In
un futuro imprecisato la società è controllata da potenti corporazioni
informatiche che consentono la costante connessione dei cittadini ai sistemi
digitali, in cui operano intelligenze artificiali e potenti software capaci di
garantire evasioni virtuali. Sotto il controllo dell’enigmatico direttore noto
come Management, opera il bizzarro Qohen, genio informatico alienato e
solitario che abita in una chiesa abbandonata, parla sempre con il plurale maiestatis e vive recluso
nell’attesa di una fantomatica telefonata che dovrebbe svelargli il senso della
vita. Quando gli viene affidata la risoluzione di un algoritmo impossibile, il
così detto “Zero Theorem”, che dovrebbe far luce sul fine ultimo
dell’esistenza, il nostro cade in uno stato di profonda angoscia, tra incubi popolati
da buchi neri e sedute di psicanalisi on-line con una dottoressa digitale.
L’incontro con la sensuale Bainsley, giovane donna che sembra attratta da lui,
e con il nerd Bob, figlio prodigio
del sinistro Management, porterà Qohen ad esplorare sconosciuti recessi della
sua anima. Ritorno in grande stile di Terry Gilliam alla fantascienza
distopica, già esplorata con ottimi risultati in Brazil
(1985) e L’esercito delle 12 scimmie
(1995), con questo visionario dramma antropologico che, sotto la patina sci-fi, cela il suo vero volto di paradossale
parabola sulla solitudine umana nell’era della tecnologia virtuale. Diretto con
sagace frenesia dall’autore del Minnesota, il film si avvale di una vivida
fotografia dai colori elettrici e di stranianti atmosfere ipnotiche che
mescolano abilmente futuribile e rétro,
attraverso l’accostamento (tipico nel cinema di Gilliam) di oggetti hi-tech con
elementi anacronistici, inducendo suggestioni a metà strada tra sogno e
profezia. Tra deformazioni grottesche e riflessioni filosofiche non esattamente
originali, Gilliam si muove abilmente con un’estetica posta a metà strada tra Blade
Runner e Brazil,
fieramente nostalgica delle atmosfere degli anni ’80, e ci consegna
l’ennesima brillante riflessione sulla fobia e sull’emarginazione dell’uomo in
lotta per il riconoscimento del proprio individualismo di fronte alla
spersonalizzazione imposta dal potere totalitario, che ricerca l’omologazione
per preservare il proprio status quo.
Brillante nella forma ma cupo e rassegnato nelle conclusioni, questo nuovo
incubo paranoide targato Gilliam ci regala immagini potenti e bellissime, pur
non indenni dai manierismi barocchi tipici dell’autore, e pone l’accento sulla
ricerca, eroica e disperata, di un proprio percorso individuale, anche a costo
di abbandonare ideali di fede e utopie amorose. Ottimo il cast, con Christoph
Waltz esemplare nel ruolo dell’istrionico protagonista, Mélanie Thierry, David
Thewlis, Lucas Hedges e due star come Matt Damon e Tilda Swinton, che si
ritagliano apparizioni piccole ma incisive nei ruoli del direttore Management e
della psicologa virtuale.
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