mercoledì 8 febbraio 2017

Mine (Mine, 2016) di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro

Mike è un tiratore scelto del corpo dei Marines, inviato in missione nel deserto per eliminare il pericoloso leader di una cellula terroristica islamica. Durante il ritorno al campo base si perde in una tempesta di sabbia e finisce in un campo minato dove il suo compagno trova la morte. Rimasto solo Mike avrà la sfortuna di poggiare il piede su una mina celata sotto la sabbia e non potrà più muoversi, pena il venir dilaniato dall’esplosione del letale congegno. Disperato e spaventato, il nostro dovrà cercare di sopravvivere per due giorni alle terribili insidie del deserto, nell’attesa che i soccorsi riescano a localizzarlo. Angosciante survival movie scritto e diretto dai due esordienti registi italiani (nei credits si firmano come “Fabio&Fabio”) che dimostrano un promettente talento nella costruzione della tensione narrativa e nella capacità di mantenere sempre alta la suspense nonostante l’unità di luogo, l’unità di tempo e la presenza in scena di pochissimi personaggi. Sebbene la situazione estrema non sia propriamente originale (si pensi a No Man's Land di Tanovic o a Buried - Sepolto di Cortés), il film si mantiene teso e coinvolgente per tutta la sua durata, anche grazie alla buona interpretazione di un sorprendente Armie Hammer, che qui probabilmente raggiunge il suo apice recitativo. Ma l’aspetto più stimolante dell’opera risiede nel sottile parallelo tra la dura battaglia psicofisica combattuta dal protagonista (contro fame, sete, paura, caldo, freddo e, non ultime, le belve notturne del deserto) e i suoi conflitti interiori derivati da un traumatico passato, che ha lasciato ferite assai più profonde di quelle causate dalle armi belliche. Ecco quindi che la guerra diventa metafora  di uno scontro inconscio ben più arcano e il deserto si fa allegoria di un’aspra condizione di frustrazione psicologica: il (non) luogo in cui i demoni dell’anima prendono forma. Demoni con i quali si dovrà combattere disperatamente con tutte le proprie forze. Con un sapiente uso dei simboli e con un utilizzo claustrofobico dello spazio, quest’opera di sorprendente spessore va ben al di là del thriller d’azione o del war movie di denuncia (la tragica questione delle mine antiuomo è, ovviamente, centrale ma non è il vero cuore del film). Dove la pellicola diventa maggiormente appassionante, toccando nel profondo l’animo dello spettatore, è nei suoi passaggi interiorizzati, nei momenti onirici in cui la realtà oggettiva si confonde con il mondo interiore del protagonista e nell’intenso confronto tra Mike e il nomade berbero. Un confronto tra due civiltà, tra due culture, tra due modi diametralmente opposti di concepire l’esistenza. Ma queste profonde differenze possono trovare un fugace momento di sincera convergenza in condizioni estreme, stabilendo così un ponte che, per la struttura stessa dell’opera, non può che rivolgersi al subconscio. La stupefacente perizia dei due giovani registi milanesi nel costruire un vigoroso racconto introspettivo per immagini, non può che rallegrarci e farci ben sperare per il futuro del nostro cinema, perché sappia districarsi dal pantano di commedie insulse e banalità sentimentali in cui sembra arenato. Completano il cast Annabelle Wallis, Clint Dyer e Tom Cullen, tutti ben calati nei rispettivi ruoli.

Voto:
voto: 4/5

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