Tre piani di un palazzo signorile sul Lungotevere nel quartiere romano di Prati. Tre famiglie borghesi che vi abitano e le cui vicende si sovrappongono in percorsi di vita dolorosi e complicati. Tre atti narrativi e tre tempi separati da una distanza di 5 anni l'uno dall'altro. L'ultimo film di Nanni Moretti, da lui scritto insieme a Federica Pontremoli e Valia Santella, è l'adattamento del romanzo omonimo dell'israeliano Eshkol Nevo, con l'azione spostata da Tel Aviv a Roma, ed è la prima volta che il regista altoatesino, ma romano di adozione, dirige una pellicola tratta da un soggetto non suo. In questo film austero e corale si alternano le storie drammatiche di tre nuclei familiari che abitano in piani diversi del medesimo edificio. Lucio e Sara, giovani professionisti sempre impegnati, affidano abitualmente la loro piccola figlia ai vicini anziani, Giovanna e Renato. Fino a quando Renato, afflitto da una grave forma di demenza senile, scompare con la bambina per molte ore, innescando un atroce sospetto nell'impulsivo Lucio. L'ombrosa Monica ha una figlia neonata e un marito sempre assente per lavoro, soffre di ansia e di solitudine e "vede" un corvo nero che ne accompagna le malinconiche giornate. Dora e Vittorio, maturi magistrati che hanno vissuto all'insegna del rigore inflessibile, hanno un figlio ventenne tormentato e ribelle, Andrea, che investe ed uccide una passante mentre è ubriaco alla guida della sua auto. Vittorio, che non ne ha mai tollerato i comportamenti difformi dalla sua rigida etica esistenziale, decide di abbandonarlo al corso della giustizia, perchè sconti appieno la sua pena e paghi la sua colpa. Il 13° lungometraggio di Nanni Moretti regista, presentato in concorso al Festival di Cannes, è un asciutto dramma familiare intenso e tragico, totalmente privo di ironia e di evasioni grottesche, sorprendentemente apolitico (a parte una fugace "irruzione" un po' forzata che avviene nella seconda parte), concettualmente vicino (ma meno riuscito, meno rigoroso e meno brillante) alla sua pluripremiata opera del 2001, La stanza del figlio. Ha diviso la critica ed i fans dell'autore per il suo essere poco "morettiano", e quindi spiazzante, ambiguo, di non facile decifrazione, oltre che duramente serioso. Eppure, al netto di qualche ridondanza e di qualche passaggio a vuoto, è un film secco e incisivo sull'inerzia della borghesia, sulla crisi dei valori, sulla decadenza dei costumi, sui fallimenti esistenziali; un film che affronta con lucidità impietosa tematiche scottanti come la difficoltà delle relazioni umane, i sensi di colpa, i disastri genitoriali, le ossessioni psicologiche, la solitudine profonda ed i drammatici lasciti spirituali dei padri per i figli. E proprio il rapporto con i figli è il cuore intimo dell'opera, mettendo al centro la dinamica attraverso cui le azioni dei genitori si riflettano (prima o poi) inesorabilmente sulla vita dei loro discendenti diretti, in una sorta di effetto farfalla di crudele inevitabilità. Ma non abbiamo a che fare con una pellicola ideologicamente vecchia, pesante o bacchettona, come alcuni hanno invece vaneggiato, perchè il regista si dimostra ampiamente critico e disincantato verso la sua generazione (e in particolar modo verso il suo personaggio, il giudice Vittorio, al quale riserva una emblematica, e probabilmente auto-significativa, uscita di scena). E, non a caso, tutti i figli vengono tratteggiati come più saggi, più svegli, più pratici, più sensibili e più vicini alla realtà delle cose dei rispettivi genitori. Proprio in questo, oltre che nel senso del fotogramma finale, il cui climax viene ben preparato dalla surreale sequenza (questa sì decisamente "morettiana") del tango collettivo in strada, risiede un'ariosa luce di apertura verso il futuro (e verso i giovani), che spezza il cupo velo del pessimismo che pervade gran parte dell'opera. La metafora, presente nel romanzo ispiratore, dei tre piani come i tre aspetti psicoanalitici della personalità umana secondo Freud (Es, Io e Super Io), è traslata pedissequamente nel film ed è evidentemente riconducibile ai personaggi di Riccardo Scamarcio (Es), Alba Rohrwacher (Io) e Nanni Moretti (Super Io). Nel cast, in cui la recitazione generalmente "robotica" è chiaramente attribuile ad una precisa scelta stilistica, funzionale al tono asettico che l'autore voleva infondere al racconto, i più convincenti sono Margherita Buy e la giovane Denise Tantucci: donne fragili, problematiche, irrisolte, ma anche a tratti radiose e sempre straordinariamente vitali. La mancata vittoria della Palma d'Oro a Cannes, che molti auspicavano alla luce dell'ottimo feeling che sussiste da tempo tra Nanni Moretti ed i critici francesi, e la conseguente pubblica reazione del regista di fronte al premio assegnato a Titane di Julia Ducournau, è stato un divertente "quadretto" di irriverente ironia, tra l'altro tipica del grande autore e del personaggio che lui ha sempre amato cucirsi addosso, stimolando simultaneamente la simpatia dei suoi fans e l'astio dei suoi detrattori, numerosi in egual misura. E anche un progetto più "piccolo", più intimo, meno autarchico e più vicino alla drammaturgia convenzionale come questo, è sempre, a suo modo, un evento ed una garanzia di qualità, di autorialità e di indipendenza espressiva, come per tutte le opere firmate da Nanni Moretti.
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