Kathleen, studentessa newyorkese interessata
alle origini del male assoluto, viene morsa da Casanova, vampiro femmina che la
contagia con la maledizione dei “non morti”. Ormai infettata nel corpo e
nell’anima, Kathleen diventa un vampiro feroce e insaziabile, alla continua
ricerca di sangue, ma non cessa di dedicarsi alla sua ricerca. L’incontro con
l’aristocratico vampiro Peina, che riesce a controllare la sua sete grazie alla
meditazione, spingerà la donna verso un difficile tentativo di autocontrollo,
che però non durerà a lungo perché il richiamo del sangue è troppo radicato nel
profondo. Straordinario horror allegorico di Abel Ferrara, girato in un bianco
e nero fortemente contrastato di matrice espressionista (primo e unico caso
della sua carriera) che omaggia l’estetica del noir classico americano degli
anni ’40. Divenuto subito un cult per i fans integralisti dell’autore, è una
geniale commistione di efferate atrocità, metafore filosofiche, indulgenze grand guignol e citazioni colte, il
tutto sostenuto da una sordida anima nera densa di malia oscura e di audaci
simbolismi. Alla continua ricerca di uno spazio alternativo rispetto alla sua furiosa
poetica del peccato, del degrado e della redenzione catarsica, il regista del
Bronx dà fondo al suo estro sperimentale per tracciare una metafora lucida,
angosciante e autobiografica dell’atroce dipendenza dalla droga, pervasa da un
acre senso di morte che vira nell’apologo apocalittico. Sceneggiato dal fido Nicholas
St. John, questo disturbante gioiello d’autore si gioca sui contrasti estremi
(bene e male, luce e tenebra), cercando di codificare l’orrore metropolitano
della “grande mela” attraverso elementi archetipi (il sangue, il contagio, il
buio) che ne implicano altri di natura sociale (l’alienazione, il disagio
interiore). Magistrale l’idea del leitmotiv
vampiresco prima del morso (l’invito fatto alla vittima affinché non lo
permetta), attuando così un raffinato paragone con il fascino irresistibile del
peccato, quella vigorosa isteria inconscia che spinge l’essere umano verso il
baratro del male, verso l’autodistruzione, incapace di opporsi alle pulsioni primordiali.
Non è il vampiro a mordere la vittima, ma la vittima che, inconsciamente,
desidera essere morsa, creando un ambiguo disorientamento rispetto al ruolo del
carnefice e a quello dell’agnello. Uno smarrimento che induce non poche
vertigini morali nello spettatore. Il germe risvegliato dal morso è, in realtà,
già insito nella natura umana e corrisponde al brivido del proibito, al
desiderio di sopraffazione, al delirio di onnipotenza, al richiamo della
violenza primordiale a cui la perversa indole dell’uomo non è capace di
resistere. Tutti bravissimi i membri del cast: Lili Taylor, Annabella Sciorra,
Christopher Walken e Paul Calderon. La sottile relazione allegorica tra
tossicodipendenza e vampirismo era stata già accennata dall’autore in un
dialogo de Il
cattivo tenente. In Italia il film uscì con quattro anni di ritardo, senza
essere mai distribuito nelle sale e con un banale sottotitolo didascalico che
banalizza quello originale (“the addiction” significa “la dipendenza”). Quest’opera
potente, violenta e viscerale è forse il film più “puro” nella filmografia di
Ferrara e rappresenta, a tutt’oggi, una delle più lucide riflessioni sulla
fascinazione del male che si siano viste sul grande schermo.
La frase: “L’autoconoscenza
è la distruzione del sé.”
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