martedì 5 agosto 2014

Dogville (Dogville, 2003) di Lars von Trier

Negli anni '30, durante la grande depressione, Grace, una giovane fuggiasca bella e misteriosa, giunge a Dogville, piccolo e isolato paese sulle montagne Rocciose. Con l’aiuto del giovane Tom, invaghitosi di lei, Grace viene accettata, sebbene dopo molte reticenze, dalla piccola bigotta comunità. Ma quando si viene a sapere che la donna, in evidente fuga da qualcosa, è ricercata, le cose cambiano radicalmente e gli abitanti del paese iniziano un terribile  “gioco” di umiliazione fisica e sfruttamento sessuale, nei confronti della straniera, in cambio del loro silenzio. Ma Grace non è così debole come potrebbe apparire e nasconde un oscuro passato. Primo film di una trilogia dedicata agli Stati Uniti, Dogville è un crudo, impietoso apologo sulla meschinità e sulla cattiveria umana. Come lo fu Kubrick, anche von Trier è assolutamente pessimista in merito alla natura umana, egli non ha nessuna fiducia nell’uomo e lo dimostra chiaramente nei suoi film, dove il confine tra bene e male è sempre labile, e dove la “catarsi” si traduce quasi sempre in spietata vendetta o solenne ingiustizia. Una frase perfetta per sintetizzare questo film sarebbe “Homo homini lupus”. Diviso in un prologo e nove capitoli e con evidenti influenze brechtiane, Dogville ha una struttura teatrale, perchè tutta la vicenda si svolge su una piattaforma dove gli elementi scenici (case, alberi, muri) sono stati rimossi e sostituiti da linee bianche disegnate su un pavimento scuro. Persino il cane, Mosè, è un'inquietante sagoma disegnata a terra, simile a quelle tracciate dalla polizia scientifica sul luogo di un delitto. La via principale di Dogville, Elm Street, non ha traccia di olmi ed in questo "dogmatico" minimalismo scenico noi vediamo gli attori muoversi e interagire con cose che non esistono: aprire o chiudere porte che non ci sono, scavalcare ostacoli invisibili e sentiamo persino abbaiare il cane, che però non si vede (quasi) mai. Tutto viene lasciato alla nostra immaginazione e le riprese a volte fatte dall’alto (forse le uniche senza l’ausilio della camera a mano), ci danno la sensazione di una specie di grande Monopoli su cui si muovono le varie pedine, i personaggi, e si svolgono le vicende, scandite dalla voce fredda e distaccata di un narratore. Dopo un impatto iniziale un po’ ostico, ci si abitua presto a questa singolare messa in scena e, quando la vicenda inizia a decollare, non ci si fa più caso. L'intento è, ovviamente, quello di porre tutto l'accento sui contenuti piuttosto che su altri elementi di "distrazione" ed il minimalismo scenico è in fertile contrasto con l'elevato senso metaforico degli eventi narrati. La ruvida ambiguità dei personaggi è tanto disturbante quanto funzionale alla poetica del regista ed il sontuoso cast (Nicole Kidman, Paul Bettany, Lauren Bacall, James Caan, Ben Gazzara) appare in stato di grazia. Dogville è un paese immaginario, è l’idea che Lars von Trier ha dell’America: un posto apparentemente tranquillo dove tutti lavorano e vivono felici, ma si tratta solo di una facciata di circostanza; dietro un moralismo ipocrita ed un perbenismo bigotto, si nascondono, infatti, le peggiori pulsioni dell’essere umano: invidia, cattiveria, egoismo, prevaricazione, violenza. La “forza” di Dogville è quella del branco, la forza vigliacca ed infida dei molti contro i pochi, dei potenti contro gli umili. Infatti, presi singolarmente, durante il girovagare di Grace di casa in casa nelle fatidiche due settimane iniziali, i suoi abitanti appaiono persone "normali", forse persino capaci di tenerezza. Ma Dogville è anche il simbolo dei mali del mondo, del razzismo, dell’insofferenza e del timore verso coloro che non conosciamo e che ci appaiono diversi, perchè "alieni" alla nostra quotidianità. Il geniale e controverso regista "tiranno" non lesina graffi e crudeltà, ci regala sequenze dolorosamente memorabili (come non citare quella della rottura delle statuine) e mette la sua abituale furia nichilista al servizio di un impianto narrativo indubbiamente a tesi, ma altresì magistrale nel suo ergersi a solenne parabola sul lato oscuro della natura umana. L'inevitabile tragedia finale si sublima negli stupendi titoli di coda, che meritano un plauso ed una citazione a parte: dopo tanta oscura violenza psicologica, l'autore ci mostra, sulle note della splendida "Young Americans" di David Bowie, delle suggestive foto d'epoca dell'altra faccia dell’America: sporca, disperata e derelitta, sguardi attoniti di misera gente sofferente e reietta, ai margini di quel "Sogno" (inganno) che è, evidentemente, agli antipodi rispetto al cinema di Lars von Trier.

Voto:
voto: 4,5/5

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