martedì 5 agosto 2014

L'uomo che non c'era (The Man Who Wasn't There, 2001) di Ethan Coen, Joel Coen

Ed Crane è un uomo annoiato e di poche parole, che lavora come barbiere e si lascia trascinare stancamente dall’inerzia di una vita incolore e poco gratificante. Sua moglie Doris lo tradisce con il comune amico “Big Dave” ma Ed finge di non vedere, per vigliaccheria e per quieto vivere. Ma un giorno il miraggio di un cambiamento di vita lo invoglia a cedere alle lusinghe di un sedicente imprenditore: per entrare nel business del lavaggio a secco egli decide di ricattare “Big Dave”, per ottenere la somma di denaro di partenza. La tragedia è dietro l'angolo. L’uomo che non c'era è un immenso omaggio dei fratelli Coen al loro genere preferito: il noir. Dopo averlo parodiato e preso in giro nel brillante Il grande Lebowski, i Coen gli dedicano questo atto d’amore raffinato ed elegantissimo, che costituisce, per rigore formale e tecnica stilistica, un esempio di rara bellezza nel cinema contemporaneo. Ispirandosi ai grandi classici del passato, come James M.Cain per sceneggiatura ed atmosfere o Fritz Lang e Billy Wilder per lo stile visivo, i due fratelli del Minnesota scelgono di ricalcare i canoni tipici del noir anni ’40 e ‘50: una storia molto complessa, lenta nel ritmo e ben sviluppata, dei personaggi caratterizzati in modo perfetto, un antieroe cupo e silenzioso i cui pensieri fanno da “voce” narrante ed una splendida e suggestiva fotografia in uno sgargiante bianco e nero. Dal punto di vista tecnico questo film è un prezioso gioiello, non solo per i toni desaturati, assolutamente perfetti per raccontare una vicenda così oscura e priva di speranza, ma anche per le efficaci tecniche di illuminazione, per le particolari angolazioni di ripresa (specialmente nelle inquadrature del protagonista) e per un uso sapiente dei carrelli e dello slow motion. E’ una pellicola silenziosa, malinconica e dimessa nei toni, proprio come il personaggio di Ed (Billy Bob Thornton), molto pensata, ma di enorme valenza drammaturgica implosiva. In essa i personaggi si muovono come guidati dai sottili fini di un destino ineffabile, che ne evidenzierà i limiti e le miserie e li condurrà verso un baratro che appare inevitabile. Il tema dominante del film, sempre mostrato in soggettiva attraverso lo sguardo del protagonista, è la demitizzazione del sogno americano e dell’American way of life, che avviene con un'intelligente alternanza di toni sottilmente ironici e tragici. Anche il contesto sociale di sfondo è perfettamente tratteggiato, sempre secondo i canoni del noir classico, grazie ad elementi tipici come la piccola provincia americana, il razzismo, il racket del gioco, i locali scuri e fumosi, le aule di tribunale o le varie manie della fine degli anni ’40, epoca in cui è ambientata la vicenda. A parte quelli più evidenti e già citati in precedenza gli omaggi al grande Cinema classico si sprecano: dall'ambientazione nella piccola cittadina californiana di Santa Rosa (Hitchcock), alla procace lolita "Birdy" (Kubrick) di cui l'abulico protagonista s'invaghisce. E se ne potrebbero citare ancora altri a Il postino suona sempre due volte (1946) di Tay Garnett, La fiamma del peccato (1944) e Viale del tramonto (1950) di Billy Wilder. Ma i due grandi registi non si limitano alle dotte rivisitazioni, ma, come al solito, ci regalano una sceneggiatura solida e rigorosa, un punto di vista in soggettiva che dona al film un malinconico senso di penombra e dei virtuosismi tecnici veramente pregevoli. Un enorme esercizio di stile ed un accorato omaggio al noir classico. Assolutamente imperdibile, nonostante la sua connotazione tipicamente “di genere”.

Voto:
voto: 4/5

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