martedì 30 gennaio 2018

L'incredibile vita di Norman (Norman: The Moderate Rise and Tragic Fall of a New York Fixer, 2016) di Joseph Cedar

Chi è Norman Oppenheimer ? Un signore umile e gentile dal volto sofferto ma dall'incredibile tenacia, che si aggira per le fredde strade di una New York invernale con un triste cappotto cammello e gli auricolari del cellulare sempre all'orecchio. Un faccendiere garbatamente pedante che incontra persone, risolve problemi, millanta conoscenze, propone affari, organizza meeting, si intrufola nelle cene di gala e si mette al servizio di uomini potenti. Un cortigiano solitario, viscido e servile, che dietro un'appiccicosa piaggeria nasconde la tranquilla furbizia di un ebreo dalla mente fine e dall'eloquio accattivante. Un uomo malato di solitudine alla ricerca di un riscatto personale che cerca il colpo della vita offrendosi come galoppino del potere e che trascorre il tempo libero tra la sinagoga del suo quartiere e la compagnia del giovane nipote, avvocato rampante. Norman Oppenheimer è tutto questo e forse molto altro ancora, come lasciano trasparire i suoi occhi vispi, la cui luce non è stata ancora offuscata dalle tante porte chiuse in faccia e dai troppi bocconi amari buttati giù. Quando Norman riesce a entrare nelle grazie di un ambizioso politico israeliano, Micha Eshel, che nel giro di poco tempo diventerà primo ministro del suo paese, l'occasione attesa da una vita sembra essere finalmente arrivata. Ma l'ingresso, seppure dalla porta di servizio, nei grandi saloni della politica che conta, condurrà ben presto il nostro in un perverso meccanismo più grande di lui. Solido dramma di introspezione psicologica, scritto e diretto dall'israeliano Joseph Cedar e cucito addosso al suo splendido protagonista di cui ricalca il punto di vista, discreto e "dietro le quinte", e lo stile sospeso tra una tenerezza un po' naif e la subdola adulazione. Proprio come il personaggio di Norman, interpretato con commovente intensità da un Richard Gere sorprendente, il film avanza sornione e reticente, tra le pieghe di una fertile ambiguità che però non rinuncia mai al lato umano, egregiamente illustrato con illuminata lievezza in quell'altalena di cinismo, compromessi e fragilità che è il grande gioco della vita. Peccato che la seconda parte dell'opera, concepita in tragico crescendo verso un retorico finale moralizzatore, tenda poi a disperdere parte di quel sottile lavoro di cesello messo a punto nella prima. In ogni caso i personaggi sono disegnati ottimamente, anche per merito del grande cast che, oltre al mattatore Gere, annovera Lior Ashkenazi, Michael Sheen, Charlotte Gainsbourg e Steve Buscemi. I richiami alla tradizione culturale ebraica e alla letteratura alta, attraverso l'affascinante e sfuggente figura del "valletto" abile e ossequioso, donano al film un sostrato colto che ne nobilita la matrice e rende più autorevole la sua sobria critica sociale al sistema politico delle lobby di potere.

Voto:
voto: 3,5/5

lunedì 29 gennaio 2018

Suburbicon (Suburbicon, 2017) di George Clooney

Stati Uniti, 1959: Suburbicon è una ridente cittadina residenziale che ambisce ad essere un'area urbana modello per ospitare la borghesia caucasica americana, tra prati verdi, abitazioni eleganti, sventolio di bandiere a stelle e strisce e famiglie dalla facciata impeccabile. Ma la vita apparentemente idilliaca del privilegiato distretto viene turbata da due eventi che causano un forte shock generale: l'arrivo di una famiglia afroamericana, che viene fin da subito osteggiata dalla popolazione xenofoba, e un terribile fatto di sangue che colpisce i Lodge, dopo l'irruzione notturna di due delinquenti nella loro proprietà che provoca la morte della padrona di casa, la signora Rose, già costretta sulla sedia a rotelle dopo un incidente stradale. Il signor Gardner Lodge cerca di ricominciare a vivere insieme a suo figlio, il piccolo Nicky, con l'aiuto dell'amorevole cognata Margaret, gemella della moglie defunta. Ma il fratello maggiore di Rose e uno zelante investigatore assicurativo nutrono alcuni sospetti sulla triste vicenda. Il divo George Clooney, ormai totalmente orientato verso un cinema di denuncia sociale e di dichiarato impegno politico, dirige con pungente agilità questo suo sesto lungometraggio da regista, portando in sala un vecchio script dei fratelli Coen, risalente agli anni '80, da lui stesso rimaneggiato insieme a Grant Heslov. Il risultato è un feroce dramma satirico, in bilico tra la commedia nera e il thriller, la cui misura di stampo classico è attraversata da lampi di tetro umorismo e da momenti di cupa violenza, conferendo al tutto un senso straniante e grottesco. Lo stile Coen, chiaramente percepibile nella dimensione paradossale, nei personaggi maldestri e nelle improvvise sequenze di efferata durezza, viene infarcito da una solida direttrice morale, tipica delle opere di Clooney autore, che intende indurre una graffiante riflessione critica sull'attuale deriva della società americana, più che mai percorsa da fremiti di intolleranza razzista e da un fazioso senso nazionalistico. L'immagine ipocrita e impeccabile che il microcosmo Suburbicon offre di sè, effige vanagloriosa del Sogno Americano, viene efficacemente rappresentata da una fotografia ultra patinata, la cui falsità artificiosa si scontra con il lato oscuro della comunità, fatto da miseria morale, avidità rapace, spietatezza brutale, cinico egoismo e discriminazione sociale. Funzionale il cast con Matt Damon, Julianne Moore (in un doppio ruolo), Oscar Isaac, Glenn Fleshler ed il piccolo Noah Jupe. Raffinate ed ammalianti le musiche di Alexandre Desplat. Al netto di qualche effettismo lezioso e di alcuni compiacimenti autoreferenziali, l'intento del regista è di impietosa limpidezza: fornire una caustica ed amarissima risposta artistica alla politica "dei muri" di Trump. Una risposta, semplicistica quanto efficace, secondo la quale i maggiori pericoli per l'America provengono principalmente dal suo cuore nero, più che da minacce esterne dalla pelle di diverso colore.

Voto:
voto: 3,5/5

lunedì 22 gennaio 2018

La forma dell'acqua - The Shape of Water (The Shape of Water, 2017) di Guillermo del Toro

Baltimora, 1962, in piena "guerra fredda": Elisa, giovane donna muta, lavora come addetta alle pulizie in un laboratorio scientifico governativo ed è legata da profonda amicizia alla collega Zelda, afroamericana gentile e ciarliera, ed al suo vicino di casa Giles, vecchio pittore in disarmo discriminato per la sua omosessualità. La scoperta di una creatura acquatica, orripilante nell'aspetto ma intelligente e sensibile, che viene tenuta segregata nel laboratorio dove è oggetto di esperimenti e vessazioni fisiche, cambia per sempre la vita di Elisa, che riesce a stabilire una sincera connessione con il "mostro", di cui ben presto si innamora, ricambiata. Per salvare il suo amato dalle grinfie dello spietato aguzzino Strickland, saccente capo della sicurezza, crudele e razzista, la tenace donna organizza uno spericolato e pericoloso piano per far evadere l'essere dalla sua prigione. Straordinaria favola dark scritta e diretta da Guillermo del Toro (che realizza con essa il suo film migliore), capace di mescolare e dosare con sorprendente abilità e senso della misura generi e toni, spaziando agilmente dal fantastico all'horror, dal sentimentale all'avventuroso, senza dimenticare il thriller spionistico e la visionaria ricostruzione d'epoca. In miracoloso equilibrio tra il registro leggero e quello drammatico, seguendo sempre il filo sottile di un delicato romanticismo, il film si svolge a due livelli (fedele ad una struttura narrativa cara al regista): da un lato abbiamo la vicenda storica, con graffi di critica sociopolitica all'America della "guerra fredda" e alla sua mentalità intollerante e aggressiva, dall'altro c'è il racconto onirico fantastico che guarda dritto agli archetipi mitici della fiaba ("La bella e la bestia"), senza dimenticare la miriade di citazioni cinefile che un innamorato di cinema come del Toro si compiace di dispensare a iosa (dai vecchi musical hollywoodiani ai peplum in costume, fino a quella, evidentissima, del cult horror Il mostro della laguna nera (1954) da cui viene ripreso pari pari l'aspetto della creatura anfibia). Da questo magma pulsante di suggestioni, riferimenti e ispirazioni, l'autore riesce a trarre un'opera stupefacente capace di emozionare, appassionare, indignare e rapire lo spettatore, trasportandolo, tra passione e sentimento, nel magico mondo del cinema dei vecchi miti, quello che sapeva catturare lo sguardo ancora puro del pubblico di una volta, parlando dritto al cuore del fanciullo che era in ciascuno di noi. Ma, tra la magia e l'incanto di molte sequenze, e con uno stile registico incline ad un evocativo barocchismo, del Toro non rinuncia mai alla carnalità, al sesso, alla violenza, fedele alla sua idea di cinema "bifronte". Così il brutale cattivo interpretato abilmente da un granitico Michael Shannon, diventa il simbolo enfatico dell'americano medio, con tutto il suo carico di pregiudizi discriminatori, di feroce rapacità, di fanatismo settario e di tronfia arroganza. Di contro, in accordo alla dimensione manichea propria delle favole, tutta la sensibilità e la grazia risultano di esclusivo appannaggio dei "diversi" e dei reietti, in questa palpitante epopea aristocratica degli alienati: la muta Elisa, il mostro acquatico, il pittore gay, la sguattera di colore, il clandestino russo. E, come in ogni fiaba che si rispetti, il messaggio finale annesso è potente, etico e attualissimo, evitando con abilità i rischi della retorica e della melassa edificante. Un messaggio di tolleranza, di rispetto e di amore, oltre che una lucida requisitoria in difesa dei diritti civili di tutte le minoranze. Tra cronaca e mitologia, tra romanticismo e sogno, l'autore omaggia i suoi miti e i suoi "mostri" personali attraverso un'opera fortemente morale (ma non moralista), che si lega a filo doppio ad una miriade di simbolismi astratti che riflettono sempre il contrasto tra ideale e reale. Ecco quindi l'acqua (elemento nobile e primigenio da cui tutti proveniamo), le uova (che rappresentano l'anima), la musica, i gesti, gli sguardi; tutti simboli di quella dimensione spirituale che consente la connessione empatica tra "diversi" prima della fisicità. E sulle note classiche di Glenn Miller il regista ci accompagna, insieme al suo cast straordinario formato da Sally Hawkins, Doug Jones, Michael Shannon, Richard Jenkins, Octavia Spencer e Michael Stuhlbarg, verso la sognante purezza di un altrove liquido in cui si incontrano incubo e sogno, vita e morte, aria e acqua, odio e amore, luce e tenebra. Un altrove fantastico incontaminato la cui forma inevitabilmente ci sfugge, ma che ci pervade totalmente.

Voto:
voto: 4/5

domenica 21 gennaio 2018

Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, 2017) di Martin McDonagh

Ebbing, Missouri: Mildred Hayes è una donna disillusa e combattiva, divorziata da un marito manesco, con un figlio a carico e il peso di una terribile tragedia familiare: la morte atroce della giovane figlia Angela, stuprata, uccisa e bruciata da un sadico ancora privo di identità. Un anno dopo il tragico evento, Mildred decide di spendere i pochi soldi che ha per affittare tre enormi cartelloni pubblicitari in disuso, collocati su una strada secondaria, su cui esporre il proprio dolore, la sua fame di giustizia e la sua astiosa critica verso l'imbelle polizia locale, incapace di condurre l'indagine in una direzione concreta. Tre frasi forti che suonano come un grido di disperazione e di rabbia di una "madre coraggio" che, nonostante tutto, non si arrende. Il suo gesto le metterà contro la polizia e gran parte della comunità, cambiando per sempre la sua vita, ma anche quella dello sceriffo Willoughby, uomo saggio e stimato, in lotta contro un brutto male, e dell'agente Dixon, ubriacone violento e razzista votato all'autodistruzione. Da Martin McDonagh, irlandese approdato oltre oceano, arriva, fulminante ed appropriato, questo solidissimo esempio di cinema fieramente indipendente (ormai è assodato che tutto il meglio del cinema americano proviene da quella fucina). Ottimamente scritto, diretto con sobrio rigore e recitato benissimo da un cast tutto in odore di nomination (Frances McDormand, Sam Rockwell, Woody Harrelson), questo splendido film "di pancia" può essere considerato come il più vivido manifesto della situazione attuale americana. In una efficace commistione tra commedia nera e dramma, attraverso dialoghi al vetriolo, battute tristemente memorabili e personaggi ruvidamente ambigui ma non privi di dolente umanità, l'autore muove una lucida critica antropologica e politica alla società statunitense, utilizzando il crudo disegno impietoso di quella profonda provincia del Midwest: sporca, ignorante, violenta e feroce, coacervo di fanatismo, intolleranza, rapacità, brutalità ideologica, sopraffazione dei deboli e di tutti i comportamenti viziosi che oggi sono facilmente leggibili, attraverso la cronaca, anche ad alto livello. In bilico tra irriverenza e amarezza, ironia e tragedia, ribellione e resa, questo piccolo grande film di contrasti ha la tensione morale, giustamente indignata, di un libello civile, la cui dimensione straniante, evidentemente provocata dai contrasti predetti, è un alto valore aggiunto. Forse l'unico passaggio un po' forzato, ma comunque narrativamente necessario per imprimere la svolta decisiva che conduce alla seconda parte del film, è quello centrale delle lettere scritte dall'umanissimo sceriffo di Woody Harrelson. Ma trattasi di quisquilie di fronte alla potenza di un'opera granitica e necessaria, che suona come monito agghiacciante e cartina tornasole della deriva morale, sociale e politica che l'America sta attraversando. Da citare anche la notevole fotografia e il commento musicale, accurato, avvolgente, ma mai invadente. Tra le sequenze da consegnare alla memoria: il tenero incontro con il cervo femmina, un misurato momento lirico di poetica tensione emotiva, ed il finale on the road che si erge a piccola metafora della vita, in cui le grandi decisioni si prendono (o non si prendono) strada facendo.

La frase: "Se dovessi cacciare tutti i poliziotti con tendenze razziste resterei con tre, che comunque odiano i froci"

Voto:
voto: 4,5/5

sabato 6 gennaio 2018

Chiamami col tuo nome (Call Me by Your Name, 2017) di Luca Guadagnino

Italia settentrionale, estate del 1983: il diciassettenne Elio, unico figlio di una colta famiglia alto borghese di origine ebraica, italiana e americana, vive con inquieta energia e sincero slancio la delicata fase di scoperta della propria sessualità. Coccolato da due genitori amorevoli, che però sembrano maggiormente attenti alla sua istruzione e al suo talento musicale che alla sua nervosa curiosità sessuale, e corteggiato insistentemente dall'acerba Marzia, Elio trascorre le afose giornate estive nella residenza familiare di campagna, nei pressi di Crema, nell'attesa di un evento che possa accendere la sua tumultuosa passione interiore, faticosamente tenuta a freno. L'arrivo dell'affascinante Oliver, vitale studente americano ventiquattrenne che sarà loro ospite per sei settimane per una collaborazione accademica con suo padre, insigne docente universitario di archeologia, cambierà per sempre l'esistenza del ragazzo. Tratto dall'omonimo romanzo di André Aciman, sceneggiato da James Ivory e diretto da Luca Guadagnino (inizialmente assunto come consulente per le locations e poi subentrato come regista in corso d'opera dopo un lungo tira e molla con il celebre collega statunitense), l'opus numero cinque dell'autore siciliano è un elegante e luminoso melodramma di formazione sul tema del desiderio, della passione e della scoperta del sesso, affrontato con grazia, esuberanza e malinconico trasporto, assecondando la prospettiva giovanile. Unanimemente acclamato dalla critica internazionale e da molti considerato come uno dei sicuri protagonisti ai prossimi premi Oscar 2018, Chiamami col tuo nome è un film di corpi, di pulsioni e di sensi, sospeso tra il classicismo decadente delle ambientazioni, il quieto immobilismo di una famiglia borghese, erudita e poliglotta (nella versione originale i dialoghi avvengono continuamente in inglese, francese e italiano) e la sensualità rigogliosa dei due giovani protagonisti, affamati di emozioni e voluttuosamente voraci nella ricerca della propria identità attraverso la carnalità. Come nelle opere precedenti del regista, il contrasto tra le restrizioni dell'ambiente familiare (in questo caso intellettuale ed elitario) e la vitalità prorompente dei personaggi, trova il suo inevitabile sfogo attraverso il sesso. Un sesso, in questo caso omosessuale, che finisce per travolgere ogni cosa pur senza mai dissipare quel senso di confusione interiore tipico dell'essere umano. Guadagnino omaggia in maniera chiarissima i suoi personali miti cinematografici: soprattutto Bertolucci, perchè è impossibile non pensare a Io ballo da sola guardando questo film, ma anche Rohmer, Visconti e Renoir. Evitando saggiamente ogni indulgenza sentimentalistica, l'opera procede agilmente tra tensione sensuale, intimo tormento e qualche inciampo non di poco conto, tra cui citiamo l'irritante scelta di rappresentare gli stranieri come colti e raffinati e gli italiani come villici o arroganti zoticoni. E senza dimenticare la discussa (ed inutile) scena della pesca: una metafora al limite del trash che è indubbiamente il punto più basso della pellicola. Anche la puntigliosa contestualizzazione "craxiana" del momento sociale del nostro paese appare come un mero stereotipo di dubbia efficacia narrativa, pur nella sua marginalità. I momenti migliori sono tutti nell'intenso rapporto tra i due protagonisti, interpretati con lodevole efficacia da Timothée Chalamet ed Armie Hammer, e nel finale che ci consegna le sequenze più emozionanti: l'accorato (e sorprendente) discorso/confessione dell'austero padre/professore al figlio Elio ed il sofferto epilogo durante i titoli di coda. Completano il cast Michael Stuhlbarg, Esther Garrel e Amira Casar. Finemente evocative le musiche originali composte da Sufjan Stevens, che fungono da contrappunto emotivo nel segmento conclusivo del film, in luogo della più convenzionale voce fuori campo inizialmente prevista nella prima stesura della sceneggiatura di Ivory.

Voto:
voto: 3,5/5

domenica 10 dicembre 2017

Detroit (Detroit, 2017) di Kathryn Bigelow

A Detroit, tra il 23 e il 27 luglio 1967, a seguito di un discutibile arresto di massa da parte della polizia ai danni di cittadini di colore colpevoli di trovarsi in un bar privo di licenza per la vendita degli alcolici, esplosero incontrollabili una serie di disordini che culminarono in una violenta rivolta da parte della comunità afroamericana, che mise a ferro e fuoco le strade dando vita ad un'autentica guerriglia urbana. La reazione da parte delle forze dell'ordine, a cui si unì anche la guardia nazionale, fu altrettanto feroce e culminò nei tragici eventi dell'Algiers Motel durante i quali, in una notte di assurda follia razzista, tre poliziotti alla ricerca di un fantomatico cecchino segregarono, picchiarono e torturarono dei ragazzi di colore e due giovani donne bianche, "colpevoli" di atteggiamento promiscuo con alcuni di essi, lasciando a terra tre vittime innocenti uccise a sangue freddo. Il vergognoso processo farsa che ne seguì, confermò l'atteggiamento sprezzante e discriminatorio del potere dei bianchi nei confronti della comunità nera. Ispirandosi ai reali e vergognosi fatti di sangue di Detroit del 1967, e in parte romanzandoli per esigenze narrative, Kathryn Bigelow, la più "tosta" tra le registe d'oltre oceano, ha tratto un film brutale, crudo e indignato, che va a toccare uno dei nervi scoperti della (cattiva) coscienza americana: la questione dei diritti civili, del razzismo e dell'ancora difficile convivenza tra etnie diverse in una nazione che ha fatto, almeno teoricamente, della pluralità razziale il suo punto di forza e il suo vanto da sbandierare nelle campagne elettorali o nelle questioni di politica estera. L'argomento, scottante, delicato e ancorché attuale, viene affrontato con il piglio di un racconto frenetico e a tratti scioccante, esteticamente superbo e ben corredato da una eccellente ricostruzione d'epoca, ma probabilmente troppo concitato per colpire nel profondo il cuore nero del problema e mettere a nudo tutte le sfumature di una questione tanto atavica quanto imbarazzante. Detroit è un film teso e violento sulla violenza, sull'intolleranza xenofoba, sull'abuso di potere, sulla prevaricazione e sull'arrogante certezza dell'impunità di un sistema governativo fascistoide, tipicamente di razza bianca, che ha radici profonde ed ha trovato terreno fertile da ambo i lati dell'Oceano Atlantico. E se la condanna verso questa aberrante ideologia è ovviamente netta, non si può dire che l'analisi sociologica del problema lo sia altrettanto. Nettamente più a suo agio con l'azione declinata attraverso immagini convulse che con l'approfondimento psicologico dei personaggi, la regista americana riflette sugli eventi di Detroit con un film idealmente divisibile in tre atti: il primo, di taglio documentaristico e caratterizzato da uno stile nervoso, ci mostra lo scoppio della rivolta urbana e lo scenario da guerriglia conseguente. Il lungo segmento centrale (che è anche il migliore) ci immerge con claustrofobico sadismo nella bestiale notte nel Motel, risparmiandoci ben poco delle sevizie psicofisiche, delle percosse, delle umiliazioni e dei delitti perpetrati con cinica ferocia dagli aguzzini in uniforme ai danni delle vittime. Qui l'autrice dispensa il suo talento innato nel racconto attraverso immagini forti e nervosamente agghiaccianti, restituendoci in pieno l'orrore e l'ingiustizia di quella che è ancora oggi una macchia esecrabile della società statunitense. Il terzo atto, più canonico e con qualche indulgenza retorica, intende mostrare il senso di umiliazione, rabbia, frustrazione e impotenza lasciato nella psiche di coloro che sono sopravvissuti alla spregevole notte ma che ancora portano dentro i segni dell'infamia subita. Vengono quindi poste in risalto le storie personali di Dismukes, agente di sorveglianza di colore che fu pavido testimone dei fatti dell'Algiers, e di Larry, talentuoso cantante soul in cerca di affermazione, la cui profonda ferita nell'animo finisce per minarne le velleità artistiche. Nel comparto di attori i più bravi sono, nell'ordine, Algee Smith, Will Poulter e John Boyega. Come in quasi tutti i film "a tesi" ispirati a tragici eventi storici il rischio di manicheismo è dietro l'angolo, ma la sincera e trascinante capacità della Bigelow di tradurre i fatti in un energico flusso di immagini è fuori discussione. E (quasi) tutto soccorre.

Voto:
voto: 3,5/5

giovedì 7 dicembre 2017

Dunkirk (Dunkirk, 2017) di Christopher Nolan

Maggio 1940, durante la Seconda Guerra Mondiale: sulla spiaggia francese di Dunkerque, vicino al confine belga, si trovano ammassati circa 400 mila soldati alleati (in gran parte britannici) costretti alla fuga dall'incessante avanzata dell'orda nazista che li bracca senza tregua. Nel tentativo di salvarli l'Inghilterra organizza un eroico quanto improvvisato piano di evacuazione, ricorrendo anche all'aiuto fondamentale di numerosi civili che partecipano all'azione con le loro imbarcazioni private guidate attraverso la Manica. Nonostante l'evidente disfatta militare, il "miracoloso" salvataggio di Dunkerque può essere considerato il rocambolesco inizio di quella resistenza strenua e orgogliosa che gli inglesi seppero opporre alle forze tedesche, in attesa di quegli eventi favorevoli che poi ribaltarono le sorti belliche, cambiando per sempre la storia del mondo moderno. Prodotto, scritto e diretto da Christopher Nolan (che ha cullato questo progetto per anni), Dunkirk è un war movie tecnicamente superbo e narrativamente audace che rende omaggio ad un mito nazionale britannico limando l'enfasi retorica e spingendo forte sul pedale di un accorato intimismo che stinge nell'epopea antropologica. Questa grande storia di una vittoria all'interno di una sconfitta procede secondo tre linee di racconto distinte, sia per location sia per durata, che si sovrappongono e si intersecano offrendoci tre soggettive differenti come le loro ambientazioni: il molo (vicenda che copre un arco temporale di una settimana), il mare (una giornata) e il cielo (un'ora). Ancora una volta il punto di forza assoluto è il montaggio (straordinario), capace di plasmare gli eventi in un mosaico di azioni e di emozioni in continua oscillazione tra l'affresco storico e il poema umano, che intende tracciare un accorato inno alla vita, al valore della sopravvivenza e all'importanza della coesione per definire un'identità nazionale. Potente e al tempo stesso calibrato, visivamente sontuoso nella sua fotografia plumbea e nel suo formato a 65mm, si lascia andare a qualche indulgenza ampollosa nelle sole scene con Kenneth Branagh, che si erge saldo come uno scoglio in mezzo al mare affermando tutto il suo orgoglio fieramente british, ma è un film importante, intenso, lirico, a tratti esaltante, che trova i suoi momenti migliori nei personaggi anonimi e nelle piccole gesta spontanee. Musicato da Hans Zimmer con minor veemenza del solito (il che è un bene) ed ottimamente riuscito anche nella commistione tra attori poco noti (Fionn Whitehead, Tom Glynn-Carney, Jack Lowden, Harry Styles) ed altri più famosi (Kenneth Branagh, Tom Hardy, Cillian Murphy, Mark Rylance), è il film più maturo, sentito ed equilibrato del regista londinese. Da segnalare la presenza vocale, apprezzabile però solo in versione originale, del fido Michael Caine nei panni del radiocronista di guerra. Da lodare altresì l'utilizzo misurato e poco invasivo della computer grafica in favore di un maggior numero di effetti speciali realizzati alla vecchia maniera, con trucchi artigianali, vere imbarcazioni e autentici aeroplani d'epoca, aumentando così enormemente la resa realistica.

Voto:
voto: 4/5

domenica 5 novembre 2017

La scoperta (The Discovery, 2017) di Charlie McDowell

Un brillante fisico fa un'incredibile scoperta destinata a cambiare per sempre il futuro dell'umanità: attraverso dei sofisticati macchinari tecnologici da lui costruiti riesce a dimostrare scientificamente l'esistenza di una vita dopo la morte e, quindi, dell'aldilà. Ma il nostro non può immaginare gli effetti della sua scoperta sulla società: infatti, dopo la sconcertante rivelazione, inizia una sempre crescente tendenza al suicidio da parte di individui che, certi di raggiungere una vita migliore, scelgono di porre fine con le loro stesse mani alla propria desolante quotidianità. Sconvolto dagli accadimenti lo scienziato si ritira su un'isola appartata per continuare i suoi esperimenti insieme ad una piccola comunità di fedeli sostenitori, che somiglia sempre di più a una setta di adoratori. Il suo figlio maggiore, Will, notoriamente scettico, decide di raggiungere il padre in cerca di risposte sulla morte di sua madre e sul traghetto incontra l'affascinante e misteriosa Isla, una ragazza tormentata con tendenze suicide e una morbosa attrazione per l'ultraterreno. Evidentemente attratto dalla donna, Will cerca di aiutarla e si unisce insieme a lei al gruppo di devoti a suo padre. Dramma fantascientifico a basso budget ma dalle forti ambizioni tematiche di Charlie McDowell, appartenente a quel cinema indipendente americano in cui sono ormai riscontrabili la maggior parte dei prodotti sopra la media provenienti da oltre oceano. Autunnale, antitetico e dissonante rispetto alla rutilante spettacolarità della fantascienza mainstream, The discovery va evidentemente collocato nel filone dello sci-fi concettuale, con pochi effetti speciali, che aspira alla sostanza piuttosto che alla forma e che si pone obiettivi filosofici esistenziali più che di leggero intrattenimento per famiglie. La scelta di un cast non di poco conto (con il vecchio divo Robert Redford e la brava Rooney Mara al fianco di Jason Segel) e l'indubbia componente sentimentale su cui si fonda buona parte della vicenda (la storia d'amore tra Isla e Will rappresenta il cuore pulsante dell'opera) non vanno letti come un tentativo di fornire appeal commerciale alla pellicola, ma come integrazione (invero non perfettamente riuscita) di un'idea forte che sta alla base del progetto e che ne costituisce il motivo di maggior fascinazione. Senza svelare troppi particolari ulteriori sulla trama, per non rovinare la sorpresa allo spettatore, ci limitiamo a dire che il film di McDowell cerca di dare una "risposta", non esaustiva, non religiosa, non sovrannaturale ma, piuttosto, fantascientifica e profondamente umana, alla più grande domanda che da sempre affligge l'uomo: che cosa ci attende dopo la morte ? La risoluzione intimistica, sussurrata, forse inaspettata anche se non propriamente originale, non manca di incisività ma lascia una sensazione a metà strada tra lo smarrimento e l'indignazione. A volte, come in questo caso, l'idea iniziale vale ben più della sua realizzazione pratica, perchè l'inconoscibile e l'ineffabile hanno maggiore possanza se vengono suggeriti, piuttosto che "spiegati".

Voto:
voto: 3/5

Lupo solitario (The Indian Runner, 1991) di Sean Penn

Joe e Frank Roberts sono due fratelli del Nebraska legati da un antico e sincero affetto ma profondamente diversi tra loro. Joe è un uomo tranquillo e per bene, felicemente sposato con una avvenente messicana da cui ha avuto uno splendido bambino, diventato capo della polizia della sua cittadina dopo aver abbandonato, suo malgrado, il sogno di fare l'agricoltore nella vecchia fattoria di famiglia, espropriata dal governo. Frank è un ribelle inquieto, violento e votato all'autodistruzione, incapace di condurre una vita regolare e con una propensione naturale a mettersi nei guai, in pessimi rapporti con i genitori che non ne hanno mai tollerato la turbolenza. Dopo il ritorno di Frank dalla guerra in Vietnam, Joe cerca in tutti i modi di ricostruire un rapporto con lui e di guidarlo sulla retta via, dimostrandosi sempre amorevole, tollerante e prodigo di buoni consigli verso lo scapestrato fratello. Quando Frank allaccia una relazione stabile con la bella Dorothy e, dopo averla messa incinta, si decide a trovare un lavoro onesto come carpentiere, Joe crede di avere finalmente raggiunto il suo obiettivo. Ma i demoni interiori e le cattive abitudini sono sempre in agguato. L'esordio registico dell'attore Sean Penn è un crudo dramma familiare, teso e puro, fieramente indipendente per concezione e realizzazione, e fortemente ambizioso nella sua natura di parabola antropologica che mette in scena il conflitto tra il lato oscuro della natura umana e la forza dei legami di sangue. Ed è proprio il sangue un elemento pregnante della pellicola, sempre presente con evidenti allusioni simboliche nelle scene cruciali che oscillano tra la ricerca esasperata di un brutale effettismo e la tensione introspettiva dell'apologo morale. Tra echi biblici (Caino e Abele) e suggestioni ancestrali di natura epica (il racconto metaforico sui nativi americani che contiene il senso intimo dell'opera e che si collega perfettamente al titolo originale, totalmente stravolto e banalizzato da quello italiano), il film procede pedissequamente come adattamento fedele del testo del brano "Highway Patrolman" (1982) di Bruce Springsteen, rivelando (già solo per questo) l'approccio originale e autoriale di Penn regista. Ma non tutto funziona perfettamente: la pellicola è talvolta squilibrata, sicuramente troppo lunga, qua e là eccessiva nelle soluzioni visive e, nell'ottimo cast, appare francamente discutibile la presenza di Valeria Golino nel ruolo di una messicana (con gli occhi verdi!). Molto bravi invece i due attori protagonisti (David Morse e Viggo Mortensen all'apice del suo fascino "maledetto", che non manca di regalarci l'ennesima scena di nudo integrale della sua carriera da anticonformista) e anche il resto del cast è da elogiare: da Patricia Arquette al carismatico Dennis Hopper, passando per un insolito, intenso e commovente Charles Bronson alla sua penultima apparizione sul grande schermo. In questo aspro ritratto della provincia americana, sanguigno, manicheo e potente nel suo ineluttabile incedere drammatico, Penn regista dimostra di possedere talento, ambizione ed un teatrale senso tragico da affinare (e asciugare) con la composta saggezza che solo l'esperienza sa donare. In ogni caso l'esordio è promettente e degno di attenzione. Alla sua uscita il film è passato totalmente in sordina, ma non ha mancato di suscitare polemiche per alcune scene di forte impatto come quella del parto naturale mostrato con dovizia di particolari.

Voto:
voto: 3,5/5