venerdì 21 gennaio 2022

Il potere del cane (The Power of the Dog, 2021) di Jane Campion

Montana, 1925. I due fratelli Burbank (Phil e George) gestiscono con successo e benessere economico il ranch di famiglia, memori degli insegnamenti ricevuti dal loro mentore, il mandriano Bronco Henri, dal cui ricordo Phil sembra ossessionato. I due uomini sono molto legati ma profondamente diversi: Phil è rozzo, carismatico, dispotico e legato ad una concezione antica, intollerante e brutalmente maschilista di virilità, che esibisce senza mezzi termini con bieco narcisismo. George è mite, sensibile, pingue, gentile nei modi, tollerante nelle idee e ben disposto verso le novità, gli agi e i privilegi portati dal progresso che avanza inesorabilmente anche nei territori selvaggi della vecchia frontiera americana. Quando George sposa la giovane vedova Rose e l'accoglie nella loro casa insieme a suo figlio Peter (un ragazzo esile, efebico e dai modi effeminati, sempre perso nei suoi studi di medicina), Phil inizia a perseguitare i nuovi arrivati, tormentandoli quotidianamente con i suoi atteggiamenti da rude bullo selvatico. Adattando il romanzo omonimo di Thomas Savage, la regista neozelandese Jane Campion ha scritto e diretto con mano sapiente e stile asciutto questo western drammatico anti-retorico e anti-mitologico, dai toni mestamente crepuscolari che contrastano, in una fertile contrapposizione allegorica, con la maestosa bellezza naturalistica degli scenari incontaminati della Nuova Zelanda in cui il film è stato girato, volutamente ritratti assecondando l'epica visiva fordiana, che viene ripetutamente omaggiata in molte sequenze. Egregiamente interpretato da un ottimo cast che annovera Benedict Cumberbatch, Jesse Plemons, Kodi Smit-McPhee e Kirsten Dunst, magnificamente fotografato da Ari Wegner e sulle note evocative della colonna sonora "minimal" di Jonny Greenwood, quest'opera sfuggente, immersiva ed apparentemente enigmatica (a cominciare dal titolo ermetico che è tratto da un versetto del Libro dei Salmi), ci parla nei suoi molti chiaroscuri di relazioni umane, di pulsioni inconfessabili, di erotismo represso, di ideologie atavicamente tossiche, di solitudine profonda, di discriminazioni e manipolazioni, di stolta intolleranza, di machismo e di sadismo, di vittime e carnefici, e di come sia ritenuto tragicamente inammissibile (in certi contesti gretti e ristretti) accettare le proprie o le altrui "fragilità" interiori, in nome di un'idea nociva di mascolinità. Tra luci e ombre, brutalità e sensualità, l'autrice viviseziona abilmente gli aspetti psicologici dei suoi personaggi, in un crescendo drammatico di ribaltamenti e colpi di scena di densa matrice psicoanalitica, che sono assolutamente da non svelare. Perchè è proprio nella sua lacerante ambiguità di fondo che risiede la maggiore bellezza della pellicola, che nel suo incedere sinuoso, reticente, voluttuoso e sottilmente torbido ci consegna un finale intrinsecamente potente che induce vertigini morali e profonde riflessioni sul senso della natura umana, nel suo groviglio soffocato di eros e aggressività. Il cane a cui allude il titolo va ovviamente letto in maniera figurata e consona al contesto biblico da cui è tratta la citazione: un simbolo astratto, famelico e ferino di accezione negativa, caotica, collegabile alla ferocia, all'istinto brado e, metaforicamente, all'inconscio, che è il teatro sommerso dei traumi rimossi e dei desideri negati che delineano la vera natura di un individuo, sotto la maschera indossata nel quotidiano. Carico di immagini perentorie, di atmosfere oscure e di allegorie da leggere in termini di sessualità e psicologia, questo film di impulsi, di segreti, di vendette e di veleni, è stato premiato con il Leone d'Argento per la miglior regia al Festival di Venezia ed ha vinto tre Golden Globe (miglior film, regista e Kodi Smit-McPhee attore non protagonista), in attesa dei prossimi Oscar a cui si presenta come uno dei favoriti principali.

La frase: "Salva l’anima dalla spada, salva il cuore dal potere del cane"

Voto:
voto: 4/5

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