lunedì 24 novembre 2014

The Congress (The Congress, 2013) di Ari Folman

Robin Wright (nel ruolo di se stessa) è un'attrice dimenticata che vive in un hangar dismesso e si occupa dei suoi figli, di cui uno disabile, con problemi d'udito e a rischio di cecità. Una major di Hollywood le propone un singolare pioneristico contratto, che dovrebbe rappresentare il futuro della recitazione: la scansione completa di tutte le sue espressioni, con conseguente digitalizzazione attraverso un innovativo sistema informatico, per crearne un alter ego virtuale da utilizzare nei film futuri al posto dell'attrice reale. Dopo non poche titubanze Robin accetta e firma un contratto ventannale con cui gli studios sfrutteranno il suo "clone" digitale a loro piacimento per le "interpretazioni" a venire. Trascorsi i vent'anni l'attrice, tornata in auge grazie a ruoli in film sci-fi,  è invitata, come ospite d'onore, ad un avveniristico congresso tecnologico che ha la particolarità di "risiedere" nella mente dei partecipanti: infatti la società ha subito nuovi rivoluzionari cambiamenti e, ormai, il virtuale domina sul reale. In particolare è stata sintetizzata una speciale sostanza chimica, la cui assunzione determina l'ingresso in un universo fantastico alternativo, che ha il sembiante di un film d'animazione, nel quale tutto è ambiguo, persino il proprio aspetto. Il visionario Ari Folman, dopo Valzer con Bashir, torna ad utilizzare l'animazione (che qui costituisce circa metà dell'intera pellicola) per raccontare problematiche attuali come la spersonalizzazione dell'individuo, la caducità del successo, le disumane regole dello show business, l'overdose di tecnologia nel quale tutti siamo immersi, e il cui lato oscuro è una desolante omologazione che crea dipendenza ed impoverisce lo spirito umano. Senza moralismi o sermoni ideologici, il regista israeliano realizza un affresco distopico potente, surreale, straniante, forte di un apparato visivo di prim'ordine che suscita ora incanto ora disagio, e sceglie una narrazione onirica, ma pervasa da punte di caustica ironia e di sapido citazionismo, che non può lasciare indifferenti. Di fianco alla critica all'oligarchia hollywoodiana, senza dimenticare i guru e gli imbonitori della new economy hi-tech, è presente una notevole dimensione psicoanalitica nel processo di accettazione del proprio passato e nella ricerca, disperata, della propria identità attraverso i caotici mondi del sogno e dell'inconscio. Il viaggio, non sempre equilibrato e non esente dai rischi del paradosso, si articola come un "ponte" tra la rimozione dei propri incubi dolorosi e l'approdo ad un'autentica consapevolezza di sè attraverso uno scopo imprescindibile, come l'amore ed il senso di responsabilità nei confronti di un figlio. Nonostante qualche pausa di troppo, specie nella parte animata, il film ha estro, carattere e scatto e si colloca come un intenso caleidoscopio di sensazioni che, più che nella logica, mirano a scavare nella sfera emotiva dello spettatore per divenire l'humus subliminale di un processo di "riflessione" che elude la razionalità, basandosi sull'illuminazione. Tra i tanti momenti visionari del mondo "alternativo", il punto più alto dell'opera è l'intensa sequenza della digitalizzazione di Robin Wright, nella futuristica stanza del performance capture, in cui la voce guida di Harvey Keitel ne modula gli umori e ne determina i diversi possibili stati d'animo, fungendo da sapiente metronomo spirituale e catalizzatore di emozioni.

Voto:
voto: 4/5

Nessun commento:

Posta un commento