Julian
Kay è un aitante gigolò adorato dalle sue clienti, ricche signore annoiate e un
po’ agée, a cui si dedica con
certosina dedizione per soddisfarne ogni desiderio represso. La sua inevitabile
prossimità con un mondo opulento e vizioso, farà finire Julian in un grosso
guaio giudiziario, come sospettato principale dell’efferato delitto di una
delle sue clienti. Torbido noir erotico di Paul Schrader, divenuto
immediatamente di culto a causa della conturbante materia trattata, che non era
certo una cosa leggera per gli anni ’80. Rese il protagonista, il fascinoso
Richard Gere, una star amata dalle donne di ogni latitudine e vanta a tutt’oggi
folte schiere di ammiratori, anche tra la critica. Tenendo da parte le inopinate
reazioni scandalizzate dei soliti moralisti, va detto che il film è eccellente
nella prima parte, in cui il regista traccia un crudo ritratto al vetriolo
dell’alta società americana, persa nell’edonismo, vittima del proprio vuoto
esistenziale e dedita alla dissolutezza come unica risposta possibile alla
noia. La prostituzione diventa una metafora del consumismo sfrenato: in una
società che ha barattato gli ideali con il potere economico, le “attenzioni”
(non solo sessuali ma anche umane) vanno comprate. Peccato che la buona
premessa venga in larga parte sciupata nella seconda parte della pellicola, che
diventa un canonico thriller a sfondo legale dal finale poco plausibile. Il
film è anche famoso per gli abiti indossati dal prestante Gere, disegnati dal
nostro Giorgio Armani. Schrader ha più volte dichiarato di essersi ispirato,
per la sceneggiatura di American Gigolo,
a Diario di un ladro (Pickpocket, 1959) di Robert Bresson. Il
paragone ambizioso non può che lasciare perplessi.
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