lunedì 17 ottobre 2016

The Zero Theorem - Tutto è vanità (The Zero Theorem, 2013) di Terry Gilliam

In un futuro imprecisato la società è controllata da potenti corporazioni informatiche che consentono la costante connessione dei cittadini ai sistemi digitali, in cui operano intelligenze artificiali e potenti software capaci di garantire evasioni virtuali. Sotto il controllo dell’enigmatico direttore noto come Management, opera il bizzarro Qohen, genio informatico alienato e solitario che abita in una chiesa abbandonata, parla sempre con il plurale maiestatis e vive recluso nell’attesa di una fantomatica telefonata che dovrebbe svelargli il senso della vita. Quando gli viene affidata la risoluzione di un algoritmo impossibile, il così detto “Zero Theorem”, che dovrebbe far luce sul fine ultimo dell’esistenza, il nostro cade in uno stato di profonda angoscia, tra incubi popolati da buchi neri e sedute di psicanalisi on-line con una dottoressa digitale. L’incontro con la sensuale Bainsley, giovane donna che sembra attratta da lui, e con il nerd Bob, figlio prodigio del sinistro Management, porterà Qohen ad esplorare sconosciuti recessi della sua anima. Ritorno in grande stile di Terry Gilliam alla fantascienza distopica, già esplorata con ottimi risultati in Brazil (1985) e L’esercito delle 12 scimmie (1995), con questo visionario dramma antropologico che, sotto la patina sci-fi, cela il suo vero volto di paradossale parabola sulla solitudine umana nell’era della tecnologia virtuale. Diretto con sagace frenesia dall’autore del Minnesota, il film si avvale di una vivida fotografia dai colori elettrici e di stranianti atmosfere ipnotiche che mescolano abilmente futuribile e rétro, attraverso l’accostamento (tipico nel cinema di Gilliam) di oggetti hi-tech con elementi anacronistici, inducendo suggestioni a metà strada tra sogno e profezia. Tra deformazioni grottesche e riflessioni filosofiche non esattamente originali, Gilliam si muove abilmente con un’estetica posta a metà strada tra Blade Runner e Brazil, fieramente nostalgica delle atmosfere degli anni ’80, e ci consegna l’ennesima brillante riflessione sulla fobia e sull’emarginazione dell’uomo in lotta per il riconoscimento del proprio individualismo di fronte alla spersonalizzazione imposta dal potere totalitario, che ricerca l’omologazione per preservare il proprio status quo. Brillante nella forma ma cupo e rassegnato nelle conclusioni, questo nuovo incubo paranoide targato Gilliam ci regala immagini potenti e bellissime, pur non indenni dai manierismi barocchi tipici dell’autore, e pone l’accento sulla ricerca, eroica e disperata, di un proprio percorso individuale, anche a costo di abbandonare ideali di fede e utopie amorose. Ottimo il cast, con Christoph Waltz esemplare nel ruolo dell’istrionico protagonista, Mélanie Thierry, David Thewlis, Lucas Hedges e due star come Matt Damon e Tilda Swinton, che si ritagliano apparizioni piccole ma incisive nei ruoli del direttore Management e della psicologa virtuale.

Voto:
voto: 4/5

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