lunedì 5 settembre 2016

Catene (Catene, 1949) di Raffaello Matarazzo

Guglielmo e Rosa sono una coppia felicemente sposata, che vive a Napoli con due figli e l’anziana madre di lui. Un giorno un uomo di nome Emilio arriva nell’officina meccanica di Guglielmo e, quando vede Rosa, riconosce subito in lei una vecchia fiamma amorosa mai del tutto sopita. L’intruso fa di tutto per sedurla e risvegliare in lei l’antica passione, ma la donna resiste strenuamente. Tuttavia l’azione dell’uomo porterà il caos all’interno del nucleo familiare, dando inizio a tragici eventi, inevitabili quando il marito scoprirà la cosa. Celeberrimo melodramma popolare di Matarazzo, probabilmente il suo migliore, di certo il più famoso, che ebbe uno straordinario successo di pubblico (è ancora oggi uno dei maggiori successi al botteghino della storia del cinema italiano) e lanciò il duo di protagonisti, Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson, come coppia “regina” del melò italico. Nonostante l’enorme riscontro del pubblico, la critica distrusse il film (quella cattolica si premunì addirittura di “proibirne” la visione), accusandolo di aver segnato la morte del Neorealismo, di cui obiettivamente conserva lo stile, spostando però l’attenzione dalle problematiche di impegno sociale verso la dimensione privata, familiare, strizzando l’occhio al romanzo d’appendice con la sua estetica ammiccante e incline al sentimentalismo. Il tempo ha invece decretato la giusta rivalutazione di un’opera solida e sincera, istantanea verace di un’Italia ingenua e passionale, appena uscita dalla catastrofe bellica e carica di quell’entusiasmo vitale che darà poi origine al boom economico. La più appropriata chiave di lettura del film è quella di un melodramma fiammeggiante e contrastato, con una forte carica erotica che striscia maliziosamente sotto pelle e che, probabilmente, fu la vera ragione del grande successo di pubblico. Da non sottovalutare altresì il possente cuore della storia, la cui fiera connotazione popolare travalicò i canoni classici del cineromanzo e le cui torbide passioni aprirono scenari in chiaro scuro sulla reale tenuta della vita coniugale, in cui la nascita dei figli segna, inevitabilmente, la fine del desiderio e la trasformazione della passione in affetto. Tornatore ha reso uno splendido omaggio al film nel suo Nuovo Cinema Paradiso, evidenziando come il “popolino” ne conoscesse a memoria tutte le battute, avendolo rivisto più volte in sala. Secondo le stime ufficiali per Catene furono venduti più di sette milioni e mezzo di biglietti, ben più di Avatar di James Cameron che detiene, ad oggi, il primato nazionale del maggior incasso. Record ovviamente fittizio e poco attendibile perché non tiene conto dell’inflazione legata alle epoche diverse.

Voto:
voto: 4/5

venerdì 2 settembre 2016

I cento passi (I cento passi, 2000) di Marco Tullio Giordana

Peppino Impastato è un giovane ribelle di Cinisi (Palermo), che negli anni ’70 fonda una piccola radio libera per urlare al mondo tutto il suo disprezzo verso quel sistema di connivenza omertosa che rende il suo paese, come tanti altri in Sicilia, succube del potere mafioso. Incurante dei rischi e insofferente delle ataviche restrizioni sociali che da sempre attanagliano la sua realtà, Peppino sfida apertamente l’autorità di un padre dispotico, “pesce piccolo” della mafia locale, ma anche le istituzioni colluse, fino ad arrivare al potente boss Gaetano Badalamenti, da tutti temuto, che abita a soli cento passi da casa sua. Appassionato e appassionante dramma storico di Marco Tullio Giordana, degno erede dei grandi maestri che hanno reso grande il cinema politico e d’impegno civile del nostro paese. Il bravo regista milanese ci racconta la tragica storia vera di Giuseppe Impastato, un eroe ribelle vittima della mafia e di quel sordido intreccio di potere, corruzione e violenza che rende la criminalità organizzata un cancro inestirpabile del nostro sistema economico. Mescolando abilmente denuncia sociale, ricostruzione ambientale, indignazione morale, romanticismo nostalgico, utopie sessantottine, conflitti generazionali, passione politica e drammatico verismo, l’autore traccia un amaro bilancio (in perdita) di quella generazione veemente di cui lui stesso ha fatto parte e che si è vista tarpare le ali di un contagioso idealismo dal cinismo reazionario dei poteri forti. Impastato diventa quindi non solo un simbolo della lotta alla mafia ma anche un martire caduto sull’altare del fallimento degli ideali del ’68, mestamente naufragati nello scontro con la dura realtà. In tal senso la commistione di passione e ideologia che percorre, sostiene ed infervora la pellicola ne diventa anche il limite, perché assottiglia la lucidità dell’analisi sociale ed attenua l’efficacia dell’accusa sotto la coltre di un malinconico sentimentalismo della memoria, che sfocia in un finale retorico in cerca della scorciatoia lacrimevole. Con minore enfasi e maggior distacco avrebbe potuto essere un film assai migliore ma, anche così, resta un prodotto di tutto rispetto, recitato benissimo da un cast eccellente in cui svettano Luigi Lo Cascio e Tony Sperandeo. Acclamato dal pubblico e da buona parte dei critici, la pellicola ha avuto l’indubbio merito di riportare sotto i riflettori la vicenda del giovane Impastato, passata in sordina ai suoi tempi perché concomitante ai tragici giorni del sequestro Moro.

Voto:
voto: 3,5/5

Diavolo in corpo (Diavolo in corpo, 1986) di Marco Bellocchio

Giulia è una borghese depressa, fidanzata con un terrorista pentito che è probabilmente responsabile della morte di suo padre, funzionario di polizia tragicamente caduto sotto i proiettili della lotta armata allo stato. Combattuta tra i sensi di colpa e una sfrenata voracità sessuale, la donna vive l’ambiguo rapporto come una sorta di auto castigo. L’incontro con un giovane liceale la distoglierà da tutto questo, facendola precipitare in una passionale relazione erotica. Controverso dramma psicologico di Bellocchio, che sotto la patina “scandalosa” (che lo ha reso celebre, suscitando gli strali della censura dell’epoca) cela il disagio e lo smarrimento di una nazione uscita sconvolta dagli “anni di piombo” e ancora incapace di trovare una propria direzione dopo lo sfacelo portato dall’eversione terroristica. Tenendo il terrorismo costantemente fuori fuoco, l’autore emiliano sceglie di soffermarsi principalmente sull’aspetto sessuale per psicanalizzare nel profondo le inquietudini delle vittime e scegliendo, nuovamente, come bersaglio la borghesia. Peccato che la forza polemica dell’opera, indubbiamente tagliente nella suo coraggio trasgressivo, si perda in una sceneggiatura sfilacciata e diseguale, che alterna sequenze magnificamente inquietanti a momenti grevi. Fatto a pezzi dalla critica e incompreso dal pubblico, il film viene principalmente ricordato per la “generosa” avvenenza fisica della protagonista (l’olandese Maruschka Detmers, passata come una meteora nel nostro cinema d’autore) e per la scena della fellatio (si dice non simulata) che venne puntualmente sforbiciata da tutte le versioni circolanti (anche quelle in VHS). Rivisto oggi, con lo spettro del terrorismo ormai lontano e una maggiore disinibizione dei costumi, l’opera appare per quella che è: il tentativo un po’ incerto di un ribelle patentato di scuotere la coscienza civile nazionale di fronte ad una piaga ancora dolorosa, che ne aveva scosso le fondamenta ideologiche e morali. Il tentativo (artistico) di esorcizzarne le scorie mefitiche e di cacciar fuori il dolore (il diavolo) dal corpo dei sopravvissuti “feriti”. Non è di certo tra i film migliori di Bellocchio ma è pur sempre funzionale (e coerente) con la sua concezione estetica e politica.

Voto:
voto: 3/5

La moglie più bella (La moglie più bella, 1970) di Damiano Damiani

Francesca, minorenne siciliana figlia di contadini, viene rapita e stuprata da Vito, giovane delinquente locale che non tollera il di lei rifiuto. Sfidando le ottuse convenzioni sociali del suo paese la ragazza rifiuta il matrimonio “riparatore” e, senza timore dello scandalo generale, si decide a denunciare l’uomo alle autorità. Intenso dramma sociale ispirato alla storia vera di Franca Viola e diretto con asciuttezza formale e ardente realismo da Damiani. La ricostruzione storica dell’ambiente arretrato, ignorante e maschilista in cui versava il sottoproletariato siciliano è impeccabile e per questo si potrebbe anche tollerare qualche passaggio un po’ troppo romanzato. Per la forza della denuncia e per la spinta all’emancipazione femminile è un film inappuntabile, peccato che alcune scelte convincano poco, a cominciare dal cast che vede l’esordiente quattordicenne Ornella Muti e l’affascinante Alessio Orano nei due ruoli principali. I due attori, che cinque anni dopo si sposeranno, s’impegnano tanto ma non sembrano mai a proprio agio come esponenti di quel retrogrado sottobosco siciliano che intendono rappresentare. Come se il regista, in accordo agli standard dell’epoca, avesse badato più all’avvenenza fisica che alle reali capacità interpretative e mimetiche. In definitiva ci troviamo di fronte a una pellicola riuscita a metà, le cui buone intenzioni di critica sociale non sono parimenti sostenute dalle soluzioni realizzative.

Voto:
voto: 3/5

American Gigolo (American Gigolo, 1980) di Paul Schrader

Julian Kay è un aitante gigolò adorato dalle sue clienti, ricche signore annoiate e un po’ agée, a cui si dedica con certosina dedizione per soddisfarne ogni desiderio represso. La sua inevitabile prossimità con un mondo opulento e vizioso, farà finire Julian in un grosso guaio giudiziario, come sospettato principale dell’efferato delitto di una delle sue clienti. Torbido noir erotico di Paul Schrader, divenuto immediatamente di culto a causa della conturbante materia trattata, che non era certo una cosa leggera per gli anni ’80. Rese il protagonista, il fascinoso Richard Gere, una star amata dalle donne di ogni latitudine e vanta a tutt’oggi folte schiere di ammiratori, anche tra la critica. Tenendo da parte le inopinate reazioni scandalizzate dei soliti moralisti, va detto che il film è eccellente nella prima parte, in cui il regista traccia un crudo ritratto al vetriolo dell’alta società americana, persa nell’edonismo, vittima del proprio vuoto esistenziale e dedita alla dissolutezza come unica risposta possibile alla noia. La prostituzione diventa una metafora del consumismo sfrenato: in una società che ha barattato gli ideali con il potere economico, le “attenzioni” (non solo sessuali ma anche umane) vanno comprate. Peccato che la buona premessa venga in larga parte sciupata nella seconda parte della pellicola, che diventa un canonico thriller a sfondo legale dal finale poco plausibile. Il film è anche famoso per gli abiti indossati dal prestante Gere, disegnati dal nostro Giorgio Armani. Schrader ha più volte dichiarato di essersi ispirato, per la sceneggiatura di American Gigolo, a Diario di un ladro (Pickpocket, 1959) di Robert Bresson. Il paragone ambizioso non può che lasciare perplessi.

Voto:
voto: 3,5/5

giovedì 1 settembre 2016

I magnifici sette (The Magnificent Seven, 1960) di John Sturges

I contadini di un povero villaggio messicano, vessati dai soprusi di una banda di fuorilegge senza scrupoli, chiedono aiuto ad un gruppo di sette pistoleri che accorrono prontamente in loro soccorso. Sarà l’inizio di una serie di sanguinose battaglie tra gli avventurieri e i bandidos. Celebre remake in salsa western del capolavoro di Kurosawa, I sette samurai, che sposta l’azione dal Giappone del XVI secolo al Messico della vecchia frontiera, gli rimane fedele nella struttura narrativa ma lo contamina con una più convenzionale azione spettacolare che strizza l’occhio alle grandi produzioni hollywoodiane. La ferocia visiva, la tensione drammatica e l’introspezione lirica dello straordinario film ispiratore vengono puntualmente perdute in un vibrante marasma di duelli e sparatorie. Se paragonata all’originale l’opera di Sturges perde la sfida su tutti i fronti e, nonostante il grande successo di pubblico e critica, resta un western appassionante ma discontinuo, epico ma a tratti verboso, in fin dei conti stereotipato e sopravvalutato, sebbene non manchino le sequenze mirabolanti che garantiscono un valido intrattenimento. L’avventurosa vicenda è narrata con piglio deciso dal regista dell'Illinois, che pone il suo alto senso scenico al servizio di un cast stellare, in forte odore di divismo, e difficilmente ripetibile: Yul Brynner, Steve McQueen, Eli Wallach, Charles Bronson, James Coburn, Robert Vaughn. Ma il punto di forza maggiore della pellicola, che ha contribuito non poco a farla rimanere impressa nella memoria collettiva, è la leggendaria colonna sonora di Elmer Bernstein, una delle partiture più belle e famose della Storia del Cinema. L’enorme successo al botteghino del film diede origine a tre dimenticabili seguiti, una serie televisiva degli anni ‘90, uno strampalato spin-off fantascientifico ed un remake con Denzel Washington, diretto da Antoine Fuqua, in uscita nel 2016.

Voto:
voto: 3,5/5

Il mondo dei robot (Westworld, 1973) di Michael Crichton

Delos è un parco di divertimenti avveniristico e tecnologico per gente ricca in cerca di avventurose emozioni, disposta a pagare fino a mille dollari al giorno per poterlo visitare. Il parco è diviso in tre aree tematiche che ricostruiscono negli scenari, nelle atmosfere e nei personaggi tre periodi storici del passato: l’antica Roma (Roman world), il Medioevo (Medieval World) ed il Far West (Westworld). La grande attrattiva è la presenza di androidi artificiali perfettamente identici agli esseri umani con cui i visitatori possono interagire, per duelli all’ultimo sangue o per avventure sessuali, senza alcun timore di sorta perché i robot, controllati da un complesso sistema artificiale computerizzato, sono programmati per soccombere e non far mai del male alle persone reali. Ma durante la visita dei due amici Peter Martin e John Blane, che prediligono l’area Westworld, un misterioso bug informatico al computer di controllo centrale fa impazzire gli androidi, che si ribellano contro gli umani dando vita a una strage. I superstiti dovranno lottare con tutte le loro forze contro un implacabile pistolero vestito di nero, che bracca le sue prede con feroce determinazione. Ideato, scritto e diretto da Michael Crichton (qui al suo esordio cinematografico), questo piccolo gioiello di fantascienza apocalittica sembra anticipare alcune tematiche che poi decreteranno il successo del suo romanzo più famoso (Jurassic Park) e rappresenta il più autorevole precursore del filone della tecnologia che si ribella all’uomo, che sarà poi ampiamente saccheggiato da tanta cinematografia a venire. Sospeso tra l’incubo distopico e la favola nera, ha le cadenze di un’allegoria violenta sui mali del progresso e ci regala scene indimenticabili cariche di suspense angosciante. Fu il primo film ad utilizzare compiutamente gli effetti speciali in computer grafica (ma solo per poche brevi sequenze) e le sue influenze sui vari Terminator e affini sono più che evidenti. Il suo punto di forza maggiore è la magnetica caratterizzazione del robot pistolero offerta da Yul Brynner, con un’interpretazione così memorabile da entrare nell’immaginario dei fans del genere sci-fi. Il carismatico attore di origine russa adotta lo stesso look del personaggio da lui stesso interpretato nel celebre I magnifici sette, ma conferendogli un aspetto sinistro e impassibile degno di un demone tecnologico la cui unica missione è quella di scatenare la propria vendetta sul creatore umano. L’utilizzo delle riprese in soggettiva dal punto di vista del robot che bracca le sue vittime è un ulteriore valore aggiunto di questa pellicola fondante e, forse inconsapevolmente, geniale, perché in grado di stabilire un nuovo modello per la fantascienza successiva. Agghiacciante e preveggente fu un grande successo di pubblico negli Stati Uniti ed è unanimemente considerato uno dei cult assoluti degli anni ’70, di grande influenza e impatto sulla cultura popolare americana. In Italia passò più in sordina, salvo poi essere puntualmente rivalutato nei decenni successivi alla sua uscita.

Voto:
voto: 4/5

giovedì 25 agosto 2016

L'occhio che uccide (Peeping Tom, 1960) di Michael Powell

Mark è un cineoperatore londinese schivo e riservato, che arrotonda il magro salario come fotografo osé di sedicenti modelle. Ma sotto la sua aria da bravo ragazzo un po’ impacciato Mark nasconde un terribile segreto, che ha le sue radici in un’infanzia traumatica causata da un padre dispotico che lo sottoponeva a crudeli vessazioni psicologiche. Il giovane è, infatti, un metodico serial killer che, durante la notte, uccide giovani donne dopo averle morbosamente filmate, per imprimere su pellicola l’attimo supremo della morte. Quando la bella Helen s’innamora di lui, la pulsione omicida di Mark sarà messa a dura prova, innescando un atroce conflitto nel suo animo contorto. Fino a quando la madre cieca della ragazza, utilizzando il suo “sesto senso”, inizia a sospettare qualcosa sulla vera natura dell’uomo. Memorabile psico-thriller di Michael Powell, tra i più belli in assoluto del suo genere, biecamente osteggiato alla sua uscita per i suoi contenuti disturbanti che scioccarono oltre misura la bigotta critica anglosassone, facendo cadere la pellicola in un oblio ingiusto e immeritato. Ma per fortuna, nel tempo, grazie allo sdoganamento di molti tabù e alla disinibizione dei costumi, è stato ampiamente rivalutato, pur conservando sempre la sua aura “maledetta”, e oggi viene unanimemente considerato un autentico gioiello, un cult assoluto che vanta miriadi di fans, anche eccellenti, come il grande regista Martin Scorsese che ha sicuramente contribuito alla sua rivalutazione. Sotto la patina aspra di un piccolo film di genere, che fu girato a basso costo seguendo le orme tipiche di un “serial killer movie”, si nasconde un formidabile trattato analitico sul voyeurismo nella sua accezione più pura, l’atto dello spiare, innescando una stimolante riflessione sul mezzo cinema, che non è altro che un prolungamento tecnologico dell’inconfessabile volontà di sbirciare furtivi. In tal senso il titolo originale (“Peeping Tom” significa per l’appunto “guardone”, citando un personaggio della leggenda di Lady Godiva) suona già come un diktat perentorio e definitivo. L’ardita commistione tra sadomasochismo, perversione sessuale, psicopatia, orrore e feticismo morboso è tanto disturbante quanto geniale, con vette di inarrivabile malia oscura nelle scene in cui Mark filma le sue vittime, quasi possedendole sessualmente con la macchina da presa, utilizzata come un prolungamento meccanico del suo corpo, come uno strumento di piacere e come un’arma terrificante. Ciò che all’epoca lasciò sconcertati pubblico e critica, suscitando scandalo e indignazione, è divenuto, nel tempo, il punto di forza dell’opera: la torbida connessione psico-emotiva tra lo spettatore e l’assassino protagonista. Una connessione che si stabilisce attraverso un sapiente utilizzo del metacinema che porta ad estendere, quasi naturalmente, l’appellativo di voyeur a tutti gli avidi fruitori di pellicole cinematografiche, creando così una malsana “complicità” nell’atto dello spiare le vite altrui, alla ricerca dei segreti più scomodi e nascosti. Mark diventa così una sorta di specchio della nostra cattiva coscienza e dei nostri desideri inconfessabili, perché alla base delle sue azioni aberranti ci sono i medesimi impulsi, le medesime voglie, sul confine sottile tra sessualità e morbosità. Il subdolo gioco psicologico che crea un ponte tra la psicopatia del protagonista e la scopofilia del pubblico denota la grande abilità di un regista probabilmente troppo coraggioso e provocatorio per i suoi tempi e per il suo contesto sociale. E come non parlare del labirinto di riflessioni contemplative e di sottili complicità innescate dal meccanismo di scatole cinesi alla base del film: chi sta guardando chi? Chi è lo spione e chi è lo spiato? Tra le numerose sequenze memorabili vanno sicuramente citate il prologo straniante (con una soggettiva di una ripresa di Mark, che poi in seguito ci verrà mostrata anche sullo schermo con l’uomo che osserva, di spalle, “insieme a noi”) e quella in cui Mark bacia la lente della macchina-da-presa/feticcio per rispondere ad un bacio di Helen. Troppo moderno e trasgressivo per i suoi tempi, questo capolavoro del genere thriller si erge a torbida apologia del concetto di visione e si compiace, con impudica intelligenza, di affermare e ribaltare i propri concetti in un continuo gioco di specchi opposti (non a caso colei che riesce a “vedere” meglio di tutti dentro l’animo nero del protagonista è una non vedente). Nel cast spicca l’austriaco Carl Boehm, perfettamente a suo agio nel ruolo di Mark, dopo il grande successo dei film con Romy Schneider sull’imperatrice Sissi e prima di diventare un “pupillo” del grande autore tedesco Rainer Werner Fassbinder. Il regista Michael Powell fa una piccola apparizione nei panni del padre di Mark.

La frase:Helen, Helen, ho paura! ...E sono contento di aver paura!

Voto:
voto: 4,5/5

L'ombra del dubbio (Shadow of a Doubt, 1943) di Alfred Hitchcock

Charlie Oakley ritorna dopo molti anni in famiglia nella piccola cittadina californiana di Santa Rosa e viene accolto con grande affetto, in particolar modo dalla giovane nipote che si fa sedurre dal fascinoso zio, in cui vede una possibilità di evasione dalla noiosa routine quotidiana. Ma ben presto la ragazza (che porta lo stesso nome dello zio e con il quale condivide una sintonia naturale) inizia a sospettare che l’uomo sia un pericoloso pluriomicida di ricche vedove, prima abilmente adescate e poi uccise per impossessarsi dei loro beni. Questo intrigante thriller del Maestro inglese è sapientemente costruito sul tema del “doppio”: lo zio e la nipote con lo stesso nome, il loro ambiguo rapporto “telepatico”, il confine sottile tra bene e male, il contrasto tra la placida vita di provincia e i terribili dubbi che assillano la ragazza, consentendo così al regista di costruire una suspense giocata sulla labilità delle certezze e sulla mutevolezza delle prospettive (come già avvenuto ne “Il pensionante”, “Sabotaggio”, “Rebecca”, “Il sospetto” e come in seguito avverrà ne “La finestra sul cortile”). Per le sue suggestioni morbose, per l’impeccabile analisi dell’ambiente provinciale americano, per la sottile sottigliezza psicologica dei personaggi, per la geometrica costruzione della tensione e per lo sfuggente confine di divisione tra “normalità” e “anormalità”, va annoverato tra i film più riusciti dell’autore che, non a caso, era solito collocarlo tra i suoi lavori preferiti. Sottilmente hitchcockiano per tutta la sua durata, potrebbe apparire, oggi, un po’ datato in alcune sequenze (come quella finale sul treno) ma la sua suggestiva capacità di rappresentare il male che cova sotto la cenere è oggettivamente straordinaria. Nel cast spiccano i due protagonisti, Teresa Wright e Joseph Cotten, entrambi bravissimi. Il consueto cameo del regista è tutto da gustare: egli appare mentre gioca a carte sul treno, reggendo in mano una scala di picche completa, dal due fino all’asso. Nel 1958 Harry Keller ne ha diretto un incerto remake, dal titolo “Step Down to Terror”, mai uscito nel nostro paese.

Voto:
voto: 4/5