lunedì 20 febbraio 2017

Manchester by the Sea (Manchester by the Sea, 2016) di Kenneth Lonergan

Lee Chandler è un solitario attaccabrighe in fuga dai fantasmi di un tragico passato da cui non riesce a liberarsi. Calpestato da rimorsi e rimpianti l’uomo abita in uno squallido seminterrato di Boston e sopravvive facendo umili lavoretti per gli inquilini di un condominio. La morte del fratello maggiore Joe, malato di cuore, lo costringe a tornare nella città del suo passato, Manchester-by-the-Sea, dove lo stupefatto Lee scopre di essere stato nominato tutore legale del nipote adolescente Patrick, unico figlio di Joe. Il frastornato Lee dovrà lottare tra l’amore per il ragazzo e la sua incapacità di accettare quella vita da cui era fuggito. Ormai non c’è più dubbio che il meglio del cinema americano contemporaneo proviene quasi sempre dal circuito indipendente, lontano dalle regole oppressive delle major hollywoodiane che sacrificano agilmente la qualità dei contenuti e la libertà artistica sull’altare del profitto. E non fa eccezione questo potente dramma autunnale di Kenneth Lonergan: un film asciutto, teso e maturo che riflette con stile sussurrato sulle tragedie familiari e sull’irrevocabilità del destino. La splendida ambientazione costiera del nord est degli Stati Uniti, con la sua fredda luce, il suo mare grigio e i suoi cieli limpidi che richiamano i paesaggi scandinavi, fa da cornice “vivente” a una storia di sommessa disperazione e di dolente solitudine, raccontata con sapiente lucidità dall’autore, in perfetto equilibrio tra asprezza e compassione. Senza mai alzare la voce ma con lo sguardo perennemente basso come quello del protagonista egregiamente interpretato da Casey Affleck (che, in quanto a talento recitativo, dista anni luce dal più celebre fratello Ben), il regista newyorkese, novello cantore di un’umanità schiacciata dal peso della vita, ci sintonizza sui ritmi e sui tempi di Lee, per svelarci gradualmente il suo mondo e i suoi tormenti, senza mai giudicarlo né compiangerlo, ma accompagnandolo nel suo doloroso percorso con passo felpato. Straordinaria la scelta stilistica di collocare a metà film la scena madre di maggiore intensità emotiva, quella che svela tutti i perché, asciugandone ogni tentazione sentimentale ma affidandola, pietosamente e lievemente, a uno struggente commento musicale classico che quasi copre le voci dei personaggi. Fedele a una messa in scena sobria ma non asettica, scrupolosa ma non gratuita, la pellicola non cerca catarsi, non “ricatta” mai il pubblico con il pietismo lacrimevole, né ambisce a consolatorie risoluzioni finali. Mira, piuttosto, con approccio garbatamente problematico, a suscitare una fertile riflessione nello spettatore, perché le cicatrici veramente profonde non possono mai rimarginarsi del tutto. Sarebbe allora il caso di dire al pubblico: lasciate a casa i fazzoletti ma utilizzate piuttosto testa, cuore e pancia, per digerire a piccole dosi questo film che ti entra sotto la pelle, anche nei giorni successivi alla visione. Un film adulto, misurato, raffinato e minuzioso nella cura del dettaglio. Un film che fa bene al cinema americano. Sei candidature agli Oscar 2017 (film, regia, attore protagonista, attore non protagonista, attrice non protagonista, sceneggiatura), due statuette vinte (sceneggiatura e Affleck) ed un cast ispiratissimo in cui, al già citato Affleck junior si aggiungono Lucas Hedges, Michelle Williams e Kyle Chandler.

Voto:
voto: 4/5

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