Nella Londra degli anni '50 Reynolds Woodcock è un rinomato stilista di moda di grande successo, che dirige con rigida autorevolezza, insieme all'austera sorella Cyril, un lussuoso atelier, meta prediletta di reali, dive, nobili e ricche signore del jet set britannico. Rubacuori impenitente, narcisista egocentrico, lavoratore instancabile e uomo spigoloso dal carattere insopportabile, Reynolds insegue con avidità maniacale un'idea di bellezza di sacrale perfezione, che un giorno crede di trovare nella giovane Alma, deliziosa cameriera conosciuta per caso che fin da subito s'invaghisce di lui. La relazione cresce in maniera incontrollabile e la donna si trasferisce presto nella residenza Woodcock, diventando la musa favorita di Reynolds, ma sotto lo sguardo severo e sospettoso della tenutaria Cyril. Tra alti e bassi, amarezze e delusioni, Alma rivelerà insospettabili doti di tenacia e resilienza nel tener testa al suo ostico amante, riuscendo a creare un rapporto ben più torbido di ciò che appare in superficie. Diciamolo subito a scanso di ogni equivoco: l'ottavo lungometraggio di P.T. Anderson (da lui prodotto, scritto, diretto e fotografato) è un capolavoro, uno dei film più importanti, eleganti, ambigui, affascinanti, misteriosi ed emblematici del decennio in corso. E' anche l'opera più libera, ambiziosa, concettuale e stupefacente del grande regista americano: un melodramma introspettivo e reticente di sontuosa impaginazione tecnica, visivamente magnifico nella sua raffinatezza barocca, diamantino nella secchezza narrativa, ipnotico nella forma, anticonvenzionale nell'essenza e carico di sottotesti psicologici che inducono oscure vertigini nello spettatore. Come già suggerito dal titolo originale è un film di fantasmi, di pulsioni striscianti, di urla sussurrate, di desideri implosi, di erotismo raffreddato, ma anche di morbida sensualità in alcune sequenze memorabili, come quella della prima volta in cui Reynolds prende le misure del corpo di Alma. E' un film da metabolizzare con lentezza, magari anche attraverso visioni successive, per coglierne appieno la bellezza rarefatta e la potente astrazione di apologo sullo sguardo e sulle dinamiche del potere, sospeso tra desiderio e masochismo, sogno e ossessione, psiche e amore, arte e depressione. Morboso e sfuggente nella sua bramosia nascosta sotto la patina di un'ipocrita ritrosia, il film procede con geometrica precisione e con lucida ineluttabilità assecondando la pedante ritualità del suo protagonista, salvo poi ribaltare il punto di vista nella seconda parte, dando vita ad una parabola, candidamente spiazzante, sui rapporti di potere che alimentano, perturbano e suggellano una relazione. Asciutto e puntuale nella sua ricercatezza neoclassica, quest'opera "sartoriale" è perfettamente cucita addosso ai suoi personaggi e ci consegna un indimenticabile finale raggelante che si apre ad abissi di psicopatologia sessuale nella definizione di quello che può essere un rapporto di coppia, in una sottile tenzone in cui il confine tra i ruoli (vittima-carnefice, amante-amato, dominante-dominato) è di labile imperscrutabilità. Stiamo insomma parlando di un perfetto esempio di grande cinema "in potenza", probabilmente ermetico per il pubblico mainstream, che nasconde abilmente la sua vera natura sotto la coltre raffinata di un falso romanticismo manierista. La sovrapposizione tra il film e il suo magnifico protagonista è totale e va quasi oltre il tranquillizzante concetto di trama: Reynolds è un sociopatico represso ossessionato dalla sua arte, dalla forma, dalla ricerca della perfezione. Un uomo dal carisma nervosamente alabastrino che inconsciamente nasconde i suoi intimi desideri nelle trame nascoste delle sue opere tessili (il filo citato nel titolo), parafrasando così il tentativo di rimozione di traumi infantili, rimorsi, vulnerabilità e smanie represse, tra lo spettro di una madre castrante e la paura della paternità, esorcizzata con l'estetizzazione dell'atto creativo attraverso il "sacro" rito della cucitura. La figura di Alma è rappresentata abilmente come una sorta di "manichino" vivente, una donna fatale "dormiente", un po' angelo asessuato e un po' demonio guastatore, la cui apparizione porterà nella vita di Reynolds luce e ombra, sole e tempesta, il dolce del miele e l'amaro del fiele, perchè l'amore è un pasto proibito per cannibali affamati, è un sublime "veleno" che esalta il corpo e mina la psiche, mettendo ogni uomo davanti allo specchio scuro della sua autentica personalità, costringendolo a fare i conti con sè stesso. Splendide le musiche immersive di Jonny Greenwood e straordinario il cast con Daniel Day-Lewis, Lesley Manville e Vicky Krieps sugli scudi. E se la bravura di Day-Lewis è ormai un dato di fatto archiviato, sorprende ed entusiasma l'eccellente lavoro interpretativo "per sottrazione" svolto dalla Krieps, il cui sorriso enigmatico e il cui sguardo intenso sono tra i punti di forza assoluti del film. Tra gli innumerevoli guizzi magistrali della pellicola non si possono sottacere i riferimenti cinefili colti, come gli evidentissimi echi hitchcockiani che ammiccano al capolavoro Rebecca o le sottili allusioni wellesiane nelle scenografie della "casa-museo" dei Woodcock. Ben meritate, e in un certo senso inaspettate, le sei nomination "pesanti" agli Oscar 2018: miglior film, regia, costumi, colonna sonora, attore protagonista (Day-Lewis) e attrice non protagonista (Manville). Chi sceglierà di "indossare" senza preconcetti questo film, facendosi accarezzare dal suo opaco vortice voluttuoso fatto di panna e merletti, ne uscirà intimamente turbato e toccato nel profondo dal gioco di intrecci tra nitidezze e negazioni, estasiato dalla purezza formale di questa secca vivisezione interiore di una relazione sentimentale.
Voto: