giovedì 6 ottobre 2016

Sacro GRA (Sacro GRA, 2013) di Gianfranco Rosi

Il Grande Raccordo Anulare (GRA) è un’autostrada tangenziale che circonda Roma con un tracciato circolare a doppio senso di marcia tramite due carreggiate separate a tre corsie. Con i suoi 68 chilometri è l’autostrada locale più lunga d’Italia ed è anche la più trafficata con un volume di quasi 60 milioni di veicoli all’anno. Croce e delizia degli abitanti di Roma, il raccordo è ormai parte integrante della vita e del costume della nostra capitale, un anello d’asfalto che, idealmente e simbolicamente, segna il confine tra la città eterna e le sue periferie più estreme, popolate da un’umanità ai margini, antropologicamente distante dai canoni metropolitani. Il regista Gianfranco Rosi ha attraversato il raccordo in camper, esplorandone i luoghi limitrofi, per circa due anni, alla ricerca di personaggi particolari e di storie degne di essere raccontate in questo documentario anomalo che rappresenta un viaggio “on the road” in una terra di nessuno, per gettare uno sguardo in quell’umanità “sotterranea” puntualmente ignorata dall’occhio frettoloso degli automobilisti che sfrecciano veloci sull’asfalto del GRA. Ci vengono quindi presentate, senza soluzione di continuità, diverse storie vere di personaggi reali che “interpretano” loro stessi, in un colorito e paradossale collage eterogeneo di esistenze (molte delle quali al limite), il cui involontario collante è il raccordo anulare evocato dal geniale titolo, autentico protagonista del film, ovvero quella sorta di eccentricità stradale che, pur non conducendo da nessuna parte, collega ogni luogo di Roma grazie alle sue uscite. Assistiamo quindi a numerose vicende, tra cui ricordiamo: un botanico che cerca di salvare, con commovente meticolosità, le sue palme dal micidiale parassita detto punteruolo rosso, un barelliere che passa le notti in ambulanza per soccorrere le vittime di incidenti e che intrattiene un tenero rapporto con la vecchia madre malata, uno stravagante principe che vive in un lussuoso palazzo in zona Boccea, che spesso affitta come B&B o come set per cinema e fotoromanzi, un vecchio nobile piemontese dall’eloquio aulico che convive con la figlia studentessa in uno squallido monolocale di periferia, un pescatore di anguille che abita in una baracca sul Tevere sotto un viadotto del GRA insieme alla compagna ucraina. E ancora: un sedicente attore di fotoromanzi, ormai sfiorito ma sempre in cerca della fama, due anziane prostitute che esercitano il “mestiere” in uno squallido camper, un gruppo di donne fedeli che sembrano assistere a un’apparizione mistica, due avvenenti cubiste che si esibiscono sul bancone di un bar e la riesumazione di vecchie salme destinate ad una fossa comune nei pressi del raccordo. Con il suo sguardo lucido, radicale, attento e rispettoso dell’elemento umano, Rosi, secondo il suo stile tipico, parte dai luoghi per raccontarci l’uomo, attraverso una rapsodia armonica di vicende “border line” che evocano, al tempo stesso, decadenza sociale, vitalità esuberante, crudo realismo, densità tematica, trasfigurazione mitologica, allegorie universali. Con il suo stile ostico e rigoroso, ma indubbiamente unico, l’autore sposta un po’ più in alto l’asticella qualitativa del documentario, ridefinendone i canoni con un’estetica assai prossima al cinema, attraverso una non convenzionale linea di confine che, proprio come il raccordo anulare, avvolge, attraversa e scavalca contraddizioni, paradossi e dissonanze, forse evocando, senza alcun catastrofismo, la distruzione silenziosa e imminente del nostro modello sociale. Proprio come una pianta/anima tragicamente corrosa dall’interno da un’orda spietata di voraci parassiti. Il film è stato premiato, non senza polemiche, con il Leone d’Oro al Festival di Venezia dalla giuria presieduta da Bernardo Bertolucci.

Voto:
voto: 4/5

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