Una coppia di francesi, Antoine e Olga, si trasferisce in un piccolo villaggio di campagna della Galizia spagnola, dove acquistano una fattoria per dedicarsi all'agricoltura eco-sostenibile e si dedicano alla rimessa in sesto di vecchi ruderi diroccati, con l'idea di aprire un agriturismo. Ma i rozzi abitanti locali non vedono di buon occhio i nuovi arrivati, in particolare la famiglia del rude Xan si dimostra estremamente ostile verso i due, specialmente dopo che Antoine esprime un voto contrario all'installazione di un grande impianto eolico nella zona, facendo così perdere ai residenti nativi la speranza di poter trarre un lauto guadagno economico dall'operazione. In breve l'atteggiamento di Xan e di suo fratello diventa sempre più minaccioso, dando origine ad un'autentica faida di cui sarà sempre più difficile controllare gli esiti. Il sesto lungometraggio dello spagnolo Rodrigo Sorogoyen, da lui anche scritto insieme a Isabel Peña, è un cupo dramma socio ambientale con risvolti da thriller, che denuncia apertamente la xenofobia atavica spesso radicata in luoghi dominati da arretratezza di vedute, gretta ignoranza e chiusura ideologica, ispirandosi ad un tragico fatto di cronaca realmente avvenuto nel 2010 nel villaggio galiziano di Santoalla a danno della coppia di olandesi formata da Martin Albert Verfondern e sua moglie Margo Pool (a cui la pellicola viene espressamente dedicata nei crediti finali). Con una regia asciutta e rigorosa ed una sottile carica di tensione strisciante, che aleggia minacciosa fin dalla prima emblematica sequenza della "Rapa das Bestas" (antica tradizione galiziana secondo cui alcuni uomini, detti "aloitadores", affrontano a mani nude i cavalli bradi per sottometterli e rasare loro la criniera), Sorogoyen tratteggia un lucido e amaro apologo sulla natura umana e sulla selvaggia brutalità ancestrale ad essa intrinseca, pronta a liberarsi con effetti drammatici in presenza di particolari condizioni (storiche, sociali, contestuali), in cui morale, comprensione e benevolenza vengono ottenebrate da ottuse logiche tribali. Attraverso una lunga serie di immagini semplici quanto potenti nel loro denso simbolismo, l'autore mette in scena un piccolo trattato visivo sull'homo homini lupus, sulla paura del "diverso" e dello "straniero", sullo scontro di classe tra mondo rurale e mondo intellettuale, senza mai smarrire la compattezza tematica e la finezza concettuale. E se i personaggi maschili sono, in gran parte, relegati nell'alveo di quella ferina bestialità invocata fin dal titolo, sono le figure femminili a rappresentare saggezza, sensibilità e resilienza, in accordo a quel cinema naturalistico, fatto di sentimenti e di contrasti, tipico dello stile del regista spagnolo. Da sottolineare anche la graffiante critica rivolta alle forze dell'ordine, inadeguate ed ignave, incapaci di sintonizzarsi fin da subito sulla gravità del problema più volte denunciato dai coniugi francesi, addirittura da loro "accusati", tra le righe, di aver favorito l'ostilità degli autoctoni grazie ad un presunto atteggiamento di superiorità culturale e intellettuale. Da lodare altresì le musiche di Olivier Arson, la fotografia di Álex de Pablo e le intense interpretazioni del cast principale, tra cui citiamo Marina Foïs, Denis Ménochet, Luis Zahera e Marie Colomb.
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