sabato 20 marzo 2021

Suspiria (2018) di Luca Guadagnino

1977: Susie Bannion, giovane ballerina americana, sbarca a Berlino per entrare nella prestigiosa accademia di danza "Markos Tanz", gestita dalla severa coreografa Madame Blanc con la quale Susie instaura fin dall'inizio un rapporto d'intesa che sembra andare oltre gli interessi artistici. Durante il periodo di preparazione del saggio finale accadono fatti inquietanti e morti violente. Intanto il dottor Josef Klemperer, un anziano psicoterapeuta che aveva tra i suoi pazienti una ragazza scomparsa dell'accademia, inizia ad indagare sui misteri che avvolgono la scuola, sospettando che nasconda una setta di streghe impegnate in attività oscure. Remake dell'originale Suspiria di Dario Argento del 1977, uno dei capolavori dell'horror italiano adorato da milioni di fans, specialmente all'estero dove ha sempre avuto più successo che in Italia. Fin da quando Luca Guadagnino ha annunciato questo progetto il tam tam mediatico della rete si è scatenato con commenti di preoccupazione, risentimento o addirittura indignazione nei confronti di questo rifacimento "oltraggioso". Diciamo subito, a scanso di equivoci, che questo film non è un remake vero e proprio ma piuttosto un personale omaggio all'originale di Dario Argento, che si discosta totalmente da esso fin dall'inizio, sia stilisticamente sia nel senso e sia per la storia che viene raccontata. Stavolta tutto è chiaro fin da subito, d'altra parte la trama di Suspiria è arcinota e quindi sarebbe stato fuori luogo mantenere un mistero che non è tale. Gli intenti di Guadagnino sono ben altri, l'orrore è più che altro interiorizzato ed il cuore dell'opera ha a che fare con tematiche come il potere, il rimorso, la fascinazione diabolica, la manipolazione e la scoperta di sè stessi. Declinando tutto questo al femminile si riflette, non sempre lucidamente, sul male e la sua seduzione, oscillando tra storia e mitologia, con un apparato simbolico altalenante nella sua resa espressiva. Dal punto di vista tecnico ed estetico è un film eccellente, molto curato e rifinito, con delle atmosfere lugubri e una fotografia autunnale che ammicca al cinema di Fassbinder degli anni '70, anche per la caratterizzazione di alcuni personaggi femminili, sospesi tra forza e fragilità e pervasi da un ineluttabile e tragico senso di morte. E' parimenti notevole anche il montaggio e le ambientazioni, così come sono interessanti i parallelismi tra arte e magia, orrore storico (il nazismo e i suoi "germi" postumi) ed orrore esoterico. Forse sarebbe stato il caso di approfondirli meglio, visto che il regista palermitano aveva optato, coraggiosamente, per un approccio creativo e non calligrafico, dimostrando, con spiccata personalità artistica, di voler andare ben oltre il film originale. Peccato però che tutto naufraghi in un finale imbarazzante che sfiora il ridicolo involontario, e non tanto per il twist (invero non proprio inatteso) che modifica l'epilogo del film di Argento, ma proprio per la maldestra realizzazione dello stesso. Quello che doveva essere il climax dell'opera (ed il suo vertice horror) appare invece come una grossolana fiera grand guignol del kitsch, con effetti visivi scadenti, caratterizzazioni goffe, truculenze da b-movie e dialoghi risibili. Altri evidenti problemi sono nel cast: se Tilda Swinton (che fa addirittura tre ruoli diversi) è, come al solito, impeccabile, le dolenti note arrivano dalla protagonista Dakota Johnson che è insipida, inadeguata e poco credibile per un ruolo del genere, un miscasting clamoroso che danneggia ulteriormente il film. E le musiche di Yorke sono non pervenute, sarebbe impietoso anche solo pensare di paragonarle all'iconica soundtrack dei Goblin, magistrale esempio di "pervasione immersiva". Insomma un film poco equilibrato, troppo lungo, privo di sequenze iconiche e con troppe ridondanze che lo appesantiscono inutilmente, segno di troppo amore o di troppa megalomania, probabilmente entrambe le cose, conoscendo il regista.
 
Voto:
voto: 3/5

venerdì 19 marzo 2021

Bohemian Rhapsody (2018) di Bryan Singer

Biografia romanzata dei primi 15 anni di carriera di Farrokh Bulsara, al secolo Freddie Mercury, e della rock band di cui fu mattatore e leader indiscusso fino alla sua morte prematura: i Queen. Si parte dagli inizi stentati nei sobborghi londinesi di quest'estroso immigrato di etnia parsi, a cui stanno fin troppo strette le rigide tradizioni di un ambiente familiare opprimente e di una condizione sociale umile che tarpa le ali del suo fuoco artistico, pronto ad esplodere come un vulcano. E poi l'incontro fatidico con gli altri membri del gruppo, che lo assoldano subito come cantante, i primi successi, i primi contratti discografici, fino ad arrivare al top della scena musicale mondiale grazie ad una lunga serie di hits popolarissime, molte delle quali appartengono all'antologia del rock. E ancora i comportamenti eccessivi e smodati, gli enormi appetiti (omo)sessuali, gli scandali e la nascita di quello stile unico e inconfondibile che fece di Freddie Mercury il più grande front-man della scena musicale, un trascinante "animale" da palcoscenico capace di coinvolgere ed entusiasmare il pubblico come nessun altro. La chiusura è con la scoperta della terribile malattia (l'AIDS) che lo porterà alla morte dopo 6 anni e con la leggendaria interpretazione al Live Aid del 1985, tenutosi al Wembley Stadium di Londra davanti a oltre 70 mila persone e da molti ritenuta come una delle migliori performance dal vivo di tutti i tempi. Il progetto di un biopic sulla straordinaria vita e carriera di Freddie Mercury si è avviato fin dal 2008, sponsorizzato, approvato e "vigilato" dagli stessi Queen, in particolare dal chitarrista Brian May, il "vice leader" del gruppo. Ma la gestazione è stata lunga e travagliata per due motivi in particolare: la scelta dell'attore che avrebbe dovuto affrontare l'onore/onere di interpretare un simile mito ed il taglio da dare alla pellicola per quanto concerne i lati oscuri della vita di Mercury: i festini selvaggi a base di droga e sesso sfrenato, gli atteggiamenti sempre provocatori e sopra le righe, l'egocentrismo maniacale, la trasgressione programmatica, i capricci bizzarri, la gestione non proprio "limpida" della sua terribile malattia. Dopo svariate traversie e vari avvicendamenti di diversi registi, sceneggiatori e attori protagonisti, l'approvazione è stata data al navigato Bryan Singer, come timoniere dietro la macchina da presa, ed al giovane talento emergente Rami Malek (americano di origine egiziana) come interprete del mito Freddie Mercury. Ovviamente l'ingerenza ingombrante dei Queen sulla direzione artistica dell'opera non poteva che ingabbiarne la libertà, il coraggio, lo spirito creativo e "scandaloso", ovvero proprio tutte quelle caratteristiche tipiche del personaggio Mercury, che contribuirono non poco alla sua grandezza e che lo hanno reso, insieme al genio ed al talento musicale, quello che è, nell'immaginario collettivo e nella storia del rock. Il risultato finale è quindi un film tecnicamente impeccabile, ben recitato e con un gran ritmo, ma anche pavido, ruffiano, bozzettistico, politicamente corretto, fin troppo attento ad evitare tutte le "trappole" dei lati in ombra del protagonista, limitandosi a sfiorarli, e costruito minuziosamente per piacere "a tutti". Ovvero al grande pubblico e all'Academy Awards. I momenti migliori, naturalmente, sono quelli musicali e soprattutto per merito dei successi dei Queen (che fanno sempre il loro bell'effetto nostalgia), con l'apice emotivo (tanto efficace quanto scaltro) nei 20 minuti finali del concerto del Live Aid, in cui è obiettivamente impossibile non lasciarsi andare e battere il piede a tempo sulle famose note della band britannica. Manco a dirlo il film ha avuto uno straordinario successo al box office mondiale ed ha vinto 4 Oscar: Rami Malek miglior attore protagonista (anche se ovviamente canta in playback sulla voce originale di Mercury), miglior montaggio, miglior sonoro e miglior montaggio sonoro. Ma il cinema (quello vero) è un'altra cosa e una figura come quella di Freddie Mercury avrebbe meritato qualcosa di ben più profondo, originale, sofisticato, sottile, sfrontato e "maledetto". E non certo per offenderne la memoria ma, piuttosto, per riaffermarne la grandezza assoluta di artista che ha segnato un'epoca, con tutte le contraddizioni e le debolezze dell'uomo.
 
Voto:
voto: 3/5

Diabolik (1968) di Mario Bava

Per compiacere la sua donna, la sexy Eva Kant, l'inafferrabile ladro in costume Diabolik, soprannominato "re del terrore", ruba una preziosa collana di smeraldi, ridicolizzando la polizia ed il suo rivale di sempre, il tenace ispettore Ginko. Disposto a tutto pur di acciuffarlo, il poliziotto stringe un patto segreto con Valmont, potente boss della malavita senza scrupoli, che rapisce Eva per cercare di stanare il rapinatore mascherato. Ma Diabolik ne sa una più del diavolo e la sua vendetta sarà puntuale. Dal popolare fumetto "nero" creato dalle sorelle Giussani, che fu un grande successo editoriale negli anni '60 e '70, il Maestro Mario Bava ha tratto un adattamento stilisticamente magistrale e di grande impatto visivo, perfetta fusione di genialità psichedelica, abilità artigianale ed atmosfere "pop art". Bava senior è stato senza alcun dubbio (insieme a Sergio Leone) il "padre" più autorevole del cinema di genere italiano e di tutta quella creatività furiosamente incontrollata che diede vita ad una miriade di film nel ventennio 1960-1979, facendo registrare enormi incassi al botteghino e sfornando alcuni capolavori destinati a rimanere nel tempo. Prodotto da Dino De Laurentiis, che si era assicurato i diritti sul personaggio e che volle affidare la regia a Mario Bava per il suo risaputo talento pragmatico nella realizzazione degli effetti speciali, Diabolik è un grande film di stile, tutto costruito sulla geniale capacità del suo regista di improvvisare, di fare di necessità virtù, ottenendo risultati strabilianti nonostante i pochi mezzi a disposizione. In tal senso è rimasto celebre l'aneddoto della faccia sbalordita dell'attore protagonista John Phillip Law, che era solito lamentarsi dei set troppo spartani ricostruiti in studio, quando vide per la prima volta il risultato del girato della famosa caverna di Diabolik (la tana sotterranea super tecnologica del re del crimine). Tutto quello che vediamo sullo schermo fu ottenuto da Bava con espedienti semplici quanto efficaci, ad esempio applicando sull'obiettivo fondali dipinti o fotografie trasparenti impresse su vetri. Alla sua uscita in sala la pellicola fu un flop assoluto, snobbata da pubblico e critica. Piacque molto solo ai francesi, in particolare fu lodata con entusiasmo dai soliti Cahiers du cinéma, che di cinema ne sanno sempre un po' di più della media. Negli anni successivi è stata poi costantemente rivaluta e sempre più apprezzata (esattamente come accaduto per il suo regista), e oggi viene unanimemente riconosciuta come un cult assoluto e una piccola "perla" del nostro cinema di genere. Un invidiabile modello della capacità (tutta italiana) di improvvisare, arrangiarsi e ottenere tanto dal poco, unendo genio creativo e spudoratezza realizzativa. Oltre all'aspetto tecnico sontuoso, tra cui ricordiamo anche le musiche di Ennio Morricone, parimenti il cast è di alto livello: con John Phillip Law, Michel Piccoli, Adolfo Celi, Renzo Palmer e la bellissima Marisa Mell, attrice austriaca che prese il posto di Catherine Deneuve (non gradita al regista) e divenne in breve un volto assai noto del cinema nostrano di quel periodo. Negli USA, dove fu distribuito col titolo "Danger: Diabolik", il film fu generalmente più apprezzato fin da subito rispetto al nostro paese. Non a caso Mario Bava è stato pubblicamente "sdoganato" anche grazie all'opera perseverante di molti registi e cinefili d'oltre oceano. I Manetti Bros. hanno appena finito di girare una nuova versione di Diabolik, che dovrebbe uscire nel 2021, con Luca Marinelli e Miriam Leone.
 
Voto:
voto: 4/5

giovedì 18 marzo 2021

Twin Peaks: il ritorno (Twin Peaks: The Return, 2017) di David Lynch

8 aprile 1990: una data storica. Negli Stati Uniti viene trasmesso Passaggio a Nord-Ovest, l'episodio "pilota" della serie televisiva Twin Peaks, ideata da David Lynch e Mark Frost e diretta dallo stesso Lynch. Per le sue atmosfere inquietanti, i suoi toni oscuri, i paesaggi indimenticabili, il fascino visivo, lo stile ipnotico, la potenza delle immagini e la perfetta commistione tra il thriller, il fantastico, il mistery, il grottesco e l'horror soprannaturale, la serie divenne subito un fenomeno mondiale, un oggetto di culto, una fonte di curiosità e discussioni, cambiando per sempre le regole dei film seriali per la TV e dando inconsapevolmente inizio al moderno concetto di serial televisivo, quello che oggi spopola sulle piattaforme di streaming. Originale, ermetica, ammaliante e unica nel suo genere, la serie è stata modello di riferimento e motivo di ispirazione per tantissimi prodotti televisivi successivi, molti dei quali di indubbia eccellenza. Dopo due stagioni e 30 episodi, lo show si interruppe bruscamente nel 1991 per divergenze creative tra Lynch e la produzione, con un finale beffardo e memorabile che lasciò gli innumerevoli fans annichiliti e "disperati". Per comprendere la portata del fenomeno basti dire che chiunque fosse quanto meno adolescente nel 1990, avrà sicuramente sentito pronunciare la fatidica domanda tormentone "chi ha ucciso Laura Palmer?". Nel maggio 2017, dopo una interminabile attesa di quasi 26 anni, è uscita in tutto il mondo la terza stagione della serie evento, ancora con i medesimi autori al timone, David Lynch in cabina di regia e quasi tutto il cast originale tornato al completo per l'occasione. In questo blog di cinema non ho mai recensito, finora, film televisivi. Ma, per un'occasione così importante, e praticamente unica nel suo genere, mi sembra inevitabile (e doveroso) uno strappo alla regola. D'altra parte non credo sia azzardato voler considerare l'insieme dei 18 splendidi episodi di "Twin Peaks: il ritorno" come un unico lungo film di 17 ore, da godere come un'esperienza, un viaggio onirico, stimolante, enigmatico, un tuffo nel passato ma anche un'alienante visione del futuro. Perchè chi conosce i labirinti psicologici delle opere di Lynch sa perfettamente che è facile, inevitabile, ma anche bellissimo, smarrirsi, alla ricerca di coordinate di tempo, di luogo e di azione, in un continuo slittamento dei piani narrativi (e meta-narrativi) tra "sogno" e "realtà". E' ovviamente impresa ardua provare a raccontare in poche righe la trama di un'opera così ampia e complessa, in cui il geniale autore del Montana ha riversato (nuovamente) tutte le sue ossessioni, i suoi incubi, i suoi stilemi, i suoi marchi di fabbrica, ma riuscendo (incredibilmente) a spingersi ancora un gradino più in là, sollevando di nuovo un tantino l'asticella e creando un nuovo straordinario modello di riferimento per l'arte visiva a venire. La vicenda riparte esattamente 25 anni dopo gli eventi narrati nell'ultimo episodio della seconda stagione (l'incancellabile "Oltre la vita e la morte"), facendo così coincidere (non a caso?) il tempo reale con quello della fiction: l'agente Dale Cooper è ancora imprigionato nella Loggia Nera, mentre il suo doppio malefico (posseduto da BOB) è a piede libero nel nostro mondo dove ha messo in piedi una sfilza di attività criminose. Con l'aiuto di MIKE, Cooper riesce a fuggire dalla Loggia, con il compito di catturare BOB e farlo tornare al suo sito di appartenenza, ma il viaggio interdimensionale avrà degli imprevisti effetti collaterali: Cooper viene scambiato con un altro suo doppelgänger, Dougie Jones, mite assicuratore di Las Vegas, ma perde del tutto la memoria e finisce in uno stato confusionale, diventando una sorta di idiota imbambolato, guidato però da provvidenziali visioni inviate dalla Loggia. "Bad Cooper", che ha capito l'antifona, si mette subito in azione per eliminarlo ma, intanto, sulle sue tracce ci sono gli agenti speciali FBI Gordon Cole e Albert Rosenfield, messi all'erta da una serie di inquietanti avvenimenti che sembrano riportare agli eventi avvenuti 25 anni prima a Twin Peaks. E con loro ci sarà pure una vecchia conoscenza di Dale Cooper. La terza stagione di Twin Peaks allarga enormemente i suoi confini, non solo geografici, con una gran varietà di ambientazioni, di situazioni, di sottotrame, di personaggi vecchi e nuovi, di creature soprannaturali, pur mantenendo intatto lo spirito, il tono e le atmosfere degli episodi originali. Ed ogni tuffo nel passato, visivo, musicale o emotivo, è un autentico tocco al cuore di tutti i fans della serie. Esteticamente curatissimo, visivamente stupefacente e decisamente più maturo, corale, complesso, crudele, violento e stravagante delle vecchie stagioni, questa nuova edizione può essere giustamente considerata l'opera omnia dell'intera carriera di David Lynch, quella in cui ha avuto campo libero e nessun freno ostativo da parte della produzione (una franchigia finalmente meritata), realizzando così il compendio definitivo della sua arte e dei suoi visionari tormenti. Innumerevoli sono le sequenze memorabili e i momenti cult. Sarebbe troppo facile citare il magistrale episodio 8, praticamente un film muto in bianco e nero che ci mostra la cosmogonia del Male attraverso una lunga serie di immagini indimenticabili, angoscianti ed oniriche. A tutti gli effetti un film nel film, e anche qualcosa di mai visto prima. E così come innumerevoli saranno le elucubrazioni cervellotiche dei fans nel tentativo di decifrare un finale ancora più ambiguo, spiazzante e beffardo di quello del 1991. Lo sberleffo supremo di Lynch, che ha saputo regalarci un nuovo intricato incubo in cui perderci, come al solito estasiati e raggelati al tempo stesso. Forte anche di un cast sopraffino in cui tutti (anche i fugaci caratteristi) sono bravissimi ed incredibilmente incisivi, questo Twin Peaks 2017 rappresenta l'ennesima pietra miliare dell'arte audiovisiva targata Lynch. Da vedere e rivedere più volte trovandoci ogni volta nuovi spunti, nuovi tranelli, nuove sensazioni, nuovi simbolismi, nuovi incubi. E più che arrovellarci a capire se questo sia il passato o il futuro, se ci troviamo al di là o al di qua della "quarta parete" o chi sta sognando chi, è ben più importante sgomberare la mente, abbandonarsi senza freni inibitori e perdersi nel piacere del "viaggio". Un nuovo entusiasmante "viaggio", forse il più bello di tutti, del sognatore David Lynch.
 
La frase: "Noi siamo come il sognatore, che sogna e poi vive all'interno del sogno. Ma chi è il sognatore?

Voto:
voto: 5/5

mercoledì 17 marzo 2021

John Wick 3 - Parabellum (John Wick: Chapter 3 - Parabellum, 2019) di Chad Stahelski

Scomunicato dalla Gran Tavola (il governo occulto del crimine mondiale), con una taglia plurimilionaria sulla testa e con i peggiori assassini di New York che gli danno la caccia, John Wick si trova solo contro tutti a combattere per la sua vita fino all'ultimo sangue. Un'impresa che appare disperata anche per un super killer come lui. Il terzo capitolo della saga action crime iniziata in sordina, senza troppe aspettative, nata quasi come una sorta di divertissement, è senza dubbio l'episodio migliore, il più divertente, il più appassionante, il più stupefacente dal punto di vista visivo. Quello che sancisce il definitivo stato di cult per il franchise dell'assassino solitario vestito di nero e lo spinge in una suggestiva dimensione che oscilla tra il fumetto, il noir surreale ed il cinema d'azione di Hong Kong. Tutti gli elementi che hanno decretato il successo dei precedenti capitoli, qui vengono spinti all'estremo, pur rimanendo ben amalgamati: l'estetizzazione della violenza, le coreografie dei duelli, l'accostamento anacronistico di elementi vintage in ambienti tecnologici, la creazione di un universo oscuro e seducente che vira verso il mitico, l'ironia straniante, l'energia frenetica, il tocco leggero e mai serioso che pervade l'intero progetto. E, dulcis in fundo, l'estrema ricercatezza estetica che lo rende una vera gioia per gli occhi: dalla fotografia dai colori "elettrici" alla suggestiva illuminazione degli ambienti, creando più di una sequenza "magica" destinata a rimanere nella memoria. Niente male per quello che è, e non pretende di essere nient'altro che, un b-movie d'azione iperbolica. E finalmente, in quello che ormai sembra assomigliare sempre più ad un serial cinematografico, iniziamo anche a scoprire qualcosa sul misterioso passato del protagonista. Al consueto cast d'ordinanza, ormai collaudato, si uniscono felicemente Halle Berry, Anjelica Huston, Mark Dacascos e Asia Kate Dillon. E tutti in ruoli iconici. Il film ha incassato più di 300 milioni di dollari al box office mondiale ed ha riscosso consensi pressoché unanimi da parte della critica. Ovviamente il quarto capitolo è già in lavorazione. Ma sarà difficile far meglio.

La frase: "Si vis pacem, para bellum"

Voto:
voto: 4/5

John Wick - Capitolo 2 (John Wick: Chapter 2, 2017) di Chad Stahelski

Secondo capitolo delle truci avventure del killer John Wick, che non riesce proprio ad uscire dal giro criminale e starsene tranquillo nella propria casa. Stavolta viene tirato di nuovo in ballo dal giovane gangster rampante Santino D'Antonio che vuole scalzare la sorella dal comando della camorra italiana e quindi contatta il nostro antieroe per commissionarne l'omicidio. John non intende accettare ma sarà costretto dagli eventi e da un vecchio pegno d'onore contratto con il viscido italiano. Una volta sbarcato a Roma il sangue scorrerà nuovamente a fiumi e tutti i limiti saranno superati. Visto l'inatteso successo del primo film era quasi inevitabile che venisse dedicato un franchise al tenebroso e letale killer newyorkese interpretato da Keanu Reeves, che parla poco e spara molto. Si viaggia sulla falsa riga del predecessore, con più azione, più massacri, più personaggi ed una maggiore varietà di ambientazioni, impreziosite dalla bellezza delle location romane. Nonostante l'ottimo riscontro al botteghino, ancora superiore rispetto al capitolo uno, va però detto che ci troviamo di fronte ad un film meno riuscito, che ragiona più per accumulo di sequenze spettacolari che per una reale (e meno che mai originale) idea narrativa o stilistica. Ci si deve quindi accontentare di qualche lampo di luce riflessa, anche se vengono posti dei nuovi importanti tasselli per consolidare l'affascinante universo di quest'ordine criminale segreto gestito da un'unica organizzazione onnipotente (la Gran Tavola) e regolato da leggi efferate ed antichi codici tribali, dal gusto esoterico. Squadra che vince non si cambia e quindi ecco il ritorno del cast al completo, a cui si aggiunge il carismatico Laurence Fishburne (che torna a far coppia con Keanu Reeves dopo la trilogia di Matrix), l'australiana Ruby Rose ed i nostri Riccardo Scamarcio e Claudia Gerini, che, manco a dirlo, costituiscono l'anello debole della catena. Rispetto alla pellicola precedente qui si vira più decisamente verso il videogame, con un costante aumento del glamour e dell'ironia, a fare da effetto lenitivo per l'incessante azione violenta. Per chi ha apprezzato il precursore il divertimento sarà comunque assicurato.

Voto:
voto: 3/5

martedì 16 marzo 2021

John Wick (2014) di Chad Stahelski

John Wick è un formidabile killer professionista, da tutti temuto e rispettato, che si è ritirato da anni a vita privata per sposare la bella Helen e condurre un'esistenza normale ed appartata. Ma i suoi progetti vengono rovinati prima dall'improvvisa morte della moglie, stroncata da un male incurabile, e poi dall'incontro con una banda di teppisti russi che gli rubano la macchina e gli uccidono il cane, l'ultimo regalo della sua amata. Per nulla intimorito dalla scoperta che l'odioso capo della gang che lo ha assalito è il figlio di un super boss della malavita russa, John decide di percorrere la sanguinosa strada della vendetta, riprendendo le armi e le vecchie abitudini. Sarà un massacro. Pellicola d'esordio dell'ex stuntman Chad Stahelski, è un crime d'azione iper-violento, teso, esagitato ed esagerato che, ignorando baldanzosamente ogni pretesa di credibilità, preferisce lo stile alla sostanza tratteggiando un mondo underground fatto di crimini e di criminali, in cui o uccidi o sarai ucciso. A dispetto di un impianto narrativo esile, dei dialoghi ridotti all'osso, delle situazioni ricche di tutti i cliché del genere e di un inevitabile senso di deja-vu, il film possiede un'anima da b-movie energicamente esibita e sa dispensare intrattenimento, patos e fascino visivo, nella rappresentazione di un universo ammaliante che oscilla tra il glamour e il mitologico, sullo sfondo di una New York cupa e degradata. Girato con un budget irrisorio, ha avuto ottimi riscontri di critica e di pubblico, incassando cinque volte di più e venendo subito eletto come un cult del secondo decennio degli anni 2000. Inevitabili i seguiti (finora due, ma il quarto è già in cantiere) alla luce dei risultati ottenuti. Nell'ottimo cast, che annovera Ian McShane, Lance Reddick, John Leguizamo e Bridget Moynahan, Keanu Reeves è perfetto nel ruolo del protagonista: schivo, silenzioso e tormentato, che si esprime al meglio attraverso le armi, "bianche" o da fuoco, e il combattimento corpo a corpo; una sorta di "angelo della morte" metropolitano, che fa ciò che fa (uccide) non per piacere, per sadismo o per avidità, ma perchè sa farlo meglio di chiunque altro. Grazie alla saga di John Wick l'attore canadese ha conosciuto una seconda "giovinezza" artistica, rilanciando prepotentemente la sua carriera dopo un decennio di anonimato. Nel panorama ormai abusato e inflazionato dei film action d'oltre oceano, innocui e fatti col "copia e incolla", questa robusta pellicola di Chad Stahelski riesce, sorprendentemente, a trovare un suo perchè, pur senza brillare in originalità. I fans del cinema d'azione violenta ci andranno in brodo di giuggiole.

La frase: "John non era esattamente l'Uomo Nero. Era quello che mandavi a uccidere il fottuto Uomo Nero. John è concentrazione pura, impegno totale e volontà ferrea... qualcosa che tu, figlio mio, non sarai mai. Una volta l'ho visto uccidere tre uomini... con una matita. Una cazzo di matita!"

Voto:
voto: 3,5/5

giovedì 29 marzo 2018

La tenerezza (La tenerezza, 2017) di Gianni Amelio

Lorenzo è un anziano avvocato napoletano scampato ad un infarto, vedovo e con due figli adulti, Elena e Saverio, da cui si è allontanato da un pezzo. Uomo burbero e solitario, sgualcito dalla vita, spigoloso nel carattere e con più di un'amarezza nel cuore, Lorenzo intrattiene un rapporto sincero solo col piccolo nipote Francesco e con la giovane vicina Michela, ragazza solare e un po' infantile che sembra trovare in lui il padre che non ha avuto. L'uomo si avvicina sempre di più alla famiglia di Michela, composta da due vivaci bambini e dal marito Fabio, ingegnere del nord Italia che sotto l'apparenza tranquilla nasconde angosciosi tormenti interiori. Una tragedia inattesa cambierà radicalmente le loro vite. Liberamente tratto dal romanzo "La tentazione di essere felici" di Lorenzo Marone, il dodicesimo lungometraggio di Gianni Amelio è un malinconico dramma introspettivo sulla solitudine e sulla difficoltà di stabilire una reale comunicazione nei rapporti familiari. Scritto benissimo e recitato ancora meglio da un cast eccellente che trova in Renato Carpentieri, Micaela Ramazzotti ed Elio Germano i suoi punti forti, questo film sincero, disarmante e quietamente struggente ha il rigore severo di una dolente autoconfessione morale e la pudica amarezza di un ritratto antropologico di travaglioso disincanto e lucido realismo. Ambientato in una Napoli borghese e autunnale, lontanissima dagli stereotipi da cartolina o di malaffare a cui siamo abituati, è un'opera asciutta e sommessa, mai urlata e mai enfatica, abilissima nel filtrare ogni ruffianeria sentimentale in favore di una finissima sobrietà emotiva. Raffinato e composto anche nelle sequenze più drammatiche, l'autore accompagna i suoi personaggi mettendosi al loro fianco e senza mai giudicarli, regalandoci dialoghi secchi e taglienti, lampi poetici ed un senso di dolorosa umanità che pervade la pellicola in tutte le sequenze. Più delle parole contano i silenzi, gli sguardi, i gesti, le espressioni e il linguaggio del corpo, in questo metaforico viaggio umano che ruota intorno al concetto di famiglia (perduta, idealizzata, disgregata e vagheggiata), procedendo per progressivi sfasamenti emotivi. Il personaggio di Lorenzo, centrale e periferico al tempo stesso, complesso e profondo nella sua problematica ricchezza di sfumature e imperfezioni, è uno dei più intensi che il cinema italiano ha saputo regalarci negli ultimi anni. Assolutamente magistrale l'interpretazione, sofferta e toccante, del caratterista campano Renato Carpentieri che qui ha trovato il ruolo della vita, riuscendo finalmente a meritarsi quel risalto da protagonista che meritava da tempo. Quasi obbligatorio per lui l'inevitabile riconoscimento del David di Donatello come miglior attore italiano 2017. La sequenza finale ambientata nel grande spazio aperto del Centro Direzionale, potente e silenziosa, è l'emblema perfetto di questo film teneramente violento che procede austero sul non banale percorso della sottrazione emozionale.

Voto:
voto: 4/5

venerdì 23 marzo 2018

Un sogno chiamato Florida (The Florida Project, 2017) di Sean Baker

Nell'estrema periferia di Orlando (Florida), a due passi da Disneyland, sorge un motel alveare a due piani chiamato Magic Castle, tanto sgargiante nella sua vivace colorazione lilla quanto modico nei prezzi e per questo meta prediletta di sbandati senza fissa dimora che tirano a campare. Qui vivono Moonee e i suoi inseparabili amici, Scooty e Jancey, tre bambini esuberanti e discoli, piccole pesti capaci di trasformare, con la forza gioiosa della fantasia infantile, una realtà di quotidiano squallore nel loro personale regno incantato. Halley, giovane madre di Moonee, è una "smandrappata" inquieta senza un lavoro fisso, tutta tatuaggi e cattive maniere, che sopravvive alla giornata in bilico sull'insidioso crinale dell'illegalità. In questo microcosmo miserabile di umano degrado, fatto di donne senza uomini prese a schiaffi dalla vita, che fanno quello che possono per garantire ai figli un'esistenza dignitosa, la figura di riferimento è Bobby, manager factotum del motel, operoso e autoritario ma non privo di senso della giustizia e compassionevole umanità. Il sesto lungometraggio di Sean Baker (che realizza con esso il suo film migliore) è un lucido ritratto del sottoproletariato statunitense, qui rappresentato dagli homeless "invisibili" che brulicano nascosti in dozzinali motel a basso costo, anime perse bandite dal sogno americano e mortificate dalla crisi economica esplosa nel 2008, inevitabilmente sospese tra resilienza e disperazione, speranza e dannazione, purgatorio e inferno. Il "paradiso" è proprio lì dietro l'angolo, rappresentato da quel grande parco Disney dei divertimenti che è il simbolo materiale di tutti i sogni promessi dalla grande madre America. Eppure è al tempo stesso lontanissimo, perchè la sua luce non illumina il grigiore quotidiano dei reietti protagonisti del film, fantasmi sgraditi e sgradevoli, scarti indecorosi del capitalismo di cui devono dividersi faticosamente le briciole, azzannandosi tra loro. Tra commedia e dramma, tenerezza e durezza, realismo e fiaba, euforia e tragedia, l'autore mette a segno uno dei più intensi e riusciti affreschi sul mondo dell'infanzia visti al cinema nell'ultimo decennio. Attraverso il punto di vista dei piccoli protagonisti veniamo immersi in questo universo colorato e grottesco, ricco di stridenti contrasti e di aspre contraddizioni, una favola adulta amara e toccante che scorre lenta e frammentaria, senza risparmiarci i momenti di noia proprio come nella vita, per poi sublimarsi nel meraviglioso finale che scalda il cuore e inumidisce gli occhi senza neanche un'oncia di ruffianeria o di pietismo. Straordinario il lavoro di direzione di un cast eccellente, in cui l'unico attore professionista è un emozionante Willem Dafoe nel ruolo di Bobby,  meritatamente candidato all'Oscar come miglior attore non protagonista. Brave e credibili anche la piccola Brooklynn Prince (Moonee) e l'esordiente Bria Vinaite, reclutata su Instagram per il ruolo cruciale di Halley, donna volgare e dissoluta ma anche madre amorevole e giocosa. Il magico potere dell'immaginazione infantile è il filo di Arianna per attraversare questo triste labirinto di miseria morale, solo aggrappandosi saldamente ad esso si può continuare a lottare e a sperare, nonostante tutto. Proprio come l'albero preferito di Moonee, che è la figura metaforica più riuscita del film: un albero caduto che però continua a crescere.

Voto:
voto: 4/5