giovedì 12 maggio 2016

Il giorno dello sciacallo (The Day of the Jackal, 1973) di Fred Zinnemann

Nel 1963, in Francia, l’OAS (organizzazione clandestina paramilitare francese) condanna a morte il presidente della repubblica Charles De Gaulle, “colpevole” di aver concesso l’indipendenza all’Algeria. Per portare a compimento il suo nefasto proposito assolda un killer professionista, inafferrabile e infallibile, detto “lo sciacallo”, di cui nessuno conosce la vera identità. L’indomito commissario Lebel, venuto a conoscenza del piano, farà di tutto per fermarlo, ma lo “sciacallo” sembra avere mille risorse e riesce sempre a far perdere le sue tracce. Celebre thriller spionistico, tratto dall’omonimo romanzo di Frederick Forsyth, diretto da Zinnemann con classica misura e geometrico senso dell’azione. Denso e asciutto nella sua stringata tensione narrativa, si avvale di un perfetto meccanismo di costruzione della suspense che culmina nel famoso finale al cardiopalma. Ha fatto scuola per il genere ed ha contribuito a standardizzare determinati codici del cinema d’azione che oggi sono implicitamente accettati come caratterizzanti. Efficace nella sua essenzialità, a tratti freddo nella messa in scena, si avvale di un’ottima squadra di attori (in cui spiccano Edward Fox nel ruolo dello “sciacallo” e Michael Lonsdale in quello di Lebel) e di una solida sceneggiatura scritta da Kenneth Ross. Costruito sullo schema della caccia all’uomo, il film è rimasto nell’immaginario del pubblico per i continui cambiamenti d’identità del killer, trasformista implacabile nel perseguimento del proprio bersaglio. Nel 1997 Michael Caton-Jones ne ha diretto un remake americano, The Jackal, con Bruce Willis, Richard Gere e Sidney Poitier, molto spettacolare ma banalmente prevedibile, che traspone la vicenda ai giorni nostri ambientandola negli USA.

Voto:
voto: 4/5

Voglia di tenerezza (Terms of Endearment, 1983) di James L. Brooks

Il rapporto tra Aurora e sua figlia Emma è sempre stato intenso e tormentato, fatto di indubbio amore ma anche di profonde incomprensioni, forse dovute all’estrema possessività della prima che, rimasta vedova in giovane età, ha cresciuto da sola la sua unica figlia. Aurora non ha mai approvato il matrimonio di Emma con Flap e ne biasima l’evidente infelicità coniugale che si consuma tra litigi e tradimenti occasionali, a cui i tre figli assistono loro malgrado. Ossessionata dagli anni che passano e dall’inevitabile sfiorire della sua bellezza, Aurora accetta la corte del bizzarro Garrett, un ex astronauta fanfarone e donnaiolo, ma anche capace di incredibili attenzioni nei suoi confronti. Quando Emma scopre di avere un male incurabile tutto precipita nella tragedia. Celebre dramma sentimentale degli anni ’80, tratto dal romanzo omonimo di Larry McMurtry, che spazia impunemente dalla commedia al melodramma, puntando dritto al cuore e all’apparato lacrimale del pubblico, per la gioia dei romantici incalliti. Furbetto e svenevole, retorico e ricattatorio, è un film ampiamente sopravvalutato, che riscosse un grande successo di pubblico e vinse cinque generosissimi Oscar (miglior film, regia, sceneggiatura, attrice protagonista a Shirley MacLaine, attore non protagonista a Jack Nicholson) sulle undici nomination ricevute. Vale soprattutto per l’abile confezione estetica e per la bravura del cast in cui svettano la vecchia “leonessa” Shirley MacLaine e un’intensa Debra Winger, affiancati da Jack Nicholson, al vertice del suo istrionismo narcisistico, e da Jeff Daniels in tono dimesso. Il rapporto tra la MacLaine e la Winger fu realmente tempestoso anche sul set, forse per i continui sbalzi d’umore della seconda che, a quanto si dice, a quel tempo era affetta da una grave dipendenza da cocaina. Nel 1996 ne è stato girato un anonimo sequel, Conflitti del cuore, diretto da Robert Harling e con la MacLaine ancora protagonista nel ruolo di Aurora.

Voto:
voto: 3/5

Vincitori e vinti (Judgment at Nuremberg, 1961) di Stanley Kramer

Ricostruzione (romanzata) del celebre processo di Norimberga del 1948, tenuto dai vincitori della seconda guerra mondiale contro i nazisti, macchiatisi di crimini abominevoli contro l’umanità. In particolare qui si narra la vicenda del vecchio giudice americano Dan Haywood che deve occuparsi del caso di quattro “colleghi” tedeschi accusati di aver partecipato attivamente alle efferatezze naziste. Nonostante egli provi una naturale simpatia per uno degli imputati, uomo di grande cultura e carisma, e nonostante le pressioni politiche favorevoli a un “accomodamento”, il giudice si rivelerà inflessibile e profondamente inorridito a mano a mano che l’atroce verità emergerà dalle scioccanti deposizioni dei testimoni. Celebre dramma storico, verboso e compatto, diretto con indubbio mestiere da Stanley Kramer che, forte del cast stellare (Spencer Tracy, Burt Lancaster, Richard Widmark, Marlene Dietrich, Maximilian Schell, Judy Garland, Montgomery Clift), realizza, probabilmente, il suo film migliore. Vale principalmente come intenso resoconto storico, qua e là didattico, a volte tronfio, ma anche pregno di fiera ideologia democratica, in accordo all’ottimismo politico dell’era Kennedy a cui appartiene. Il pregio maggiore del regista sta nella capacità di raccontare l’azione attraverso i volti, i gesti e le parole dei protagonisti, per quanto non si esca mai al di fuori dell’aula di tribunale. Grandi interpretazioni di Schell, Tracy e Clift, che svettano su tutti gli altri, e memorabile la sequenza in cui la Dietrich cerca di spiegare “Lili Marlene” al devastato imputato. Su undici nomination agli Oscar vinse soltanto due premi: miglior attore protagonista a Maximilian Schell e miglior sceneggiatura non originale ad Abby Mann.

Voto:
voto: 4/5

Vacanze romane (Roman Holiday, 1953) di William Wyler

La bella principessa Anna, in visita a Roma, fugge dal palazzo che la ospita perché stressata dalla snervante rigidità dei cerimoniali di corte. S’imbatte in un aitante reporter americano, Joe Bradley, che la ospita a casa sua e, dopo averla riconosciuta, sogna lo scoop della sua vita. In giro tra le bellezze della “città eterna” a bordo di una Vespa, i due avranno modo di conoscersi e di innamorarsi, fino a quando la principessa non dovrà fare ritorno alla sua vita di opulenta “reclusione”. Tenera commedia sentimentale di Wyler, traboccante di romanticismo mieloso e d’incanto trasognato, che porta in scena una versione sdolcinata della favola di “Cenerentola”, facendo anche il verso alla vera principessa Margaret d’Inghilterra, che a quel tempo spopolava sui quotidiani scandalistici rosa per i suoi “strappi” ai protocolli di corte. Nonostante la messa in scena elegante e il sex appeal degli attori (Gregory Peck e Audrey Hepburn) è un film troppo ingenuo nel suo idillio fiabesco, sebbene cerchi di evitare la banalità del lieto fine atteso da tutti i “romanticoni”. Vale soprattutto come spot turistico di una Roma “da cartolina”, di cui però si colgono solo gli aspetti più famosi e gli stereotipi consolidati. Fu un grande successo mondiale, fece di Audrey Hepburn una diva (lanciandone lo “stile” poi celebrato da tutte le riviste di moda) e rese celebre in tutto il mondo anche la nostra Vespa Piaggio. Sopravvalutato oltre misura vinse tre Oscar generosi: miglior attrice alla Hepburn, miglior soggetto a Dalton Trumbo e migliori costumi a Edith Head. Nel 1981 Castellano e Pipolo ne hanno realizzato una sorta di “remake” comico, Innamorato pazzo con Adriano Celentano e Ornella Muti, che sbancò il botteghino italiano. La celebre scena presso la Bocca della Verità, con Peck che finge di aver perso la mano dopo averla nascosta nella manica della giacca, fu improvvisata dall’attore e la (reale) reazione di stupore della Hepburn convinse il regista a lasciare la sequenza nel montaggio finale.

Voto:
voto: 3/5

mercoledì 11 maggio 2016

The Addiction - Vampiri a New York (The Addiction, 1995) di Abel Ferrara

Kathleen, studentessa newyorkese interessata alle origini del male assoluto, viene morsa da Casanova, vampiro femmina che la contagia con la maledizione dei “non morti”. Ormai infettata nel corpo e nell’anima, Kathleen diventa un vampiro feroce e insaziabile, alla continua ricerca di sangue, ma non cessa di dedicarsi alla sua ricerca. L’incontro con l’aristocratico vampiro Peina, che riesce a controllare la sua sete grazie alla meditazione, spingerà la donna verso un difficile tentativo di autocontrollo, che però non durerà a lungo perché il richiamo del sangue è troppo radicato nel profondo. Straordinario horror allegorico di Abel Ferrara, girato in un bianco e nero fortemente contrastato di matrice espressionista (primo e unico caso della sua carriera) che omaggia l’estetica del noir classico americano degli anni ’40. Divenuto subito un cult per i fans integralisti dell’autore, è una geniale commistione di efferate atrocità, metafore filosofiche, indulgenze grand guignol e citazioni colte, il tutto sostenuto da una sordida anima nera densa di malia oscura e di audaci simbolismi. Alla continua ricerca di uno spazio alternativo rispetto alla sua furiosa poetica del peccato, del degrado e della redenzione catarsica, il regista del Bronx dà fondo al suo estro sperimentale per tracciare una metafora lucida, angosciante e autobiografica dell’atroce dipendenza dalla droga, pervasa da un acre senso di morte che vira nell’apologo apocalittico. Sceneggiato dal fido Nicholas St. John, questo disturbante gioiello d’autore si gioca sui contrasti estremi (bene e male, luce e tenebra), cercando di codificare l’orrore metropolitano della “grande mela” attraverso elementi archetipi (il sangue, il contagio, il buio) che ne implicano altri di natura sociale (l’alienazione, il disagio interiore). Magistrale l’idea del leitmotiv vampiresco prima del morso (l’invito fatto alla vittima affinché non lo permetta), attuando così un raffinato paragone con il fascino irresistibile del peccato, quella vigorosa isteria inconscia che spinge l’essere umano verso il baratro del male, verso l’autodistruzione, incapace di opporsi alle pulsioni primordiali. Non è il vampiro a mordere la vittima, ma la vittima che, inconsciamente, desidera essere morsa, creando un ambiguo disorientamento rispetto al ruolo del carnefice e a quello dell’agnello. Uno smarrimento che induce non poche vertigini morali nello spettatore. Il germe risvegliato dal morso è, in realtà, già insito nella natura umana e corrisponde al brivido del proibito, al desiderio di sopraffazione, al delirio di onnipotenza, al richiamo della violenza primordiale a cui la perversa indole dell’uomo non è capace di resistere. Tutti bravissimi i membri del cast: Lili Taylor, Annabella Sciorra, Christopher Walken e Paul Calderon. La sottile relazione allegorica tra tossicodipendenza e vampirismo era stata già accennata dall’autore in un dialogo de Il cattivo tenente. In Italia il film uscì con quattro anni di ritardo, senza essere mai distribuito nelle sale e con un banale sottotitolo didascalico che banalizza quello originale (“the addiction” significa “la dipendenza”). Quest’opera potente, violenta e viscerale è forse il film più “puro” nella filmografia di Ferrara e rappresenta, a tutt’oggi, una delle più lucide riflessioni sulla fascinazione del male che si siano viste sul grande schermo.

La frase:L’autoconoscenza è la distruzione del sé.”

Voto:
voto: 4,5/5

Ieri, oggi, domani (Ieri, oggi, domani, 1963) di Vittorio De Sica

Tre episodi sulla figura femminile nell’Italia che cambia, ambientati in tre diverse città emblematiche. Il primo è “Adelina”: a Napoli una venditrice di sigarette di contrabbando, che vive nel rione popolare di Forcella, fa figli a ripetizione pur di evitare il carcere, ma il marito non riesce a reggere il tour de force sessuale. Il secondo è “Anna”: una ricca borghese di Milano ha per amante un uomo di modeste condizioni economiche che sembra in grado di darle ciò che la ricchezza non le offre. Il terzo è “Mara”: una prostituta romana di gran lusso deve gestire la difficile situazione di un giovane seminarista, suo dirimpettaio, che ha perso la testa per lei. Celebre commedia a episodi di De Sica, ognuno dei quali corrisponde a un diverso ritratto di donna, interamente costruita sul fascino energico della sua carismatica protagonista, una Sophia Loren all’apice del suo appeal divistico. La Loren, che spadroneggia in ciascuno dei tre episodi con la sua esuberanza fisica, può contare sulla solida spalla del fidato Marcello Mastroianni, a fare da talentuoso contrappunto. Fu un grande successo di pubblico, vinse l’Oscar come miglior film straniero e consegnò all’immaginario collettivo una scena memorabile, poi divenuta una delle icone più classiche della commedia all’italiana: l’ironico spogliarello di Mara (Loren) sotto gli occhi di un allupato Augusto (Mastroianni) nel terzo episodio. Il mestiere del regista è indubbio, così come la sua grande capacità di essere sempre in sintonia con il gusto popolare, ma il film soffre di un certo squilibrio tra i tre segmenti. Il migliore è il primo (scritto da Eduardo De Filippo), sereno, goliardico e irriverente. Il secondo (tratto da un racconto di Alberto Moravia) è invece troppo acre e impacciato. Il terzo (scritto dal fidato Cesare Zavattini) è divertente ma convenzionale. Robert Altman ha rifatto la sequenza dello spogliarello, utilizzando gli stessi attori, nel suo Prêt-à-Porter del 1994.

Voto:
voto: 3,5/5

Marnie (Marnie, 1964) di Alfred Hitchcock

Marnie è una donna bella, fragile e problematica, affetta da diverse nevrosi. E’ infatti bugiarda, cleptomane e frigida, probabilmente a causa di un tragico trauma infantile. Durante uno dei suoi furti, con conseguente cambio d’identità, la donna viene riconosciuta da Mark, ricco e vedovo, che si è innamorato di lei e la pone davanti a un bivio: carcere o matrimonio. Con l’aiuto dell’uomo Marnie proverà ad affrontare il suo doloroso passato, tornando nella casa materna di Baltimora, alla ricerca della causa scatenante dei suoi conflitti interiori. Inquietante thriller psicologico del Maestro inglese, incompreso dal pubblico e dalla critica per via dei suoi contenuti morbosi che virano nel sadico. Probabilmente troppo estremo per i suoi tempi, viene solitamente considerato come un’opera di transizione, in ogni caso estranea rispetto al periodo d’oro dell’autore, che la critica ufficiale fa terminare l’anno prima, con il capolavoro Gli uccelli. E’ invece un film eccellente, sottovalutato e geniale nella sua ardita commistione tra romanticismo e perversione, tenuta insieme da un’atmosfera mistery di gran classe, che pervade la pellicola dalla prima all’ultima scena. Tra le tante sequenze straordinarie, voglio citare quella, elaboratissima, in cui Marnie, dopo un furto, si toglie le scarpe per non farsi sentire dalla donna delle pulizie. Una scena che rivela, ancora una volta, l’immenso talento di Hitchcock nella costruzione della suspense. Il regista avrebbe voluto Grace Kelly nel ruolo della protagonista ma l’attrice, già sposata con Ranieri, dovette rifiutare perché il marito riteneva disdicevole un suo ritorno sulle scene in un ruolo così audace. La scelta cadde allora sulla bionda Tippi Hedren, alla seconda collaborazione consecutiva con l’autore dopo quella de Gli uccelli, da molti già definita problematica. Stavolta, invece, il rapporto fu addirittura tumultuoso (si vocifera a causa del fatto che il regista, innamorato dell’attrice, intendesse controllare tutti gli aspetti della sua vita anche al di fuori dal set), al punto che i due si parlavano solo tramite intermediario. Anche con il protagonista maschile, l’aitante Sean Connery, al top del suo fascino e della sua fama (grazie ai successi della saga di 007), gli aneddoti non mancarono. Si dice infatti che Connery, temendo di dover interpretare un clone di James Bond, pretese di leggere in ogni dettaglio la sceneggiatura prima di accettare il ruolo. Hitchcock, visibilmente seccato, gli disse che neanche Cary Grant aveva accampato un simile richiesta, ottenendo in cambio la piccata risposta: “Io non sono Cary Grant!”. I punti deboli più evidenti di questo film da rivalutare sono il personaggio di Connery (scritto con approssimazione nella sua natura duale di affettuoso protettore e sadico bruto), il macchinoso finale e le artificiose scenografie (i fondali finti appaiono ormai troppo desueti e anche stridenti per un autore abitualmente tanto interessato alle innovazioni tecniche). Questo è l’ultimo film in cui Hitchcock e il leggendario compositore Bernard Herrmann hanno lavorato insieme, con l’intensa colonna sonora di Marnie si conclude uno dei più lunghi, famosi e proficui sodalizi artistici della storia del cinema.

Voto:
voto: 4/5

Rebecca - La prima moglie (Rebecca, 1940) di Alfred Hitchcock

Il ricco aristocratico britannico Maxim de Winter incontra una giovane donna in costa azzurra e la sposa in tempi rapidi. La ragazza è al settimo cielo ma quando si trasferisce a Menderley, l’austera dimora dei de Winter in Cornovaglia, tutto cambia. Infatti, tra le antiche mura del castello reliquiario, aleggia ancora la presenza di Rebecca, prima moglie di Maxim, morta in circostanze misteriose. A Menderley tutti sembrano ossessionati dal ricordo di Rebecca, in particolare la severa governante, Dennie Danvers, che fa di tutto per far sentire la nuova signora de Winter inferiore alla precedente, conducendola all’esasperazione. Ma un giorno il corpo di Rebecca, dato per disperso in mare, viene ritrovato, facendo riaprire il caso giudiziario sul suo decesso. Il primo film americano di Hitchcock, tratto dal romanzo omonimo di Daphne du Maurier, è anche uno dei suoi più famosi e riusciti, e riscosse fin da subito un grande successo di pubblico e critica. E’ un thriller di sapiente atmosfera in bilico tra il melodramma romantico, la favola gotica, la mistery story e il giallo investigativo. Sorretto da un cast formidabile (Laurence Olivier, Joan Fontaine, Judith Anderson, George Sanders), evidenzia la grande abilità del regista di immergere l’azione in un’atmosfera onirica con slittamenti verso l’incubo, mantenendo una suspense tagliente grazie al minaccioso clima di sospetto che avvolge i protagonisti, dall’inquietante governante, interpretata con memorabile carisma oscuro dalla Anderson, alla spaurita giovane signora de Winter, a cui la Fontaine conferisce una toccante sensibilità. Il film è ancora pieno di echi della vecchia Europa e la sua rigorosa struttura geometrica (un prologo onirico, tre atti e un epilogo) viene movimentata dai tocchi fiabeschi (le connessioni con Cenerentola sono evidenti), dalle atmosfere angoscianti (l’ombra della signora Danvers dietro le tende è diventata una delle icone del cinema hitchcockiano), dal rebus investigativo, dalle simbologie arcane (il mare, il castello), dalla sottile introspezione psicologica dei personaggi femminili (persino quello della defunta Rebecca, la cui assenza incombente assume una sinistra pregnanza), dallo sfuggente gioco d’inganni messo in scena dall’autore tramite geniali trovate visive e dalla messa in scena in soggettiva che stabilisce un forte legame emotivo tra lo spettatore e la protagonista. Il film ottenne otto candidature agli Oscar vincendone due (miglior film e miglior fotografia) ed è divenuto, nel tempo, un classico amatissimo e il modello di una lunga serie di epigoni (in particolare noir, basati sulla figura dell’eroina indifesa e minacciata, come Angoscia, Schiava del male, Mi chiamo Giulia Ross, Acque scure, So che mi ucciderai e tanti altri).

Voto:
voto: 4,5/5

L'uomo in più (L'uomo in più, 2001) di Paolo Sorrentino

Nella Napoli degli anni ’80 si svolgono le vicende parallele di due personaggi diversi che condividono lo stesso nome, Antonio Pisapia, e il medesimo destino di inesorabile caduta umana e professionale. Il primo è un crooner di successo, spavaldo e megalomane, che ha smarrito l’estro creativo e incappa in una brutta vicenda giudiziaria per le sue frequentazioni poco raccomandabili. Il secondo è un calciatore ingenuo e introverso, che deve gestire il difficile passaggio tra la fine imminente di un’eccellente carriera sportiva e il sogno di diventare allenatore. Entrambi toccheranno il fondo dell’abisso e proveranno l’amarezza del buio dei riflettori che si spengono, inesorabili, dopo un passato di successi. L’esordio cinematografico di Paolo Sorrentino è un cupo dramma esistenziale ambientato in una Napoli tetra e spietata, raffigurata in maniera volutamente antitetica rispetto agli stereotipi tradizionali. Le due vicende, raccontate in alternanza con un decisivo punto d’intersezione nel finale, sono parzialmente ispirate a quelle reali del cantante Franco Califano e del calciatore Agostino Di Bartolomei. E’ un film intimista, riflessivo e profondamente amaro che mette a fuoco con dolente precisione i due protagonisti (due perdenti di alta densità tragica), per tracciare una palese critica agli ambienti della musica e del calcio, cinicamente rapidi nel far passare i suoi idoli dalla glorificazione all’oblio. Bravissimi i due interpreti, Toni Servillo e Andrea Renzi, in particolare il primo, davvero straordinario, anche nel cantare da sé, con ammirevole credibilità, le canzoni appositamente scritte per il film dal fratello Peppe (leader degli Avion Travel) e dallo stesso regista. Il riferimento alla camorra, pur presente, è soltanto velato perché Sorrentino identifica stavolta il vero “nemico” nel perverso meccanismo distruttivo del mondo dello spettacolo, che, con disumana voracità, divora le stesse icone che ha creato. Effervescente e creativa, quest’opera d’esordio del talentuoso regista napoletano sorprende per la sua lucida analisi sociologica e ci consegna dei ritratti ambigui, profondi e mai banali di figure decadenti ed emblematiche, simboli pregnanti di un mondo in preda al disvalore. Memorabile la sequenza di Pisapia/Servillo che canta mestamente i suoi vecchi successi nella piazza gelida e semideserta di un anonimo paesello di provincia.

Voto:
voto: 4/5