domenica 10 dicembre 2017

Detroit (Detroit, 2017) di Kathryn Bigelow

A Detroit, tra il 23 e il 27 luglio 1967, a seguito di un discutibile arresto di massa da parte della polizia ai danni di cittadini di colore colpevoli di trovarsi in un bar privo di licenza per la vendita degli alcolici, esplosero incontrollabili una serie di disordini che culminarono in una violenta rivolta da parte della comunità afroamericana, che mise a ferro e fuoco le strade dando vita ad un'autentica guerriglia urbana. La reazione da parte delle forze dell'ordine, a cui si unì anche la guardia nazionale, fu altrettanto feroce e culminò nei tragici eventi dell'Algiers Motel durante i quali, in una notte di assurda follia razzista, tre poliziotti alla ricerca di un fantomatico cecchino segregarono, picchiarono e torturarono dei ragazzi di colore e due giovani donne bianche, "colpevoli" di atteggiamento promiscuo con alcuni di essi, lasciando a terra tre vittime innocenti uccise a sangue freddo. Il vergognoso processo farsa che ne seguì, confermò l'atteggiamento sprezzante e discriminatorio del potere dei bianchi nei confronti della comunità nera. Ispirandosi ai reali e vergognosi fatti di sangue di Detroit del 1967, e in parte romanzandoli per esigenze narrative, Kathryn Bigelow, la più "tosta" tra le registe d'oltre oceano, ha tratto un film brutale, crudo e indignato, che va a toccare uno dei nervi scoperti della (cattiva) coscienza americana: la questione dei diritti civili, del razzismo e dell'ancora difficile convivenza tra etnie diverse in una nazione che ha fatto, almeno teoricamente, della pluralità razziale il suo punto di forza e il suo vanto da sbandierare nelle campagne elettorali o nelle questioni di politica estera. L'argomento, scottante, delicato e ancorché attuale, viene affrontato con il piglio di un racconto frenetico e a tratti scioccante, esteticamente superbo e ben corredato da una eccellente ricostruzione d'epoca, ma probabilmente troppo concitato per colpire nel profondo il cuore nero del problema e mettere a nudo tutte le sfumature di una questione tanto atavica quanto imbarazzante. Detroit è un film teso e violento sulla violenza, sull'intolleranza xenofoba, sull'abuso di potere, sulla prevaricazione e sull'arrogante certezza dell'impunità di un sistema governativo fascistoide, tipicamente di razza bianca, che ha radici profonde ed ha trovato terreno fertile da ambo i lati dell'Oceano Atlantico. E se la condanna verso questa aberrante ideologia è ovviamente netta, non si può dire che l'analisi sociologica del problema lo sia altrettanto. Nettamente più a suo agio con l'azione declinata attraverso immagini convulse che con l'approfondimento psicologico dei personaggi, la regista americana riflette sugli eventi di Detroit con un film idealmente divisibile in tre atti: il primo, di taglio documentaristico e caratterizzato da uno stile nervoso, ci mostra lo scoppio della rivolta urbana e lo scenario da guerriglia conseguente. Il lungo segmento centrale (che è anche il migliore) ci immerge con claustrofobico sadismo nella bestiale notte nel Motel, risparmiandoci ben poco delle sevizie psicofisiche, delle percosse, delle umiliazioni e dei delitti perpetrati con cinica ferocia dagli aguzzini in uniforme ai danni delle vittime. Qui l'autrice dispensa il suo talento innato nel racconto attraverso immagini forti e nervosamente agghiaccianti, restituendoci in pieno l'orrore e l'ingiustizia di quella che è ancora oggi una macchia esecrabile della società statunitense. Il terzo atto, più canonico e con qualche indulgenza retorica, intende mostrare il senso di umiliazione, rabbia, frustrazione e impotenza lasciato nella psiche di coloro che sono sopravvissuti alla spregevole notte ma che ancora portano dentro i segni dell'infamia subita. Vengono quindi poste in risalto le storie personali di Dismukes, agente di sorveglianza di colore che fu pavido testimone dei fatti dell'Algiers, e di Larry, talentuoso cantante soul in cerca di affermazione, la cui profonda ferita nell'animo finisce per minarne le velleità artistiche. Nel comparto di attori i più bravi sono, nell'ordine, Algee Smith, Will Poulter e John Boyega. Come in quasi tutti i film "a tesi" ispirati a tragici eventi storici il rischio di manicheismo è dietro l'angolo, ma la sincera e trascinante capacità della Bigelow di tradurre i fatti in un energico flusso di immagini è fuori discussione. E (quasi) tutto soccorre.

Voto:
voto: 3,5/5

giovedì 7 dicembre 2017

Dunkirk (Dunkirk, 2017) di Christopher Nolan

Maggio 1940, durante la Seconda Guerra Mondiale: sulla spiaggia francese di Dunkerque, vicino al confine belga, si trovano ammassati circa 400 mila soldati alleati (in gran parte britannici) costretti alla fuga dall'incessante avanzata dell'orda nazista che li bracca senza tregua. Nel tentativo di salvarli l'Inghilterra organizza un eroico quanto improvvisato piano di evacuazione, ricorrendo anche all'aiuto fondamentale di numerosi civili che partecipano all'azione con le loro imbarcazioni private guidate attraverso la Manica. Nonostante l'evidente disfatta militare, il "miracoloso" salvataggio di Dunkerque può essere considerato il rocambolesco inizio di quella resistenza strenua e orgogliosa che gli inglesi seppero opporre alle forze tedesche, in attesa di quegli eventi favorevoli che poi ribaltarono le sorti belliche, cambiando per sempre la storia del mondo moderno. Prodotto, scritto e diretto da Christopher Nolan (che ha cullato questo progetto per anni), Dunkirk è un war movie tecnicamente superbo e narrativamente audace che rende omaggio ad un mito nazionale britannico limando l'enfasi retorica e spingendo forte sul pedale di un accorato intimismo che stinge nell'epopea antropologica. Questa grande storia di una vittoria all'interno di una sconfitta procede secondo tre linee di racconto distinte, sia per location sia per durata, che si sovrappongono e si intersecano offrendoci tre soggettive differenti come le loro ambientazioni: il molo (vicenda che copre un arco temporale di una settimana), il mare (una giornata) e il cielo (un'ora). Ancora una volta il punto di forza assoluto è il montaggio (straordinario), capace di plasmare gli eventi in un mosaico di azioni e di emozioni in continua oscillazione tra l'affresco storico e il poema umano, che intende tracciare un accorato inno alla vita, al valore della sopravvivenza e all'importanza della coesione per definire un'identità nazionale. Potente e al tempo stesso calibrato, visivamente sontuoso nella sua fotografia plumbea e nel suo formato a 65mm, si lascia andare a qualche indulgenza ampollosa nelle sole scene con Kenneth Branagh, che si erge saldo come uno scoglio in mezzo al mare affermando tutto il suo orgoglio fieramente british, ma è un film importante, intenso, lirico, a tratti esaltante, che trova i suoi momenti migliori nei personaggi anonimi e nelle piccole gesta spontanee. Musicato da Hans Zimmer con minor veemenza del solito (il che è un bene) ed ottimamente riuscito anche nella commistione tra attori poco noti (Fionn Whitehead, Tom Glynn-Carney, Jack Lowden, Harry Styles) ed altri più famosi (Kenneth Branagh, Tom Hardy, Cillian Murphy, Mark Rylance), è il film più maturo, sentito ed equilibrato del regista londinese. Da segnalare la presenza vocale, apprezzabile però solo in versione originale, del fido Michael Caine nei panni del radiocronista di guerra. Da lodare altresì l'utilizzo misurato e poco invasivo della computer grafica in favore di un maggior numero di effetti speciali realizzati alla vecchia maniera, con trucchi artigianali, vere imbarcazioni e autentici aeroplani d'epoca, aumentando così enormemente la resa realistica.

Voto:
voto: 4/5

domenica 5 novembre 2017

La scoperta (The Discovery, 2017) di Charlie McDowell

Un brillante fisico fa un'incredibile scoperta destinata a cambiare per sempre il futuro dell'umanità: attraverso dei sofisticati macchinari tecnologici da lui costruiti riesce a dimostrare scientificamente l'esistenza di una vita dopo la morte e, quindi, dell'aldilà. Ma il nostro non può immaginare gli effetti della sua scoperta sulla società: infatti, dopo la sconcertante rivelazione, inizia una sempre crescente tendenza al suicidio da parte di individui che, certi di raggiungere una vita migliore, scelgono di porre fine con le loro stesse mani alla propria desolante quotidianità. Sconvolto dagli accadimenti lo scienziato si ritira su un'isola appartata per continuare i suoi esperimenti insieme ad una piccola comunità di fedeli sostenitori, che somiglia sempre di più a una setta di adoratori. Il suo figlio maggiore, Will, notoriamente scettico, decide di raggiungere il padre in cerca di risposte sulla morte di sua madre e sul traghetto incontra l'affascinante e misteriosa Isla, una ragazza tormentata con tendenze suicide e una morbosa attrazione per l'ultraterreno. Evidentemente attratto dalla donna, Will cerca di aiutarla e si unisce insieme a lei al gruppo di devoti a suo padre. Dramma fantascientifico a basso budget ma dalle forti ambizioni tematiche di Charlie McDowell, appartenente a quel cinema indipendente americano in cui sono ormai riscontrabili la maggior parte dei prodotti sopra la media provenienti da oltre oceano. Autunnale, antitetico e dissonante rispetto alla rutilante spettacolarità della fantascienza mainstream, The discovery va evidentemente collocato nel filone dello sci-fi concettuale, con pochi effetti speciali, che aspira alla sostanza piuttosto che alla forma e che si pone obiettivi filosofici esistenziali più che di leggero intrattenimento per famiglie. La scelta di un cast non di poco conto (con il vecchio divo Robert Redford e la brava Rooney Mara al fianco di Jason Segel) e l'indubbia componente sentimentale su cui si fonda buona parte della vicenda (la storia d'amore tra Isla e Will rappresenta il cuore pulsante dell'opera) non vanno letti come un tentativo di fornire appeal commerciale alla pellicola, ma come integrazione (invero non perfettamente riuscita) di un'idea forte che sta alla base del progetto e che ne costituisce il motivo di maggior fascinazione. Senza svelare troppi particolari ulteriori sulla trama, per non rovinare la sorpresa allo spettatore, ci limitiamo a dire che il film di McDowell cerca di dare una "risposta", non esaustiva, non religiosa, non sovrannaturale ma, piuttosto, fantascientifica e profondamente umana, alla più grande domanda che da sempre affligge l'uomo: che cosa ci attende dopo la morte ? La risoluzione intimistica, sussurrata, forse inaspettata anche se non propriamente originale, non manca di incisività ma lascia una sensazione a metà strada tra lo smarrimento e l'indignazione. A volte, come in questo caso, l'idea iniziale vale ben più della sua realizzazione pratica, perchè l'inconoscibile e l'ineffabile hanno maggiore possanza se vengono suggeriti, piuttosto che "spiegati".

Voto:
voto: 3/5

Lupo solitario (The Indian Runner, 1991) di Sean Penn

Joe e Frank Roberts sono due fratelli del Nebraska legati da un antico e sincero affetto ma profondamente diversi tra loro. Joe è un uomo tranquillo e per bene, felicemente sposato con una avvenente messicana da cui ha avuto uno splendido bambino, diventato capo della polizia della sua cittadina dopo aver abbandonato, suo malgrado, il sogno di fare l'agricoltore nella vecchia fattoria di famiglia, espropriata dal governo. Frank è un ribelle inquieto, violento e votato all'autodistruzione, incapace di condurre una vita regolare e con una propensione naturale a mettersi nei guai, in pessimi rapporti con i genitori che non ne hanno mai tollerato la turbolenza. Dopo il ritorno di Frank dalla guerra in Vietnam, Joe cerca in tutti i modi di ricostruire un rapporto con lui e di guidarlo sulla retta via, dimostrandosi sempre amorevole, tollerante e prodigo di buoni consigli verso lo scapestrato fratello. Quando Frank allaccia una relazione stabile con la bella Dorothy e, dopo averla messa incinta, si decide a trovare un lavoro onesto come carpentiere, Joe crede di avere finalmente raggiunto il suo obiettivo. Ma i demoni interiori e le cattive abitudini sono sempre in agguato. L'esordio registico dell'attore Sean Penn è un crudo dramma familiare, teso e puro, fieramente indipendente per concezione e realizzazione, e fortemente ambizioso nella sua natura di parabola antropologica che mette in scena il conflitto tra il lato oscuro della natura umana e la forza dei legami di sangue. Ed è proprio il sangue un elemento pregnante della pellicola, sempre presente con evidenti allusioni simboliche nelle scene cruciali che oscillano tra la ricerca esasperata di un brutale effettismo e la tensione introspettiva dell'apologo morale. Tra echi biblici (Caino e Abele) e suggestioni ancestrali di natura epica (il racconto metaforico sui nativi americani che contiene il senso intimo dell'opera e che si collega perfettamente al titolo originale, totalmente stravolto e banalizzato da quello italiano), il film procede pedissequamente come adattamento fedele del testo del brano "Highway Patrolman" (1982) di Bruce Springsteen, rivelando (già solo per questo) l'approccio originale e autoriale di Penn regista. Ma non tutto funziona perfettamente: la pellicola è talvolta squilibrata, sicuramente troppo lunga, qua e là eccessiva nelle soluzioni visive e, nell'ottimo cast, appare francamente discutibile la presenza di Valeria Golino nel ruolo di una messicana (con gli occhi verdi!). Molto bravi invece i due attori protagonisti (David Morse e Viggo Mortensen all'apice del suo fascino "maledetto", che non manca di regalarci l'ennesima scena di nudo integrale della sua carriera da anticonformista) e anche il resto del cast è da elogiare: da Patricia Arquette al carismatico Dennis Hopper, passando per un insolito, intenso e commovente Charles Bronson alla sua penultima apparizione sul grande schermo. In questo aspro ritratto della provincia americana, sanguigno, manicheo e potente nel suo ineluttabile incedere drammatico, Penn regista dimostra di possedere talento, ambizione ed un teatrale senso tragico da affinare (e asciugare) con la composta saggezza che solo l'esperienza sa donare. In ogni caso l'esordio è promettente e degno di attenzione. Alla sua uscita il film è passato totalmente in sordina, ma non ha mancato di suscitare polemiche per alcune scene di forte impatto come quella del parto naturale mostrato con dovizia di particolari.

Voto:
voto: 3,5/5

Amsterdamned (Amsterdamned, 1988) di Dick Maas

Ad Amsterdam un subacqueo assassino che si aggira sul fondo dei canali ed emerge per uccidere i malcapitati di turno in modo efferato, semina il terrore tra gli abitanti e mette in imbarazzo le autorità competenti che non riescono a fermarlo. Un tenace poliziotto ed un'avvenente bionda appassionata di immersioni si mettono sulle sue tracce nel tentativo di svelarne l'identità. Ma non sarà facile. Il terzo lungometraggio dell'olandese Dick Maas, divenuto celebre negli anni '80 presso gli appassionati di horror grazie al piccolo cult L'ascensore, è un thriller acquatico suggestivo nelle ambientazioni, visivamente affascinante ed esteticamente ricercato. Debitore in parecchie sequenze dei gialli italiani alla Dario Argento degli anni '70, nonché del celeberrimo Lo squalo di Steven Spielberg più volte omaggiato, è un inquietante poliziesco d'azione che stinge nell'horror, poco credibile nell'assunto e nello sviluppo narrativo, qua e là ingenuo nelle situazioni, a volte imbarazzante nel tentativo di stemperare la tensione con siparietti comici, ma si fa apprezzare per la pregevole confezione formale, per l'audacia tecnica di numerose riprese che ci regalano la splendida visione di una Amsterdam "da cartolina" e per due sequenze memorabili che valgono, da sole, il prezzo del biglietto: l'angosciante prologo notturno che ci mostra la vita "peccaminosa" dei famosi quartieri proibiti della capitale olandese dal punto di vista acquatico del sub killer e lo spericolato inseguimento in motoscafo lungo i canali degno della saga di James Bond. Consigliabile ai cultori dei thriller anni '80, è poco conosciuto nel nostro paese, pur essendo la pellicola più riuscita dell'autore, già solo per la particolarità di concezione e realizzazione. Il protagonista è il solito fedelissimo Huub Stapel, attore "feticcio" del regista.

Voto:
voto: 3/5

mercoledì 11 ottobre 2017

Blade Runner 2049 (Blade Runner 2049, 2017) di Denis Villeneuve

Nell'anno 2049 la Tyrell Corporation e i suoi replicanti ribelli sono stati rimpiazzati da una nuova potente società, guidata dal giovane genio Neander Wallace, che realizza ormai regolarmente androidi di ultima generazione, docili e senza problemi di longevità, da utilizzare con buon profitto nei lavori "sporchi" che gli umani non vogliono più svolgere. Ma esistono ancora diversi Nexus sopravvissuti agli anni oscuri e l'unita speciale di polizia "Blade Runner", che si occupa del loro "ritiro", è sempre attiva nella tentacolare area urbana di Los Angeles. L'efficientissimo agente K è l'elemento di spicco della squadra, ma tutto cambia quando, durante una missione portata a termine con successo, il nostro fa un'incredibile scoperta, riportando alla luce un segreto che potrebbe stravolgere per sempre il nuovo ordine sociale, fondato sulla convivenza tra umani e sintetici. Ben conscio del pericolo che sta correndo, K si avventura in un viaggio alla ricerca della verità e del suo passato, mettendosi sulle tracce di un suo predecessore, l'agente Deckard, sparito nel nulla da anni senza dare più notizie, che sembra possedere la chiave di accesso a quei misteri per i quali molti sono disposti ad uccidere. La posta in gioco appare subito alta e K dovrà fronteggiare sia Wallace sia la polizia stessa per riuscire a trovare Deckard per primo, sperando di ottenere le preziose informazioni di cui ha bisogno per portare a termine la missione più importante della sua vita. Dopo 35 anni e una lunga serie di rinvii, il tanto atteso sequel di Blade Runner è divenuto realtà, con Ridley Scott in veste di produttore esecutivo, il lanciatissimo Denis Villeneuve in cabina di regia e il ritorno dello sceneggiatore Hampton Fancher e di Harrison Ford nel ruolo di Deckard. Con un approccio che cerca coraggiosamente di conciliare le regole dei blockbuster hollywoodiani e la qualità spesso ermetica del cinema d'autore, il regista, che fin dalla prima sequenza dimostra tutto il suo smisurato amore per la pellicola del 1982, realizza un film lungo e ambizioso di fantascienza "colta", in cui l'azione è poco presente a vantaggio di dialoghi, analisi psicologica e momenti contemplativi. Dal punto di vista visivo ci troviamo di fronte ad un'opera imponente e abbacinante, che parte dalla memorabile iconografia estetica del film di Ridley Scott (che ha profondamente influenzato l'immaginario collettivo e tutta la fantascienza degli anni '90), ampliandola con grande potenza visionaria attraverso l'introduzione di nuove ambientazioni e l'utilizzo di una tavolozza cromatica più estesa e suggestiva, che spazia dalla cupezza piovosa degli ambienti losangelini (totalmente fedeli a quelli originali) al plumbeo spettrale degli scenari extra urbani (l'allevamento di vermi, la mega discarica), fino al giallo ocra ultra saturato della Las Vegas post apocalittica. Le atmosfere noir, l'ambiguità dei personaggi, il tormento interiore, la lotta disperata per il raggiungimento di un obiettivo (una vita più lunga nel primo film, la ricerca della propria identità in questo), la felice fusione anacronistica tra elementi avveniristici iper-tecnologici e oggetti vintage, l'importanza fondamentale del passato per definire il presente (e quindi il futuro), la contrapposizione filosofica tra umano e artificiale, l'occhio come simbolo pregnante del mondo introspettivo (specchio dell'anima, rivelatore esistenziale, porta della memoria). Queste sono tutte caratteristiche fondamentali dell'opera originale che qui vengono pedissequamente riprese, ricalcate e poi gradualmente amplificate nel tentativo di trovare una direzione originale. Ma è proprio in questo tentativo che il film di Villeneuve dimostra i suoi lati deboli a cominciare da una storia esile, da alcune svolte narrative facilmente prevedibili, da dialoghi a volte banali, da personaggi non particolarmente riusciti (in generale il cast femminile appare ben più in forma di quello maschile) e da una sensazione di titubanza che fa sembrare certe scene eccessivamente stiracchiate. Fatto salvo il cuore della storia (che è una sorta di viaggio interiore alla ricerca di sè), la sontuosa impaginazione formale e alcune sequenze memorabili (lo scontro tra K e Deckard tra gli ologrammi dei divi del passato è pura magia visiva), la percezione finale è quella di un prodotto indubbiamente sopra la media, ma in cui la cornice vale ben più del quadro. Nella grande squadra di attori citiamo Ryan Gosling, Harrison Ford, Ana de Armas, Sylvia Hoeks, Jared Leto, Robin Wright, Dave Bautista, Mackenzie Davis e Carla Juri, con i divi Gosling e Ford che appaiono in evidente sordina. Le musiche di Hans Zimmer e Jóhann Jóhannsson risultano troppo cupamente invasive e riescono a regalare brividi solo quando riecheggiano gli straordinari temi di Vangelis. Tra efficaci e ripetuti omaggi cinefili al film del 1982 si procede verso il finale non proprio imprevedibile, a cui probabilmente avrebbe giovato una maggiore ambiguità, e ci si trova a riflettere sul concetto di identità, sulla legittimità della replica rispetto all'originale, sulla necessità di una società quanto più possibile eterogenea, sulla convivenza (che diventa sovrapposizione in una sequenza amorosa di culto) tra diversi gradi di esistenza e sulla difficoltà di definire cosa sia umano e cosa sia reale in un universo popolato da fantasmi del passato, sogni elettronici e intelligenze artificiali. Ma, come perfettamente reso nella scena in cui compare il cane di Deckard, sono le emozioni e i sentimenti a definire il confine tra umano e sintetico. Perchè se due esseri condividono un bagaglio emotivo e sono in sintonia interiore, è davvero così importante stabilire la loro natura seconda una catalogazione meramente scientifica ? Non resistendo alle tentazioni tipiche del cinema mainstream in merito a spiegazioni e messaggi, l'autore consacra alla sfera sentimentale l'ultima riflessione filosofico esistenziale di Blade Runner. Perchè i moti segreti dell'animo sono tutto ciò che possediamo e tutto ciò che ci rende quello che siamo, e, per questo, vanno gelosamente custoditi e tramandati come eredità emozionale, che, attraverso un ricordo, riesce a definire una vita. E di fronte al nemico comune (il tempo) che sconfigge ogni forma di esistenza, il patrimonio dei sentimenti e dei ricordi è la sola causa per cui vale la pena lottare e, magari, morire. Affinché questi non si disperdano del tutto e per sempre, "come lacrime nella pioggia".

Voto:
voto: 3,5/5

sabato 7 ottobre 2017

It (It, 2017) di Andy Muschietti

La città di Derry nel Maine, apparentemente amena e tranquilla, nasconde un oscuro e terribile segreto: una mostruosa creatura diabolica, genericamente chiamata "It", che vive nelle fogne e si risveglia ogni 27 anni per uccidere bambini, di cui si nutre, facendo scempio delle loro carni innocenti. It è un essere antico, feroce e dotato di straordinari poteri mentali che gli consentono di apparire in modo diverso a seconda della situazione, assumendo la forma della paura più grande del malcapitato a cui appare. La connotazione prediletta dal mostro è quella del clown Pennywise, abilissimo ad attirare i bambini in una trappola mortale con i suoi modi ammiccanti, la cui apparizione è solitamente anticipata da un palloncino rosso. La tragica morte del piccolo George di sette anni, mutilato e trascinato in un tombino da Pennywise in una piovosa giornata di ottobre, spinge suo fratello maggiore Bill a mettersi sulle tracce della creatura per vendicarsi, liberando in tal modo la cittadina dalla sua malefica presenza e il suo animo dal peso del senso di colpa. A lui si uniscono altri sei adolescenti coraggiosi (cinque maschi e una femmina, la risoluta Beverly) dando vita al così detto "Club dei Perdenti", la cui missione imperativa è quella di distruggere It. Ma il mostro ha tante facce quante risorse e sa usare il potere della paura a suo vantaggio per infiacchire gli avversari, che potranno opporre strenuamente soltanto il loro coraggio e la forza della coesione di gruppo. Stephen King è il più grande e famoso scrittore horror contemporaneo, capace di creare incubi per i lettori di tutto il mondo da oltre 40 anni senza dare ancora segni di stanchezza o di cedimento. Tra i suoi tanti romanzi, che annoverano diversi capolavori, "It" (1986) è probabilmente il migliore, sicuramente il più personale, allegorico, rappresentativo e annoverabile come manifesto ideale delle sue ossessioni tematiche. "It" è un libro "fiume" (la versione italiana conta quasi 1.300 pagine) di oscura fascinazione e di debordante genialità che ha segnato l'immaginario di almeno due generazioni di appassionati di horror, influenzando pesantemente l'intero genere, anche dal punto di vista cinematografico. Chi conosce il romanzo sa perfettamente le difficoltà intrinseche al suo adattamento per il grande schermo, non solo per la lunghezza ma soprattutto per i numerosi personaggi, tutti splendidamente caratterizzati, per le atmosfere inquietanti, le invenzioni fantastiche e  i continui salti temporali: la storia si svolge infatti in due parti che corrispondono ai due scontri tra il mostro e i "perdenti", uno che avviene nel 1958, in cui i "perdenti" sono adolescenti, e uno che ha luogo 27 anni dopo, con i protagonisti adulti che tornano a Derry per mantenere fede al loro giuramento dopo il nuovo risveglio di It. Non a caso ci sono volute tre decadi (!) per vedere realizzata la prima vera trasposizione cinematografica del libro cult del bardo del Maine, se si esclude la serie televisiva in due parti del 1990 (con un magnifico Tim Curry nel ruolo di Pennywise) che, nonostante le numerose ingenuità e approssimazioni, ebbe comunque un buon successo di pubblico e vanta ancora oggi schiere di ammiratori nostalgici. Tutto questo ha reso il film dell'argentino Andrés Muschietti l'horror più atteso dell'anno e, probabilmente, del decennio. La pellicola, che ha avuto uno straordinario successo al botteghino, impensabile in codeste proporzioni, racconta solo la prima metà del libro di King (con i "perdenti" adolescenti impegnati contro la creatura demoniaca), spostando l'ambientazione dagli anni '50 agli anni '80 ed abolendo i salti temporali in favore di una struttura lineare ben più semplice. La seconda parte sarà raccontata in un secondo film, a questo punto ancora diretto da Muschietti visto l'alto gradimento di pubblico e critica, che uscirà nelle sale ad ottobre 2018. Diciamo subito che questo primo capitolo della sfida tra It e i "perdenti" è un horror realizzato con grande capacità tecnica e con evidente "amore" per l'opera ispiratrice, felicissimo nelle ambientazioni e nella scelta dei protagonisti e totalmente fedele allo spirito del romanzo, nonostante le inevitabili omissioni e differenze dovute alle esigenze di un mezzo totalmente diverso come il cinema. Lo spettacolo e la suspense sono assicurati e i fans di King troveranno pane per i loro denti nelle numerose scene di paura costruite con sapienza e con un'audacia splatter atipica per un prodotto hollywoodiano come questo. La potenza delle pagine del libro nella celebrazione nostalgica della magia e del potere immaginifico dell'infanzia viene egregiamente catturata e restituita da immagini fortemente evocative, da magnifiche sequenze corali e da un senso dolce amaro di malinconia per la "bella età", che rende quest'opera non troppo distante dallo splendido Stand by me di Rob Reiner, che resta a tutt'oggi una delle migliori trasposizioni cinematografiche di un racconto di King. Risulta invece meno evidente il sottile livello metaforico presente nel sottotesto di "It", in cui appare ben chiaro come il cuore della vicenda sia la perdita dell'innocenza, la paura di crescere e la fine dell'infanzia, che viene "assassinata" impunemente dal male presente nel mondo degli adulti, di cui It/Pennywise è solo il mero simbolo fantastico. Anche la scelta (tipicamente hollywoodiana) di rinunciare a una delle sequenze più forti, scabrose e possenti del romanzo (il rapporto sessuale di gruppo che Beverly decide di consumare con tutti i "perdenti" per rafforzare la loro unione con un gesto rituale) è un punto a sfavore che di certo lascerà l'amaro in bocca ai fans incalliti dell'opera letteraria. In ogni caso siamo di fronte a una pellicola accattivante, agile e ben sopra la media del genere, carica di suggestioni e di momenti memorabili (assolutamente straordinaria la tragica scena simbolo iniziale dell'omicidio del piccolo George), che lascia ben sperare per l'epilogo dell'anno prossimo. Nel cast i più bravi sono Sophia Lillis (Beverly), Jaeden Lieberher (Bill) e Bill Skarsgård nell'iconico ruolo di Pennywise, che, esattamente come fatto da Heath Ledger con il Joker rispetto alla precedente interpretazione di Jack Nicholson, adotta un registro recitativo totalmente diverso da quello di Tim Curry, rendendo il suo clown più viscido, mellifluo e crudele. E per "It parte II" già si fa il nome di Jessica Chastain per interpretare la Beverly adulta. Non c'è che da augurarselo e aspettare il ritorno di Pennywise dall'oscurità delle fogne di Derry, città immaginaria inventata da King ispirandosi alla sua Bangor, segno chiarissimo dell'impronta autobiografica e psicoanalitica dell'opera in cui la componente ambientale ha un ruolo decisivo (e mostruoso per la sua ferocia) nella fine prematura della magia infantile. E chi pensa, ingenuamente, che "It" (il romanzo) parli solo di mostri soprannaturali, di pagliacci sadici e di omicidi efferati, è caldamente invitato a riflettere in merito. "It" è un intenso elogio della fantasia dell'infanzia, di cui esalta l'incantata lievezza e lo spudorato potere, pur tracciandone un mesto epitaffio rievocativo, perchè il mostro che mangia i bambini altro non è che la crudeltà dell'età adulta che divora tutto il bello dello spirito infantile. Ed è proprio questo efficace simbolismo fiabesco che ha decretato il grande successo popolare del libro, per la sua capacità di far vibrare nel profondo corde emotive presenti in ognuno di noi.

Voto:
voto: 3,5/5

giovedì 5 ottobre 2017

madre! (mother!, 2017) di Darren Aronofsky

Una coppia sposata vive serenamente in una grande casa isolata circondata dalla vegetazione. Lei è una giovane donna che si è dedicata totalmente al suo uomo e alla ricostruzione metodica del loro nido, dopo che questo è stato distrutto da un incendio. Lui è un famoso scrittore di mezza età in crisi di ispirazione, troppo preso dal suo lavoro e poco attento ai reali bisogni di lei. La loro quiete apparente viene turbata dall'arrivo di una serie di intrusi: un medico in cerca di alloggio che si rivela ben presto un grande ammiratore del poeta, la sua consorte sfacciata e invadente e i loro due figli maschi che litigano aspramente per questioni di eredità. La situazione degenera con conseguenze incredibilmente violente e, mentre il numero di "invasori" continua a crescere, i due coniugi appaiono sempre più divisi nell'atteggiamento: lui è visibilmente lieto della caotica compagnia di estranei che lo adulano impunemente, alimentando il suo narcisismo, mentre lei cade in uno stato di depressione e isteria, intollerante della profanazione del suo regno. Una gravidanza improvvisa riporterà per un po' tutto alla normalità, ma ben presto darà inizio ad un incubo ancora peggiore. Il settimo lungometraggio di Darren Aronofsky, autore talentuoso e allucinato, devoto ad un cinema esasperato che ruota intorno alle ossessioni, è probabilmente il film più discusso e controverso della stagione 2017. Presentato in anteprima al Festival del Cinema di Venezia è stato accolto da bordate di fischi, provocando reazioni estreme, molta indignazione e ottenendo sparuti consensi da parte dei critici. Trattasi di un'opera complessa, provocatoria, ruvida, delirante, a tratti sgradevole, indubbiamente pretenziosa nella sua concezione e inevitabilmente destinata a dividere per la sua carica ambigua costruita con truce effettismo. Forte di un cast di stelle che annovera Jennifer Lawrence, Javier Bardem, Ed Harris, Michelle Pfeiffer, Domhnall Gleeson e Brian Gleeson, questo dramma surreale travestito da thriller/horror sconfina spesso nella commedia nera grottesca, con cadute nel kitsch e nel macabro. Senza svelare troppo sulla trama, per non rovinare la visione allo spettatore, possiamo dire che madre! è essenzialmente una tetra metafora del processo creativo (inteso in senso artistico, sacro e biologico), appesantita da un tripudio orgiastico e talvolta dissennato di simbolismi eterogenei, indubbiamente affascinanti ma che danno l'impressione di procedere per accumulo sregolato. Tra questi citiamo innanzi tutto le innumerevoli allegorie religiose (il Creatore, la (madre) Natura, l'Eden, il frutto del peccato, Adamo ed Eva, Caino e Abele, il diluvio universale, il Nuovo Testamento, il Messia, l'ultima cena, l'Apocalisse) che suggeriscono, come possibile chiave interpretativa, un'ardita rivisitazione del testo biblico. Ma c'è anche molto altro nel film di Aronofsky: apologia ecologista, ambizioni omeriche, critica del divismo, divagazioni metafisiche, pessimismo antropologico, contrapposizione tra maschile e femminile. E se l'approccio concettuale è encomiabile per personalità e ricerca di originalità, la mano tipicamente pesante dell'autore finisce per sovraccaricare tutto (che è indubbiamente anche troppo per un film solo) con barocchismi ed eccessi, a danno della sottigliezza introspettiva e della profondità analitica. Nella grande squadra di attori la Lawrence e la Pfeiffer sono le più brave e rubano la scena a tutti. Il punto esclamativo del titolo può essere idealmente usato come simbolo pregnante di ciò che è questo film: un'odissea allegorica supponente e accattivante che non ha mezze misure e che sarà odiata o amata più o meno per gli stessi motivi. In perfetto stile Aronofsky.

Voto:
voto: 3/5

martedì 3 ottobre 2017

Personal Shopper (Personal Shopper, 2016) di Olivier Assayas

Maureen è una giovane americana che vive a Parigi dove lavora come "personal shopper" (addetta alla scelta e all'acquisto di costosi capi e accessori di alta moda) per la sofisticata Kyra, ricca celebrità dal carattere difficile, sempre impegnata tra eventi mondani e cause ambientaliste. Maureen è anche una ragazza inquieta e tormentata, dalla personalità sfuggente e dotata di poteri medianici che le consentono di comunicare con le anime dei trapassati. Ed è proprio per questo che ha deciso di restare in Francia, alla disperata ricerca di un segno tangibile da parte del fratello gemello Lewis, improvvisamente scomparso a causa di una malformazione cardiaca di cui anche lei è affetta. Una lunga serie di messaggi ricevuti sul cellulare da parte di uno sconosciuto, che sembra sapere tutto di lei e dei suoi spostamenti di lavoro, la scuoteranno nel profondo, facendole sperare che il misterioso interlocutore possa essere lo spirito dell'amato fratello morto. Affascinante e tortuosa opera di Olivier Assayas, formalmente sperimentale, concettualmente liquida, narrativamente ambigua e visivamente straniante. Sotto la patina fredda ed elegante di un film di genere si cela una complessa ed ellittica metafora sulla ricerca dell'identità attraverso un sofisticato meccanismo astratto di simbolismi, suggestioni e apparizioni che sembrano riflettersi nella solitudine stessa della protagonista, come in uno specchio inconscio. Personal Shopper è un film concettuale, ambizioso e spiazzante che attraversa quasi impunemente diversi generi (la ghost story, il dramma esistenziale, il giallo, il thriller psicologico), toccando in maniera sottilmente cerebrale una vasta gamma di tematiche e sottotesti quali il disagio interiore, l'elaborazione di un lutto, l'esistenza dell'aldilà, la misera vanità di una società dedita al culto dell'apparire, l'ingerenza dei mezzi tecnologici nella nostra vita. E' anche un film fatto di contrasti stridenti: presenza e assenza, paura e desiderio, corpo e anima, ragione e istinti, vestizione e svestizione, realtà e sogno, vita quotidiana e la sua smaterializzata percezione. Strizzando spesso l'occhio a grandi maestri del cinema psicologico come Bergman, Polanski, De Palma e persino Hitchcock, l'autore realizza un rarefatto caleidoscopio di immagini glaciali e feticiste, intese a perseguire il difficile processo di "identificazione di una donna" (Maureen) per mezzo di un diabolico gioco di incastri psicoanalitici che trovano la loro "chiosa" nel finale tanto enigmatico quanto intrigante. Non c'è dubbio che si tratti di un film non facile e suscettibile di svariate interpretazioni, un'opera da "Cahiers du Cinéma" destinata a far discutere e a dividere, come accaduto al 69° Festival di Cannes dove è stato accolto da bordate di fischi alla sua presentazione, salvo poi vincere l'ambito Prix de la mise en scène alla migliore regia. Da sottolineare l'intensa performance recitativa di Kristen Stewart (probabilmente la migliore della sua carriera) nel ruolo della protagonista. E una delle possibili (e numerose) chiavi di lettura dell'opera potrebbe proprio essere quella di un ardito omaggio alla Stewart, nuova musa del regista francese, ammiccando, attraverso la progressione di ricerca interiore di Maureen, all'evoluzione del suo percorso artistico, passato inaspettatamente da banalità commerciali come la saga per teenager di Twilight a film d'autore di concezione "hipster".

La frase: "Lewis, sei tu ?"

Voto:
voto: 4/5