Giovanni è un regista italiano che sta affrontando un momento di impasse. Sposato da lungo tempo con Paola, produttrice di tutti i suoi film, sembra non accorgersi che sua moglie vive da tempo una forte crisi matrimoniale e sta pensando di lasciarlo. Le sue vicende personali sembrano sovrapporsi, a tratti, con quelle del film che sta girando, ambientato nel 1956 e con protagonista Ennio, giornalista de "L'Unità" e segretario di una locale sezione del Partito Comunista Italiano di un quartiere periferico romano, proprio mentre l'esercito sovietico invade l'Ungheria per reprimere nel sangue i moti rivoluzionari esplosi a Budapest. E, esattamente come gli eventi storici e politici del suo film, anche la vita di Giovanni sembra andare a rotoli: sua moglie medita il divorzio e decide di produrre un film "di genere" di un giovane regista esordiente a lui totalmente antitetico, sua figlia Emma si lega sentimentalmente ad un uomo che potrebbe essere suo nonno, il produttore francese dell'opera in corso (Pierre) dice di aver finito i soldi e gli consiglia di rivolgersi a Netflix e la sua bizzosa attrice protagonista (Vera) vuole a tutti i costi improvvisare una sotto-trama sentimentale nella pellicola, contravvenendo alle sue direttive. Per non soccombere alla cupezza del momento, Giovanni si rifugia totalmente nel potere immaginifico e salvifico dell'arte. Fin dall'annuncio del titolo (bellissimo, potente, nostalgico, evocativo e dolcemente simbolico) sono stati in molti a scommettere che questo nuovo film di Nanni Moretti (il suo 14° da regista) avrebbe avuto un significato particolare ed una posizione strategicamente importante nell'ambito della sua filmografia. Dopo averlo visto molti altri hanno insinuato che questo potrebbe essere addirittura il suo ultimo lavoro dietro la macchina da presa, il suo testamento ed il suo commiato dal pubblico. Interrogato più volte in merito, il Nanni nazionale, notoriamente schivo e a disagio durante le interviste, ha categoricamente smentito con un sorriso sardonico. Staremo a vedere. Intanto è innegabile che Il sol dell'avvenire sia un magnifico compendio ed un grottesco carosello di tutti i temi morettiani, divertito e divertente, più rasserenato che polemico, talvolta autocompiaciuto, attraversato da una sottile malinconia e da un tenero rimpianto per la fine di un'epoca (storica ma soprattutto politica), escheriano nel formalismo strutturale di molte sequenze e riccamente cinefilo attraverso una miriade di omaggi e di citazioni: da Fellini a Kieslowsky, da Ophüls a Demy, passando per i Taviani, Cassavetes, Landis e persino Tarantino (la rilettura fantastica della storia attraverso il potere visionario del cinema). Senza dimenticare l'altrettanto ampia schiera di autocitazioni delle sue opere precedenti, l'omaggio ai suoi attori passati e presenti e l'ironica persistenza delle sue personali ossessioni divenute, nel tempo, autentici marchi di fabbrica: lo sport, la politica, le canzoni di musica leggera, l'avversione per la violenza esplicita sul grande schermo, la concezione romantica e dogmatica di cinema autoriale, la crisi della sinistra, la difesa della cultura "classica" contro la nuova volgare barbarie dell'ignoranza tecnologica, il conflitto tra morale e ideologia, la dimensione privata intersecata con quella pubblica. Ma possiamo senz'altro affermare che, stavolta, a tutti questi elementi se ne aggiunge un altro, non meno importante, anzi forse addirittura più importante: la vitale necessità di continuare a sognare un mondo migliore, di credere che un cambiamento sia possibile e di perdersi, eroicamente, nell'utopia come atto estremo di fede pur di non innalzare la bandiera bianca di resa. Con il solito cast di fedelissimi (lo stesso Moretti, Silvio Orlando, Margherita Buy, con l'aggiunta di volti nuovi come Barbora Bobulova, Mathieu Amalric e Valentina Romani), con l'espressiva fotografia di Michele D'Attanasio e con le musiche di Franco Piersanti (accompagnate dalle consuete hits italiane che l'autore dispensa sempre nelle sue pellicole), il film è un po' favola impegnata e un po' resoconto personale, impreziosito dall'uso creativo del metacinema (il film nel film o il film sognato) e da alcune sequenze irresistibili, che saranno un sollucchero per i fans del regista ed un tormento per i suoi detrattori (su tutte quella, memorabile, della lunga filippica dimostrativa contro la violenza esibita nei film, senza dimenticare l'acida stilettata inferta all'invasione delle piattaforme di streaming). Ma il tutto è ben corroborato da una ventata nuova e fresca, che sa di chiosa di un periodo e che si esplica nel metaforico tourbillon finale che si apre ad uno spiraglio di speranza, o, forse, di chimerica illusione. Ma con un sorriso stampato sul volto, senza dimenticare nessuno e senza lasciare nessuno indietro. Evocando un nuovo giorno e un nuovo sole, più gentile e più giusto, sullo sfondo eterno dei Fori Imperiali e in uno sventolio di bandiere rosse.
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