Nella prima metà del
XVII secolo, al tempo delle violente persecuzioni in Giappone contro la
minoranza cristiana, due giovani gesuiti portoghesi, padre Rodrigues e padre
Garupe, decidono di partire verso la terra del sol levante alla ricerca del
loro mentore, padre Ferreira, sparito nel nulla da molti anni. I due decidono
di sfidare il grave pericolo degli spietati persecutori nipponici (che
intendono eliminare dal loro paese ogni influenza occidentale), non solo per
ritrovare il loro vecchio Maestro religioso ma anche per smentire le voci
infamanti che lo accusano di aver abiurato la fede cristiana e di esser passato
dalla parte avversa. Dal romanzo omonimo di Shûsaku Endô, Scorsese ha tratto un
sontuoso capolavoro, di raggelante potenza visiva e di doloroso struggimento
interiore, realizzando così un suo personale sogno rimasto a lungo nel
cassetto. Il grande regista italoamericano ha infatti pensato a questo film per
circa 25 anni, rimandandone più volte l’attuazione, prima di poterlo finalmente
realizzare. Il tema centrale dell’opera letteraria, ovvero il Silenzio di Dio
di fronte alla sofferenza umana, viene ampiamente sviscerato (e addirittura
esteso) in questo film imponente, austero, teso, tetro, un denso apologo sulla
fede e sul suo significato più recondito. Lineare nella struttura ma
sfaccettato e sfuggente nei sottotesti, è un film cristiano e non catartico, un
affresco problematico e meditabondo, ricolmo di dubbi e di tormenti (fisici ma
soprattutto spirituali), che intende esplorare il cuore intimo della fede, ovvero
il rapporto tra uomo e Dio in termini di patos interiore. Costruito abilmente
come una via Crucis sempre più lacerante, riesce a sintetizzare con soprendente
rigore espressivo una molteplicità di temi di elevato spessore (storia,
politica, religione), mettendo sovente in discussione lo stesso punto di vista trainante
(come già detto trattasi di una pellicola cristiana) e offrendoci anche le
motivazioni della parte avversa, attuando così un fertile relativismo di
giudizio. I confini tra follia e misticismo, evangelizzazione e invasione, intolleranza
e rispetto delle proprie tradizioni, fanatismo e dogma, istinto di
conservazione e codardia, sono, in fondo, molto esili e quest’opera
magniloquente riesce quietamente a percorrere questa sottile linea di
demarcazione, indugiando ora da un lato ora dell’altro del “baratro”, per
mostrarci sprazzi di un abisso (interiore) fin troppo vasto per essere
realmente compreso. Più che alla ragione Silence
parla al nostro animo e al nostro cuore, a quell’essenza ora sublime ora
miserabile che costituisce il nadir della spiritualità umana. Ponendo grandi
domande, ma senza la banale pretesa di fornire risposte, quest’opera monacale e
privata ci illustra un possibile percorso mistico esistenziale e, senza
concedere sconti afflittivi, si erge prepotentemente come un nuovo modello con
cui il cinema a sfondo storico dovrà fare i conti. Dal punto di vista tecnico è
un capolavoro assoluto con la suggestiva fotografia di Rodrigo Prieto, i
plastici movimenti di macchina, le prospettive dall’alto, l’imponente
ricostruzione storico ambientale, le realistiche scenografie e i costumi di Dante
Ferretti e Francesca Lo Schiavo, che letteralmente ci immergono, con feroce
realismo, nel Giappone del 1600. Numerose le sequenze memorabili
(l’agghiacciante prologo con le torture nella caldara naturale, l’arrivo sul
mare nebbioso, il confronto tra Rodrigues e l’Inquisitore buddista), altrettanti
i momenti di volo alto e le citazioni colte al grande cinema d’autore
orientale (Mizoguchi e Kurosawa in primis). Nel cast tra Andrew Garfield, Liam
Neeson, Tadanobu Asano e Adam Driver, i più efficaci sono i giapponesi Issei
Ogata e Yōsuke Kubozuka. Interessante e fonte di non banali riflessioni la
figura del “Giuda” nipponico, eternamente sospeso tra pentimento e debolezza,
opportunismo e rimorso. Il ritorno di Martin Scorsese ai grandissimi livelli artistici
che gli erano abituali è una notizia di cui ogni appassionato di cinema non può
che gioire.
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