasto tra ideale e reale. Ecco quindi l'acqua (elemento nobile e primigenio da cui tutti proveniamo), le uova (che rappresentano l'anima), la musica, i gesti, gli sguardi; tutti simboli di quella dimensione spirituale che consente la connessione empatica tra "diversi" prima della fisicità. E sulle note classiche di Glenn Miller il regista ci accompagna, insieme al suo cast straordinario formato da Sally Hawkins, Doug Jones, Michael Shannon, Richard Jenkins, Octavia Spencer e Michael Stuhlbarg, verso la sognante purezza di un altrove liquido in cui si incontrano incubo e sogno, vita e morte, aria e acqua, odio e amore, luce e tenebra. Un altrove fantastico incontaminato la cui forma inevitabilmente ci sfugge, ma che ci pervade totalmente.

Voto:
voto: 4/5

domenica 21 gennaio 2018

Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, 2017) di Martin McDonagh

Ebbing, Missouri: Mildred Hayes è una donna disillusa e combattiva, divorziata da un marito manesco, con un figlio a carico e il peso di una terribile tragedia familiare: la morte atroce della giovane figlia Angela, stuprata, uccisa e bruciata da un sadico ancora privo di identità. Un anno dopo il tragico evento, Mildred decide di spendere i pochi soldi che ha per affittare tre enormi cartelloni pubblicitari in disuso, collocati su una strada secondaria, su cui esporre il proprio dolore, la sua fame di giustizia e la sua astiosa critica verso l'imbelle polizia locale, incapace di condurre l'indagine in una direzione concreta. Tre frasi forti che suonano come un grido di disperazione e di rabbia di una "madre coraggio" che, nonostante tutto, non si arrende. Il suo gesto le metterà contro la polizia e gran parte della comunità, cambiando per sempre la sua vita, ma anche quella dello sceriffo Willoughby, uomo saggio e stimato, in lotta contro un brutto male, e dell'agente Dixon, ubriacone violento e razzista votato all'autodistruzione. Da Martin McDonagh, irlandese approdato oltre oceano, arriva, fulminante ed appropriato, questo solidissimo esempio di cinema fieramente indipendente (ormai è assodato che tutto il meglio del cinema americano proviene da quella fucina). Ottimamente scritto, diretto con sobrio rigore e recitato benissimo da un cast tutto in odore di nomination (Frances McDormand, Sam Rockwell, Woody Harrelson), questo splendido film "di pancia" può essere considerato come il più vivido manifesto della situazione attuale americana. In una efficace commistione tra commedia nera e dramma, attraverso dialoghi al vetriolo, battute tristemente memorabili e personaggi ruvidamente ambigui ma non privi di dolente umanità, l'autore muove una lucida critica antropologica e politica alla società statunitense, utilizzando il crudo disegno impietoso di quella profonda provincia del Midwest: sporca, ignorante, violenta e feroce, coacervo di fanatismo, intolleranza, rapacità, brutalità ideologica, sopraffazione dei deboli e di tutti i comportamenti viziosi che oggi sono facilmente leggibili, attraverso la cronaca, anche ad alto livello. In bilico tra irriverenza e amarezza, ironia e tragedia, ribellione e resa, questo piccolo grande film di contrasti ha la tensione morale, giustamente indignata, di un libello civile, la cui dimensione straniante, evidentemente provocata dai contrasti predetti, è un alto valore aggiunto. Forse l'unico passaggio un po' forzato, ma comunque narrativamente necessario per imprimere la svolta decisiva che conduce alla seconda parte del film, è quello centrale delle lettere scritte dall'umanissimo sceriffo di Woody Harrelson. Ma trattasi di quisquilie di fronte alla potenza di un'opera granitica e necessaria, che suona come monito agghiacciante e cartina tornasole della deriva morale, sociale e politica che l'America sta attraversando. Da citare anche la notevole fotografia e il commento musicale, accurato, avvolgente, ma mai invadente. Tra le sequenze da consegnare alla memoria: il tenero incontro con il cervo femmina, un misurato momento lirico di poetica tensione emotiva, ed il finale on the road che si erge a piccola metafora della vita, in cui le grandi decisioni si prendono (o non si prendono) strada facendo.

La frase: "Se dovessi cacciare tutti i poliziotti con tendenze razziste resterei con tre, che comunque odiano i froci"

Voto:
voto: 4,5/5

sabato 6 gennaio 2018

Chiamami col tuo nome (Call Me by Your Name, 2017) di Luca Guadagnino

Italia settentrionale, estate del 1983: il diciassettenne Elio, unico figlio di una colta famiglia alto borghese di origine ebraica, italiana e americana, vive con inquieta energia e sincero slancio la delicata fase di scoperta della propria sessualità. Coccolato da due genitori amorevoli, che però sembrano maggiormente attenti alla sua istruzione e al suo talento musicale che alla sua nervosa curiosità sessuale, e corteggiato insistentemente dall'acerba Marzia, Elio trascorre le afose giornate estive nella residenza familiare di campagna, nei pressi di Crema, nell'attesa di un evento che possa accendere la sua tumultuosa passione interiore, faticosamente tenuta a freno. L'arrivo dell'affascinante Oliver, vitale studente americano ventiquattrenne che sarà loro ospite per sei settimane per una collaborazione accademica con suo padre, insigne docente universitario di archeologia, cambierà per sempre l'esistenza del ragazzo. Tratto dall'omonimo romanzo di André Aciman, sceneggiato da James Ivory e diretto da Luca Guadagnino (inizialmente assunto come consulente per le locations e poi subentrato come regista in corso d'opera dopo un lungo tira e molla con il celebre collega statunitense), l'opus numero cinque dell'autore siciliano è un elegante e luminoso melodramma di formazione sul tema del desiderio, della passione e della scoperta del sesso, affrontato con grazia, esuberanza e malinconico trasporto, assecondando la prospettiva giovanile. Unanimemente acclamato dalla critica internazionale e da molti considerato come uno dei sicuri protagonisti ai prossimi premi Oscar 2018, Chiamami col tuo nome è un film di corpi, di pulsioni e di sensi, sospeso tra il classicismo decadente delle ambientazioni, il quieto immobilismo di una famiglia borghese, erudita e poliglotta (nella versione originale i dialoghi avvengono continuamente in inglese, francese e italiano) e la sensualità rigogliosa dei due giovani protagonisti, affamati di emozioni e voluttuosamente voraci nella ricerca della propria identità attraverso la carnalità. Come nelle opere precedenti del regista, il contrasto tra le restrizioni dell'ambiente familiare (in questo caso intellettuale ed elitario) e la vitalità prorompente dei personaggi, trova il suo inevitabile sfogo attraverso il sesso. Un sesso, in questo caso omosessuale, che finisce per travolgere ogni cosa pur senza mai dissipare quel senso di confusione interiore tipico dell'essere umano. Guadagnino omaggia in maniera chiarissima i suoi personali miti cinematografici: soprattutto Bertolucci, perchè è impossibile non pensare a Io ballo da sola guardando questo film, ma anche Rohmer, Visconti e Renoir. Evitando saggiamente ogni indulgenza sentimentalistica, l'opera procede agilmente tra tensione sensuale, intimo tormento e qualche inciampo non di poco conto, tra cui citiamo l'irritante scelta di rappresentare gli stranieri come colti e raffinati e gli italiani come villici o arroganti zoticoni. E senza dimenticare la discussa (ed inutile) scena della pesca: una metafora al limite del trash che è indubbiamente il punto più basso della pellicola. Anche la puntigliosa contestualizzazione "craxiana" del momento sociale del nostro paese appare come un mero stereotipo di dubbia efficacia narrativa, pur nella sua marginalità. I momenti migliori sono tutti nell'intenso rapporto tra i due protagonisti, interpretati con lodevole efficacia da Timothée Chalamet ed Armie Hammer, e nel finale che ci consegna le sequenze più emozionanti: l'accorato (e sorprendente) discorso/confessione dell'austero padre/professore al figlio Elio ed il sofferto epilogo durante i titoli di coda. Completano il cast Michael Stuhlbarg, Esther Garrel e Amira Casar. Finemente evocative le musiche originali composte da Sufjan Stevens, che fungono da contrappunto emotivo nel segmento conclusivo del film, in luogo della più convenzionale voce fuori campo inizialmente prevista nella prima stesura della sceneggiatura di Ivory.

Voto:
voto: 3,5/5